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Né ipse dixit né parole in libera (remunerata) uscita @DomaniGiornale

Trovo quasi sempre abbastanza interessante seguire, mantenendo qualche distanza, il dibattitto pubblico su tematiche importanti fra studiosi e intellettuali. So che esistono intellettuali e “professoroni” che si fanno pagare interviste e comparsate. Poiché a me, di persona personalmente non è mai capitato mi sono venuti alcuni dubbi sulla mia doppia appartenenza. Qualche indagine suppletiva potrebbe essere utile, si chiama trasparenza. Non nego che ascoltare opinioni diverse sia sempre una buona idea. Da qualunque punto di vista, democratico, il pluralismo è un valore in sé oltre a poter servire ad una miglior comprensione del problema e persino alla prospettazione di soluzioni. Credo che di soluzioni ce ne sia sempre più di una con i loro specifici tempi, vantaggi, costi. Infine, qui termina la mia premessa culturale e metodologica, auspico che anche le opinioni degli intellettuali e dei professori siano sottoposte al fact-checking. Più precisamente, le parole in libertà debbono essere ritenute tali, e basta.

   Quello che, invece, fermamente rifiuto e costantemente suggerisco di evitare è che nell’indispensabile contraddittorio, da un lato, vi sia necessariamente un interlocutore privilegiato. Allora meglio se il formato è quello di una intervista, naturalmente purché l’intervistatrice/tore abbia autorevolezza e preparazione adeguata. Dall’altro, che si eviti il richiamo risolutorio all’ipse dixit, ovvero della citazione che taglia la testa al toro perché è di uno studioso messo al disopra di tutto/tutti. Ne faccio un esempio solo, la dichiarazione di Noam Chomsky a Pressenza, la International Press Agency, pubblicata il 20 marzo 2022: “dovremmo assodare alcuni fatti che sono incontestabili. Il più cruciale è che l’invasione russa dell’Ucraina è un crimine di guerra maggiore, paragonabile all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e all’invasione della Polonia da parte di Hitler e Stalin nel settembre 1939”.

   Credo che tutti abbiamo diritto di chiedere a Chomsky quale è la sua definizione di crimini di guerra e quali sono i suoi criteri di valutazione. Questa è la procedura che dovrebbe guidare e impregnare il dibattito, si parva licet, anche quando ascoltiamo, senza prevenzioni, quanto Alessandro Orsini asserisce in interventi/eventi remunerati. In questa chiave, sento di potere respingere la dichiarazione di Chomsky nell’intervista già citata: “Non c’è commento da fare sul tentativo di Putin di offrire giustificazioni legali per la sua aggressione, tranne che vale zero”. Al contrario, quelle giustificazioni vanno prese sul serio e sottoposte a verifiche fattuali. Proprio come le affermazioni di coloro che vedono nell’aggressione russa all’Ucraina, mi correggo nella “operazione militare speciale”, il fattore scatenante e quelli che al contrario sostengono l’esistenza di prove dell’ambizione espansiva della NATO e, addirittura, delle ambizioni imperialiste di Biden (mi viene da sorridere poiché l’imperialismo intrattenuto dagli ottantenni mi pare, come minimo, piuttosto infrequente).

Il succo è che il dibattito deve essere impostato sull’apertura a una pluralità di opinioni, sulla verifica della loro validità, sul rifiuto dell’eccellenza di una qualunque di loro e, last, ma tutt’altro che least, sul valore di una convivenza giusta che non esclude, tutt’altro, che i responsabili delle operazioni militari, più o meno speciali, vengano chiamati a risponderne, politicamente e penalmente.

