Il dibattito sulla legge che fissa il limite e l’emendamento leghista bocciato: «La norma così va benissimo, è stata pensata per evitare l’accentramento, il ricambio serve alla democrazia. Potrebbe candidarsi alle Europee, lo farà?»
Intervista raccolta da Marco Madonia
«Un lavoro sono in grado di trovarmelo da solo», disse Mario Draghi per scacciare i dubbi su un suo ipotetico ruolo politico dopo la rielezione al Quirinale di Mattarella. Il politologo Gianfranco Pasquino cita l’ex premier per smontare la richiesta di terzo mandato. «Zaia, Bonaccini e De Luca non sono Draghi..», dice il professore emerito dell’Alma Mater che benedice il voto che ha bocciato l’emendamento leghista.
Perché lei è contrario all’innalzamento del limite dei due mandati per presidenti delle Regioni e sindaci delle grandi città? «La legge così com’è va benissimo, è stata pensata per impedire un eccessivo accentramento nelle stesse persone. Il ricambio è un elemento di salute della democrazia. La concentrazione di poteri non va mai bene, perché poi quel potere può essere usato per fini personali. Andare oltre i 10 anni è una forzatura».
In Veneto se Zaia si ricandidasse vincerebbe a mani basse. «Non si cambiano le leggi in riferimento alle persone, mica si interviene perché si vuole salvare Zaia, Bonaccini o perché non si sa quale sarà la reazione di De Luca. In questo caso la motivazione è chiarissima. La Lega dice che gli elettori voterebbero Zaia? È un modo di ragionare profondamente populista, le leggi si osservano e basta».
Però le leggi si possono cambiare. «Sì, ma a bocce ferme, non quando si sta giocando la partita».
Chi vuole modificare il tetto dice che non vale per la premier Meloni che potrebbe fare ben più di due mandati. Anche Andreotti ne fece di più. «Andreotti ha fatto il presidente del Consiglio sette volte. Lui come Meloni sono indicati dal Parlamento. Il paragone con i governatori eletti dai cittadini è sbagliato».
Anche i parlamentari non hanno limiti. «Ma rappresentano il potere legislativo, mica l’esecutivo. È diverso».
Nel Pd il no al terzo mandato è lo strumento di Schlein per mettere fuorigioco Bonaccini? «E se io dicessi il contrario? Bonaccini vuole continuare a fare il presidente della Regione per stare al centro del campo e condizionare la segretaria». Alle Europee Bonaccini potrebbe fare il pieno di preferenze. Resterebbe al centro. «Benissimo, si faccia candidare e poi discutiamo se le preferenze valgono per il Parlamento europeo o per il partito nazionale» E il centrodestra? «Salvini cerca di recuperare consensi su Meloni e vuole il terzo mandato di Zaia perché può essere uno sfidante pericoloso per la leadership della Lega. Le regole, però, vengono prima dei destini personali».
In Regione, senza Bonaccini, il centrosinistra rischia di perdere? «Sarebbe preoccupante se il centrosinistra in una regione come l’Emilia-Romagna non fosse in grado di trovare una candidatura autorevole».
Dopo Errani non è che ci fosse la fila per fare il governatore. «Se vuole possiamo fare un toto candidature».
Prego. «Elisabetta Gualmini ha un curriculum di rilievo e ci sta pensando, anche Isabella Conti lo può fare. In un partito ci dovrebbero essere almeno cinque possibili candidati, altrimenti la questione è grave».
Italia Viva dice che il no delle opposizioni ha evitato un inciampo al governo. «Questi sono escamotage, votare per opportunismo che senso ha? Cosa sarebbe successo se avessero votato si? La situazione della sinistra sarebbe migliorata? Il Paese ne avrebbe avuto un beneficio? Si tratta solo di stratagemmi che ingannano elettori. Del resto, Salvini sapeva che avrebbe perso».
Salvini non è bravissimo con le previsioni. . «A maggior ragione, dovrebbe smetterla di fare queste operazioni. A meno che avesse un altro obiettivo, ma questo io non lo so».