Pubblicato il 10 aprile 2022 su Domani

Joe Biden ha preso le redini degli Stati Uniti e sa cosa fare @POTUS

Un uomo di età certa e avanzata, il Presidente Biden, ha già cambiato alcune delle pessime politiche del suo predecessore Trump. Il senatore di lungo corso, otto anni vicepresidente di Obama, sa dove andare e come. Ha subito ri-conosciuto l’Unione Europea come interlocutore importante da favorire anche come partner commerciale, ma soprattutto come entità che condivide i valori democratici. L’ingente pacchetto di stimoli economici rilancerà gli USA, ma avrà effetti positivi per l’Unione Europe. La replica dei repubblicani, a partire dalla Georgia, consiste nel rendere più difficile l’esercizio del voto. Bruttissima storia che finirà alla Corte Suprema dove i giudici nominati dai repubblicani sono 6 contro 3. Tempi ancora bui e duri.

Trump, un pericolo per il mondo che è bene conoscere

C’era una volta un ordine internazionale liberale garantito dagli USA sotto forma di pax americana e tradotto nella creazione di organismi sovranazionali e nella crescente libertà dei commerci. Anche se non privo di graffi e di lesioni derivanti anche dai comportamenti degli USA, quell’ordine ha garantito la crescita complessiva del mondo. Oggi è lo stesso Presidente USA Trump che lo ha praticamente travolto. Stiamo e staremo tutti peggio.

Sartori, il teorico della democrazia che portava la logica nella politica

Intervista raccolta da Alessandro Lanni per RESET 

«La scienza politica deve essere rilevante, non è lo studio delle farfalle». E il tentativo di trovare la teoria nella realtà è quello che ha cercato di fare per tutta la vita Giovanni Sartori, il politologo fiorentino scomparso il 1 aprile a quasi 93 anni. La battuta è di Gianfranco Pasquino, anch’egli scienziato della politica, ex senatore, ma qui soprattutto allievo e grande conoscitore di Sartori fin da quando frequentava le aule dell’università “Cesare Alfieri” di Firenze negli anni Sessanta. Nel teorico che cerca la “rilevanza” delle sue idee nella realtà sta l’originalità di Sartori, spiega Pasquino. Reset gli ha chiesto di tratteggiare un ritratto a partire dai ricordi personali per arrivare collocare quello che definisce un “gigante della scienza politica mondiale” nella giusta prospettiva.

Come inizia la carriera di Giovanni Sartori come scienziato della politica?

Sartori scriveva moltissimo in numerose riviste nelle quali faceva di tutto, anche il direttore. Scrive e scrive, dal 1950 al ’64 che è l’anno in cui vince un concorso non di scienza politica ma di sociologia. E si tratta di un concorso celebre perché, se non sbaglio, i vincitori dei tre posti furono: Franco Ferrarotti, il secondo Sartori e il terzo Alessandro Pizzorno. Insomma, un concorso di giganti.

E così arriva a insegnare alla “Cesare Alfieri”.

A questo punto, quando l’università di Firenze lo chiama, chiede che il suo posto sia trasformato da sociologia in scienza della politica, una cattedra nuova fatta per lui. In quegli anni però era già famoso all’estero, in particolare negli Stati Uniti perché la scienza politica europea fino all’inizio degli anni Sessanta era piuttosto modesta.

Un grande intellettuale invisibile all’opinione pubblica italiana?

Sartori diventa molto famoso in Italia quando comincia a scrivere sul Corriere della sera nel 1969, quando arriva alla direzione Giovanni Spadolini. Ero a Firenze nel corso che teneva per i giovani allievi – a dicembre del 1967 – non aveva visibilità pubblica in Italia. In quegli anni Sartori era esclusivamente dedito a studiare, a frequentare università e convegni molto lontani dall’Italia. La sua presenza pubblica fino al 1969 era quasi inesistente.

Qual era la situazione della scienza politica in quegli anni in Europa?

C’era un solo personaggio, il norvegese Stein Rokkan che era soprattutto un grande organizzatore culturale. E poi c’erano Maurice Duverger e Raymond Aron che erano visibili, direi, perché “parigini”. Non ricordo un tedesco o un inglese vero scienziato della politica agli inizi degli anni Sessanta. Un grande storico della politica inglese scrisse un libro molto cattivo contro la scienza della politica americana. Bernard Crick era un personaggio importante nella cultura anglosassone e che scrisse in seguito una bellissima biografia di George Orwell.

E Sartori come si collocava in questo panorama?

Sartori era famoso perché andava ai convegni internazionali e scriveva e parlava l’inglese molto bene. È lui stesso a tradurre il suo libro Democrazia e definizioni (Il Mulino 1967) e lo pubblica in America nel 1960 in una versione da lui tradotta e adattata Democratic Theory (1962). Proprio in quegli anni viene invitato a Yale.

In che modo ha segnato la scienza politica?

L’originalità vera era la sua grandissima capacità di scrivere in maniera efficace e brillante e in maniera molto precisa. La costruzione dei concetti di Sartori e l’uso delle parole sono incredibili. E poi l’uso della logica in scienza politica con un atteggiamento positivistico ovvero il contrario dell’idealismo. Sartori aveva iniziato insegnando filosofia e aveva scritto anche su Croce. Ma fu comunque sempre un positivista. L’altro elemento di originalità è che lui conosceva la storia filosofica di questi concetti, quello di rappresentanza e di democrazia in primo luogo.

In Italia che ruolo ha svolto?

Da un lato, c’era la scienza della politica alla Norberto Bobbio, che era un filosofo, che era l’ala sinistra e che io definirei “azionista” anche se Bobbio era molto vicino anche ai socialisti. Sartori era il contrappeso, era la cultura politica liberale classica. Torino, quella di Bobbio, era una facoltà di scienze politiche spostata a sinistra, Firenze invece era piuttosto ortodossa e di destra, destra liberale in quel periodo. I due sapevano di essere diversi e sfruttavano queste differenze. Sartori ha scritto di democrazia molto prima che ne scrivesse Bobbio che pubblica Il futuro della democrazia nel 1984, Sartori aveva scritto il suo addirittura nel 1957. La versione definitiva, una vera e propria summa, fu The Theory of Democracy Revisited (1987, in due volumi), recensita dal filosofo torinese nella rivista “Teoria Politica”.

Un concetto chiave della democrazia liberale è quello di “élites”, oggi uno dei principali bersagli dei movimenti populisti di destra e di sinistra nel mondo.

Sartori ha scritto sulle élites. Ha studiato Mosca, Michels e Pareto. Quel concetto di élites Sartori lo tiene presente in particolare perché la sua teoria della democrazia è largamente ispirata a quella di Schumpeter ovvero l’idea che gli elettori scelgono tra gruppi in competizione tra di loro e chi vince e dovrà governare è di fatto un’élite politica. Si tratta di una teoria competitiva della democrazia tra gruppi che dovrebbero avere competenze e capacità. Una buona democrazia secondo Sartori è quella governata da élites politiche e non conquistata da élites economiche.

E come pensava che la democrazia potesse raggiungere questo obiettivo?

Sartori vuole che la democrazia sia governante, ma non si impicca a questo aggettivo. Quello che importa sono le procedure e le modalità con cui vengono scelti i governi. E qui c’è la valutazione positiva del sistema tedesco dopo il 1949 che ha saputo produrre élites governanti.

Un’altra definizione sartoriana è quella di “poliarchia del merito”.

“Poliarchia” è un termine utilizzato da Robert Dahl che Sartori conosceva e frequentava perché un periodo ha insegnato a Yale nel 1966 o ’67, credo. Il punto fondamentale – su cui Sartori è d’accordo con Bobbio – è che la democrazia c’è quando c’è pluralismo.

“Pluralismo polarizzato”. Con questa espressione Sartori definisce la democrazia italiana, in particolare quella della “Prima repubblica”.

In verità, il caso italiano lo ha attratto solo in un secondo tempo. Sartori ha sempre voluto fare della politica comparata e l’Italia era solo un caso, e nemmeno tra i più importanti. Chi voleva confrontare sistemi politici sessant’anni fa doveva inevitabilmente studiare gli Usa, la Gran Bretagna e la Germania. Ma poi doveva studiare la Francia che presenta una transizione di regime politico dalla Quarta alla Quinta repubblica nel 1958. E Sartori l’ha detto ripetutamente: per capire l’Italia bisogna soprattutto aver studiato altri sistemi. Chi conosce solo l’Italia non è neanche in grado di spiegare l’Italia.