“Un lavoro sono in grado di trovarmelo da solo”. No, non sono parole di Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto; non di Stefano Bonaccini, Presidente della Regione Emilia-Romagna; neanche di Matteo Ricci, attivissimo sindaco di Pesaro. Tutti al termine del loro secondo e ultimo mandato, da un lato, sperano che venga eliminato il limite ai due mandati, dall’altro, attendono che qualcuno, il partito, trovi un lavoro per loro. Nessuno di loro è in grado di pronunciare le parole di Mario Draghi. L’attaccamento alla (no, non scriverò “poltrona”) carica è evidente. Non è etichettabile come passione. Qualcuno, non chi scrive, direbbe “occupazione”, forse, un po’ meglio, “professione”. Certamente, è non osservanza delle regole istituzionali notissime a chi si candidò a quelle cariche una decina di anni fa. Zaia ha dichiarato che a decidere della continuazione dei mandati, a cominciare dal suo, dovrebbero essere gli elettori. Questa dichiarazione ha un retrogusto populista. Fa parte del problema che la legge che contempla il limite ai mandati voleva contrastare e risolvere, vale a dire, evitare la cristallizzazione del potere di sindaci e poi di presidenti a lungo in carica, diventati molto popolari e in grado di sfruttare, spesso inevitabilmente, le relazioni intessute del corso del tempo e anche, altrettanto inevitabilmente, la capacità di distribuire in maniera selettiva le risorse.
Il ricambio nelle cariche, tecnicamente la circolazione delle elites politiche, è (quasi) sempre positivo anche per la circolazione delle idee, delle proposte, delle soluzioni. Un buon ricambio caratterizza le democrazie meglio funzionanti. Naturalmente, in democrazia è sempre possibile cambiare le leggi. Anzi, una delle caratteristiche politiche più apprezzabili delle democrazie è che tutti i protagonisti e il regime stesso sono in grado di imparare, di risolvere gli errori, di individuare soluzioni migliori. Fu un errore mettere un limite ai mandati di governo dei sindaci e poi dei Presidenti di regione? L’abolizione di quei limiti può essere presentata e giustificata come una soluzione istituzionale preferibile all’esistente?
Però, l’appassionante (sic) dibattito attuale non verte su questi punti problematici. Premesso che le regole istituzionali possono essere cambiate come si è fatto in Italia da quarant’anni ad oggi, e ancora si farà, purtroppo non proprio con miglioramenti epocali (scusate l’eufemismo), la regola delle regole, non solo in politica, è che non debbono mai essere cambiate, in corsa, di corsa, durante il gioco. E, se vengono cambiate quando il gioco è in corso, le nuove regole non possono valere se non trascorso un certo periodo di tempo, in questo caso, almeno tutto un mandato. Alcuni sindaci, terminato il doppio mandato, sono tornati campo, con successo, ma anche no, dopo avere saltato un turno.
Detto che le regole possono essere cambiate, bisogna aggiungere, ma non dovrebbe essere necessario, che è imperativo che le motivazioni siano assolutamente di natura istituzionale: la possibilità di svolgere un terzo mandato implicherebbe/rà un salto di qualità nei governi locali; darebbe un contributo decisivo al buongoverno degli enti locali, potenzialmente di tutti quegli enti dalle Alpi alla Sicilia. Invece, l’estensione del terzo mandato viene giustificata con riferimento agli occupanti e ai loro partiti, ragioni personali e partitiche. La Lega è favorevole perché senza Zaia “perderebbe” il Veneto. Nel Partito Democratico qualcuno sostiene, forse, l’estensione perché teme di non sapere come sostituire alcuni governanti locali e come e dove “piazzare” gli uscenti. Fratelli d’Italia ha dalla sua l’osservanza della legge sull’esistenza dei limiti ai mandati e della loro applicazione senza eccezioni anche perché ne deriverebbe un notevole riequilibrio del potere locale a suo vantaggio. Ho l’impressione che questa brutta storia finirà con la vittoria dell’opportunismo variamente declinato piuttosto che delle regole esistenti. Se perdono coloro che sostengono che regolae sunt servandae , saranno sconfitti anche i molti cittadini democratici che ritengono che la democrazia è rule of law, governo della legge.
Condotto da più parti, dalla destra in maniera più agguerrita e diversificata, è in corso un attacco ad alcune regole formali e informali, ma anche sostanziali, che riguardano il funzionamento delle istituzioni e il modo di fare politica in democrazia. Il primo versante dell’attacco riguarda le candidature per le elezioni europee e, in misura minore, per le elezioni regionali. Qualsiasi discorso sulle candidature europee deve sempre cominciare sottolineando, ad avvertimento dei lettori e degli elettori, che esiste incompatibilità fra la carica di parlamentare europeo e quelle di parlamentari e governanti nazionali. Dunque, eletti ed elette dovranno optare per una delle cariche e se optassero per rimanere in Italia l’inganno perpetrato ai danni di chi le ha votate dovrebbe essere subito stigmatizzato. A maggior ragione quando la candidatura europea fosse utilizzata, non solo come test di popolarità, ma come modo per conquistare voti: la tentazione di Meloni. Suggerirei anche di non rivangare candidature europee passate di leader nazionali di vari partiti, poi ovviamente rimasti in Italia. Sono tutti pessimi esempi. L’uso strumentale delle elezioni europee non è destinato a rafforzare il ruolo dell’Italia, dei suoi europarlamentari e poi del suo Commissario proprio quando i prossimi cinque saranno densissimi di appuntamenti importanti e scelte decisive: riforma dei trattati e allargamento. Per l’appunto, il dibattito politico merita di centrarsi sulle posizioni e sulle proposte dei candidati e sulle loro competenze e capacità relative in special modo a quelle due grandi tematiche.
Anche nel caso delle elezioni regionali, è opportuno, nella misura del possibile, procedere alla valutazione delle prestazioni, il passato, e delle promesse/proposte delle (ri)candidature. Naturalmente, i Presidenti uscenti si presentano con un bilancio più facile da analizzare e da lodare/criticare delle proposte degli sfidanti. Già questa operazione di confronto sarebbe molto utile e offrirebbe agli elettori materiale in grado di consentire un voto meglio fondato e più consapevole. Invece, il discorso dei dirigenti di partito, soprattutto quelli facenti parte della coalizione di governo, sembra orientato verso due elementi. Primo, il riequilibrio che andrebbe a scapito della Lega e a favore di Fratelli d’Italia e, secondo, la ridefinizione del numero dei mandati consentibili.
Sul primo punto, la questione non può non essere affidata ai rapporti di forza, ma risulterebbe molto più convincente e meno particolaristica se, come sopra, fossero utilizzati criteri che privilegiano le capacità di governo che i candidati poi vittoriosi saprebbero mettere all’opera per migliorare la vita degli elettori tutti. Qui entra in campo il criterio del buongoverno che, secondo alcuni, dovrebbe essere anteposto e prevalere sulla regola dei due mandati. Inevitabilmente, il dibattito si sposta sui nomi. In ballo non sembra essere Stefano Bonaccini, il Presidente della Regione Emilia- Romagna, in scadenza, forse pronto ad un fecondo passaggio al Parlamento europeo, quanto Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto. La Lega non vuole rinunciare a quella Presidenza. Chiede quindi la possibilità di un terzo mandato per Luca Zaia con la motivazione che ha molto ben governato e che sarebbe un danno per i veneti se fosse costretto a lasciare. In subordine, ma difficile dire quanto, Zaia “rischia” di diventare uno sfidanti di Salvini per la guida della Lega.