E da dove è partito per capire l’Italia?

Il pluralismo polarizzato si trovava nella Germania di Weimar, nella Spagna che poi diventerà franchista, nella Francia della IV repubblica e nel Cile di Allende. Dove ci sono due opposizioni estreme, anti-sistema, l’una di destra e l’altra di sinistra comunista non è possibile avere coalizioni stabili. In tutti i casi di pluralismo polarizzato il sistema è crollato. Solo in Italia si è salvato grazie al fatto che il centro era molto grande. Questa spiegazione comparata mi sembra ancora molto brillante.

Quella descrizione del caso italiano funziona ancora?

Oggi si potrebbe dire che non essendoci più fascisti e comunisti quel tipo di sistema politico è scomparso. Eppure la polarizzazione può ancora esserci. Se esistono partiti che si collocano all’estrema destra e sinistra che non possono collaborare tra di loro, è chiaro che il sistema si blocca di nuovo al centro. Sartori diceva che questo è un caso classico in cui non c’è alternanza e nel centro si scaricano tutte le contraddizioni e quindi anche la corruzione si rivolge verso il centro che governando sempre diviene il catalizzatore di chi vuole privilegi. Dove non c’è alternanza non si mandano mai via i “mascalzoni” dal potere. E questo è stato il caso italiano.

Ma esistono oggi in Italia destra e sinistra estrema?

Il problema vero – e questo lo ha scritto anche Sartori – è che il sistema italiano è destrutturato. I partiti ci sono e non ci sono, spariscono, si fondono e si scindono e il sistema non è consolidato. Il sistema del “pluralismo polarizzato” ha resistito perché tra il 1946 e il 1992 nascono pochissimi partiti, praticamente solo la Lega. Mentre nel periodo post-92 è successo di tutto. Un sistema nel quale si producono sbalzi, inconvenienti, rotture che quindi non garantisce la governabilità, parola cara ai renziani, ma che Sartori usa pochissimo, è destinato all’instabilità .

Sartori e Bobbio sono stati due giganti della filosofia e della scienza politica.

Norberto Bobbio è stato un grande filosofo della politica. Di lui rimane il tentativo di creare una teoria generale della politica, sempre smentita, ma i cui elementi si possono trovare nei suoi scritti. Il libro Destra e sinistra rimane un tentativo importante di definizione delle due polarità politiche. Il profilo ideologico del Novecento è il miglior libro di Bobbio, un libro straordinario. Bobbio apprezzava molto Sartori, malgrado criticasse alcuni aspetti delle sue posizioni politiche e a sua volta Sartori ha apprezzato molto Bobbio. C’era anche un rapporto personale buono. Sartori parlò alle Lezioni Bobbio l’anno successivo alla morte del filosofo e scrisse un bellissimo necrologio nella “Rivista Italiana di Scienza Politica” (che aveva fondato nel 1971), dichiarando senza mezzi termini : “era il migliore di noi”.

E qual è l’eredità che Giovanni Sartori ci lascia oggi?

Di Sartori rimane un libro insuperato, forse insuperabile, sui partiti e rimane la teoria della democrazia. La democrazia partecipativa, deliberativa oppure in rete, si possono pur fare, ma prima bisogna aver costruito la democrazia nei termini delineati da Sartori. Altrimenti queste sono “corsette” fatte su un filo sull’abisso. E soprattutto di Sartori rimane l’idea che la scienza politica debba essere applicabile, che deve essere applicata. Le conoscenze sono migliori nel momento in cui sono applicabili alla realtà. La scienza politica serva a capire i meccanismi e le istituzioni, ma, soprattutto, a trasformare quei meccanismi e quelle istituzioni per migliorare la vita. E lo studio di come gli uomini e le donne si comportano in politica secondo certe regole. Questa parte del pensiero di Sartori, enunciata nel libro Ingegneria costituzionale comparata (più volte pubblicata dal Mulino, da ultimo 2004) è potentissima, anche quando si è in disaccordo. E’ il migliore esempio di come si possa fare scienza politica rilevante.