La regola del due mandati per le cariche di sindaco e di Presidente di regione (a futura memoria anche per i capi dell’esecutivo nazionale, se eletti direttamente dal “popolo”) mira ad impedire incrostazioni di potere, al formarsi di reti di sostegno intorno all’eletto che lo favoriscano, ma anche che siano in grado di condizionarlo. Del terzo mandato (poi anche del quarto…) se ne potrebbe discutere, ma non in corso d’opera. Come e più che per le elezioni europee, adesso appare preferibile discutere dei contenuti e rimandare la riforma delle regole a bocce ferme. Meno opportunismo più rispetto delle regole vigenti producono una politica migliore.
Non è la prudenza, poiché l’emergenza non è finita, a impedire, comunque procrastinare, la nomina del Commissario alla ricostruzione in Romagna. Il ritardo oppure, se si preferisce, il temporeggiamento del governo Meloni non dipende affatto da motivi tecnici. In situazioni simili, hanno fatto notare molti Presidenti di regione, comprese quelle governate dal centro-destra, i vari governi hanno regolarmente e rapidamente provveduto ad affidare il compito allo stesso Presidente della regione colpita. Lui conosce meglio di altri il suo territorio, le associazioni, le problematiche, le attività economiche e sociali, i cittadini. Lui parte avvantaggiato poiché è l’autorità che ha anche il potere politico e amministrativo della sua regione. I precedenti vanno tutti nello stesso senso, in Emilia il più recente, essendo anche di successo, riguarda la ricostruzione dopo il terremoto in una zona caratterizzata dalla presenza di prestigiose e produttive aziende operanti nel settore biomedicale. In Romagna sono state colpite numerose imprese piccole e medie attive in una pluralità di settori, ma soprattutto l’inondazione ha distrutto parte cospicua della fiorente attività agricola. Per salvare il salvabile, quantomeno per contenere le conseguenze negative altrimenti destinate a durare per l’oggettiva impossibilità di bonificare i terreni e riprenderne l’uso, è imperativo procedere a costosi interventi immediati, che significa subito. Effettuata la sua incursione pubblicitaria con gli stivali in Romagna, mostrato il suo volto di governante di destra compassionevole, Giorgia Meloni è tornata a Roma a fare, sicuramente influenzata da esponenti emiliani dei Fratelli d’Italia, due conti politici. Gli stanziamenti promessi sono stati ridotti e non sono ancora pervenuti. Ma soprattutto è lampante la propensione a non nominare commissario straordinario il Presidente Stefano Bonaccini. Sotto sotto si lascia circolare l’idea che il troppo consumo del territorio e la mancata predisposizione di alcune misure rendano Bonaccini almeno in parte responsabile di quanto avvenuto, non prevenuto, non adeguatamente tenuto sotto controllo. Il sospetto è infamante, fatto trapelare per eventualmente giustificare l’istituzione di una Commissione di inchiesta e la non-nomina di Bonaccini. Il Commissario alla ricostruzione dovrà disporre di ingenti fondi per, ricostruire e rilanciare un’economia che era fiorente e quindi ricca e che contribuiva non soltanto alla ricchezza dell’Emilia Romagna, ma anche in quantità significativa al Prodotto Nazionale Lordo. Quel Commissario deciderà dove intervenire, come, cosa, chi e quanto finanziare. Molti operatori economici gli saranno grati, anche, inevitabilmente, dal punto di vista politico. Le prossime elezioni regionali saranno nella primavera del 2025, non vicine, quindi, ma probabilmente, la ricostruzione sarà ancora in corso e altri fondi verranno resi disponibili. Un Commissario “tecnico” darebbe la garanzia di non favorire il partito al governo in Emilia-Romagna e nei molti comuni colpiti. Neppure è da escludere la nomina di una personalità politica di Fratelli d’Italia che abbia conoscenza diretta della regione. Un nome già circola. Poco importa che i ritardi incidano negativamente sulla ripresa e sullo stesso PIL nazionale. Non è del tutto impensabile che con la nomina di un Commissario amico il governo di centro-destra miri a rendere, vecchio sogno, contendibile la più importante regione ancora governata dal PD. Il costo economico sarà elevato, ma la posta politica è elevatissima.
La nuova segretaria del Partito Democratico deve ricostruire un’organizzazione, non solo una comunità, come dicono in politichese, ma una struttura presente e attiva sul territorio. Il lavoro è tutto da fare, molto meno sexy del declamare a voce alta e magari indignata i diritti civili e sociali sui quali il governo è debole, ma almeno altrettanto importante. Infatti, è grazie ad un’organizzazione ben funzionante che quei diritti saranno comunicati ai simpatizzanti e ai potenziali elettori, saranno spiegati in maniera da coinvolgerli e fare nascere e crescere in loco la convinzione che un governo a guida PD renderebbe il paese più solidale, più vitale, migliore. Naturalmente, in questo compito, a mio parere decisivo, dovrebbero avere un ruolo centrale gli iscritti che molti resoconti, non so su quali basi, riferiscono essere, se non proprio umiliati, delusi e scoraggiati poiché la loro preferenza per il segretario è risultata (s)travolta dagli elettori/elettrici primarie/e.
Come si ricostruirà un partito intorno alle due proposte che, molto schematicamente, sono emerse nelle poche esternazioni in materia di Schlein e Bonaccini? Davvero la nuova segretaria crede che sarà sufficiente l’afflusso di poche decine di migliaia di iscritti (quanto davvero nuovi e non rientri sarà poi utile sapere) e l’apertura ai movimenti, alla famosa società civile, a rinnovare/ristrutturare il partito? Davvero il neo-presidente del partito è convinto che la spina dorsale del PD debbano essere gli amministratori locali, tutti wonderwomen e supermen che oltre all’intensa e assorbente attività amministrativa avranno tempo e voglia da dedicare alle riunioni e all’attività di partito con il rischio di politicizzare la loro carica di governo locale?
Schlein non ha in nessun modo chiarito quale può essere l’offerta alle associazioni e ai gruppi esterni che li convinca ad avvicinarsi al PD. Forse due “sardine” in Direzione sono un primo segnale, ma inevitabilmente già concluso. Mi parrebbe molto opportuno tentare, in una pluralità flessibile di forme, l’instaurazione di un rapporto con i lavoratori organizzati, non tipo cinghia di trasmissione che rischierebbe di essere il sindacato CGIL che detta con il PD che si adopera per l’attuazione. Precari e pensionandi, che sono gran parte di quel mondo, attendono risposte che tengano insieme credibilmente quanto troppi spacchettano ovvero proprio come non solo difendere il lavoro, ma produrne le opportunità, di volta in volta, riconoscendo nei fatti la centralità come elemento di sussistenza e di dignità. Non è un frase fatta, ma un impegno da prendere e da articolare.
Auspicabilmente, un Partito Democratico dovrebbe porre in alto sulla sua agenda il tema della partecipazione politica, come apprendimento, come modalità di rapportarsi agli altri, come attività che può dare soddisfazione nel perseguimento di obiettivi personali e di solidarietà. Al diversificato “popolo” (sic, non “partito”) degli astensionisti va mandato non solo l’invito alla partecipazione in quanto dovere politico e al voto in quanto dovere costituzionale (art. 48), ma anche il messaggio che chi partecipa contribuisce a fare sì che le sue preferenze e i suoi interessi siano presi in seria considerazione. Tutto questo potrà essere fatto partendo dal basso, non sta a me valutare quanto gli esistenti circoli siano in grado di rilanciarsi, dai livelli locali favorendo l’emergere di una nuova classe dirigente e di una cultura politica che richiede studio e apprendimento. L’ora è già scoccata.