Pubblicato il 10 aprile 2017 su 

 

La gara, finalmente

Corriere di Bologna

“Ce n’est qu’un début” direbbero gli studenti del maggio francese del 1968. Siamo soltanto agli inizi delle molto importanti primarie per diventare non soltanto il candidato del Partito Democratico, ma, in rapida sequenza, anche, visto lo sfacelo del centro-destra, il prossimo Presidente della Regione Emilia-Romagna. Il “Corriere di Bologna” ha già abbondantemente spiegato chi sono i candidati e da dove vengono. Toccherà poi ai candidati spiegare perché saranno ottimi Presidenti della Regione e, se parleranno di innovazioni, chiarire anche quali, dove e come. Sì, contrariamente a quello che ha detto Bersani, le primarie sono un grande spazio politico e tanto meglio se diventano affollate. No, contrariamente a quello che ha detto Bersani, immagino che volesse rimproverare qualcuno, il Partito Democratico non è affatto tenuto ad avere un suo candidato ufficiale e se Daniele Manca non si è presentato (o è stato “invitato” a non presentarsi), la scelta è stata (tutta?) sua.

Senza scandalo alcuno, succede così anche negli Stati Uniti, è già cominciata la fase degli endorsements, ovvero delle dichiarazioni a sostegno dei vari candidati. Sono tutte suggestive, vale a dire suggeriscono qualcosa. Dietro Bonaccini, superrenziano della seconda ora (nella prima ora era ancora bersaniano di ferro), si è schierata, con qualche aggiunta, quasi tutta la vecchia guardia del PD, non nata ieri e che, evidentemente, vuole ricordare al segretario regionale che ci sono carriere in corso, da tutelare. Invece, Bersani dice che lui il nome del suo candidato lo farà poi. Suspense, anche per il candidato di Prodi. Sembrava, e certamente ci contava, dovesse essere Patrizio Bianchi che, adesso, se quel pesante endorsement prodiano (andato nel passato cittadino sia a Cofferati che a Delbono) non venisse, sta già intrattenendo l’idea del ritiro e della convergenza, legittima, ma anche un po’ deludente. Insomma, invece di essere resistenti e di portare in maniera convinta nelle primarie le loro idee, alcuni preferiscono essere “desistenti” in attesa di qualche carica a futura memoria. Neanche questa operazione, assolutamente legittima, deve essere considerata scandalosa. Sicuramente impoverisce il dibattito e riduce le possibilità di scelta degli elettori.

Dall’abbondanza di candidature, che è e rimane un pregio, la prospettiva è che si giunga, se Matteo Richetti confermerà la sua candidatura, ad una bellissima triangolazione. Con lui, renziano veracissimo, ma un po’ trascurato dal suo leader, rimarranno in campo Bonaccini, con le ambizioni ridimensionate per una carica che gli preclude una carriera nazionale, e Roberto Balzani che sa correre rischi, anzi, ai rischi va incontro con la sua biografia e il suo profilo programmatico. Lasciando perdere la classica, ma troppo spesso smentita dai fatti, attribuzione della qualità di laboratorio all’Emilia-Romagna, ci troveremo pertanto di fronte ad un confronto scontro assolutamente interessante fra un candidato, Bonaccini, che, nonostante il suo ostentato renzismo, viene, certamente non a sua insaputa, condizionato dalla vecchia guardia (che non s’arrende e non ha nessuna inclinazione a morire), il renzianissimo Richetti e un renziano per idee proprie, Roberto Balzani che, almeno finora, non deve niente e non ha chiesto niente a nessuno. Menù corto, ma piatti ricchi: le primarie sono servite.

Pubblicato il 31 agosto 2014