Immagino che una buona parte, sicuramente maggioritaria, di coloro che hanno votato Elly Schlein stiano assistendo con amarezza e irritazione (che condivido) all’abbandono del partito ad opera di alcuni dirigenti dem e dei loro seguaci. Il precedente di coloro che perdono e se ne scappano con il pallone dopo avere giocato, non del tutto meritatamente, in ruoli di rilievo, esiste, ma visibilmente non ha dato vita a nulla che assomigli ad una prospettiva riformista. Ho molto apprezzato il discorso di concessione della vittoria effettuato a caldo la sera stessa da Stefano Bonaccini. Apprezzo molto meno le indiscrezioni che lo danno in attesa di un ruolo di rilievo nel partito. Non sarebbe preferibile che continuasse a dedicare le sue energie al buongoverno di quella regione importante che è l’Emilia-Romagna e che, evitando di cumulare cariche, si accordasse su un nome di suo gradimento per il ruolo operativo che la segretaria intendesse affidare alla sua (di Bonaccini) area? Se, poi, i democratici in (cattivo) odor di abbandono alzassero gli occhi si renderebbero conto che i commentatori di ogni ordine e grado che stanno prematuramente plaudendo all’espressione del loro disagio e dissenso non lo fanno perché desiderano la nascita di un “vero” partito riformista e liberale (qualcuno potrebbe anche, per carità, spiegarmi che cos’è un “falso” partito riformista?), ma perché semplicemente mirano a indebolire il PD e la sinistra in Italia.
Né ieri né l’altro ieri, potrei anche scrivere mai, le scissioni hanno portato a qualcosa di buono, non per chi lascia e neppure per chi resta. Qualche briciola elettorale non cambierà in meglio le sorti del sedicente terzo polo a meno di profonde e imperscrutabili innovazioni politiche e culturali. Quello che risulta ancora più preoccupante è che gli esodanti non possono, al momento, riferirsi a nulla di particolarmente concreto, spiazzante e sgradito già fatto da una segretaria che deve essere incoronata domenica prossima. Dunque, non sono le sue azioni e neppure le sue proposte, grazie alle quali ha vinto la carica, a spingere alla fuoruscita, non sono atteggiamenti sprezzanti, ma il suo essere quello che è: una donna di sinistra che vuole rivitalizzare un partito ripiegato su se stesso aprendolo alle donne, ai giovani e ai precari, intesi in senso molto lato come coloro che non vedono opportunità. Invece, alcuni dei fuoriuscenti, che, certo, non definirò eccellenti, hanno molto goduto di opportunità concesse loro proprio dal Partito Democratico. Peccato che non abbiano più fiducia nelle loro capacità di argomentazione e di formulazione di linee alternative. Peccato che non sappiano che un po’ dappertutto nei partiti, più spesso in quelli di sinistra il cui seguito è alquanto eterogeneo, si aggregano opposizioni alla linea ufficiale senza dannosi deflussi. Peccato, infine, che troppe delle loro lamentele ricalchino le critiche a Elly Schlein che sono subito venute dal centro-destra, salotti televisivi, editorialisti, politici “affermati” e in carriera.
Non so quanto Schlein sarà in grado di mantenere quello che ha promesso, ma sono convinto che il tentativo di cambiare il Partito Democratico debba essere esperito, magari con le opportune correzioni che gli oppositori interni siano in grado di argomentare e suggerire. Da ultimo, indebolire il PD significa aprire altri spazi al governo di centro-destra e ridimensionare le possibilità di rappresentanza politica, di interessi e di preferenze, proprio di quella parte di italiani che ne hanno maggiormente bisogno. Un capolavoro di riformismo.
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, spiega di votare Elly Schlein domenica perché «ha più grinta di Bonaccini» e dice che il Pd deve ragionare «su che tipo di struttura si vuole dare a un partito riformista e di sinistra in Europa negli anni 30 del 2000».
Professor Pasquino, cosa si aspetta dalle primarie del Pd di domenica dopo i 150mila voti tra gli iscritti al partito?
Innanzitutto una premessa a cui tengo molto: queste non devono essere chiamate primarie, ma è l’elezione del segretario del Pd a opera non dei soli iscritti, come secondo me dovrebbe essere, ma di simpatizzanti e potenziali elettori. I 150mila elettori tra gli iscritti non sono né pochi né tanti, ma parliamo comunque di una cifra di gran lunga superiore a qualsiasi capacità di mobilitazione di qualsiasi altro partito nel paese. Quindi è un buon segno. Sarebbe il caso che domenica almeno un milione di persone andassero a votare, poi vedremo. Ma a fronte di un’astensione generalizzato temo che questo possa incidere anche sull’elezione del segretario del Pd.
Lei andrà a votare?
Andrò a votare e voterò per Elly Schlein.
Perché?
Perché per guidare il Pd serve quella grinta che, con tutto il rispetto e la stima che nutro personalmente per lui, Enrico Letta non aveva. E penso che Schlein ne abbia più di Bonaccini, che per me rappresenta la continuità. Schlein invece garantirebbe una qualche possibilità di cambiamento.
Bonaccini però è andato molto bene tra gli iscritti, anche se è stato battuto da Schlein a Roma e Milano. Se lo aspettava?
Che Bonaccini fosse forte fra gli iscritti me lo aspettavo. C’è stato anche un effetto di popolarità, ha un ruolo visibile e continua a dire che lui ha sconfitto la Lega ma se questo è certo dal punto di vista numerico credo che la Lega non avrebbe comunque mai vinto in Emilia – Romagna. Il risultato di Schlein invece mi ha sorpreso, poi ai gazebo vedremo quanto conteranno le grandi città.
Su quali punti crede che i due candidati si differenzino maggiormente?
Questo è un punto delicato. Si sta eleggendo il segretario di un partito, non il capo di un governo. Quindi mi interessa relativamente cosa pensano i candidati ad esempio sul reddito di cittadinanza o cose del genere. Non è questa la tematica in gioco. Si vota su che tipo di partito vogliono, su quali gruppi conteranno, a chi si rivolgeranno. Le alleanze si fanno dopo l’elezione del segretario, non prima. Poi che Schlein sia più vicina al M5S rispetto a Bonaccini è ovvio, ma se Bonaccini pensa di andare da qualche parte senza rapportarsi con i Cinque Stelle si sbaglia. E chiaramente vale anche per Conte nei confronti del Pd. Ma occorre ragionare su che tipo di struttura si vuole dare a un partito riformista e di sinistra in Europa negli anni 30 del 2000.
Chiunque vincerà dovrebbe prendere spunto dai socialisti spagnoli o dai socialdemocratici tedeschi, che sono al governo, per impostare l’opposizione e tornare a vincere?
Fare opposizione significa fare politica e quindi il Pd non deve avere paura di fare un’opposizione anche dura, di offrire proposte alternative o un minimo di convergenza al governo. Ma queste sono tutte operazioni politiche. Io penso invece a operazioni organizzative di alto profilo. Penso ci sia qualcosa da imparare dappertutto ma in Germania la socialdemocrazia è al 25 per cento, non di più. In Spagna i socialisti avevano il 40 per cento ora hanno si e no il 30. C’è da imparare da tutti, ma credo che il Pd debba imparare soprattutto dalla sua storia.
In che modo?
Innanzitutto chiedendosi perché dal 30 e oltre di Veltroni è arrivato sotto al 20 per cento dei voti. Bisogna riflettere su cosa non è andato nei territori, tra i militanti, nel gioco delle correnti. Spero che chi vinca si dedichi a questo e non a fare passeggiate istrioniche che non servono a nulla. La mia proposta è che il Pd “ricominci da tre”. Ricominciando prima di tutto a dire che è un partito europeista e credo che in questo Schlein, con la sua esperienza da parlamentare europea, parta avvantaggiata.
Bonaccini ha detto che uno dei suoi primi pensieri è neutralizzare le correnti che animano il partito e che spesso lo hanno fossilizzato. Ci riuscirà?
Le dichiarazioni lasciano il tempo che trovano. Bonaccini deve dire in che modo neutralizzerà le correnti senza neutralizzare le energie positive che talvolta derivano da esse.
Come finirà questa partita?
Non ho elementi per fare pronostici. Posso solo dire che preferirei vincesse Elly Schlein perché garantirebbe un cambiamento rispetto alla continuità di Bonaccini.
Chiunque vincerà, sarà in grado di rivitalizzare il Pd?
Il Pd non è in declino ma è un partito stagnante in termini di capacità propulsiva. È andato al di sotto del 20 per cento perché Calenda e Renzi hanno compiuto un’operazione di sciacallaggio ma alle Regionali è tornato sopra quella cifra. È un partito indispensabile nello schieramento politico sia come partito di opposizione in sé sia come elemento di aggregazione contro il governo di centrodestra.
A proposito di questo, il Pd ha parlato di un’Italia isolata in Europa a causa del governo Meloni. È d’accordo?
Il prestigio e l’influenza di un paese in Europa dipendono dalle persone che lo rappresentano. Meloni, essendo sovranista, ha dei problemi perché l’unico vero alleato è la Polonia. Ma in Europa c’è anche Gentiloni, che sta svolgendo il suo ruolo di commissario in maniera apprezzabile, e c’era Sassoli, capace di ottenere un affetto bipartisan non marginale. Lo scopo di Meloni è trascinare i popolari in un’alleanza meno europeista spaccando l’attuale coalizione di governo ma se compie questa operazione l’Italia non sarà più forte e non sarà più forte neanche l’Europa.
“Sto con Letta. Ha fatto bene a presidiare la piazza di Roma”
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna spiega che «il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario» e che quindi il problema del Partito democratico «non è accelerare i tempi del Congresso ma produrre delle idee». Secondo Pasquino «finora il dibattito è stato deludente» perché «i candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta» .
Professor Pasquino, Letta ieri ha scritto che l’opposizione sta contrastando le politiche del governo sull’immigrazione, ma a Catania c’è Aboubakar Soumahoro e non qualche dirigente del Pd. Trova che i dem stiano sbagliandostrategia?
Il problema dell’immigrazione non riguarda i partiti o i dirigenti ma l’intero paese, e quindi chiunque sia al governo dovrebbe riuscire a coinvolgere l’opposizione. Il problema è che non abbiamo la soluzione in casa e che è un problema europeo. È l’unico caso in cui mi sento di dire che l’Ue porta una responsabilità pesante. Non riesco a immaginarmi un segretario di partito, peraltro dimissionario, che va li per risolvere la situazione. Anzi, farebbe solo peggio.
Dunque i politici che sono lì in questo momento sbagliano?
Sbagliano e penso che lo facciano solo per un po’ di popolarità e visibilità. Che Sinistra italiana abbia una posizione diversa dal Pd lo sappiamo, ma “accogliere tutti” non è la soluzione. Apprezzo la bontà di Soumahoro, ma la sua non è una soluzione politica.
Torniamo a Letta, che domenica è stato contestato alla manifestazione di Roma. Pensa abbia sbagliato ad andare?
Letta ha fatto benissimo ad andare per portare a quella manifestazione la posizione del Pd, che io condivido totalmente e che peraltro non tutti nel Pd condividono. Si è preso una responsabilità importante perché ci crede. Quella non è solo la sua posizione personale ma spero della maggioranza del partito. Non doveva lasciare la piazza agli equidistanti, che non fanno parte del Pd.
Eppure nelle stesse ore a Milano c’era un’altra manifestazione molto più vicina alle posizionidi Letta, non poteva andare lì come hanno fatto altri esponenti dem?
Bisogna andare dove c’è una posizione opposta o comunque diversa dalla tua, per testimoniarne l’esistenza. A Milano Calenda e Renzi avrebbero comunque controllato la manifestazione e messo Letta in una posizione difficile. Quella era una manifestazione molto vicina alla linea del Pd, è vero, ma proprio per questo Letta non avrebbe portato nulla di utile.
Il segretario dem ha auspicato ieri un’accelerazione sui tempi del Congresso, condivisa da Bonaccini. Crede che anche da questo passi un’opposizione più dura al governo Meloni?
Non penso, perché il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario. Il problema non è accelerare ma produrre delle idee. Finora il dibattito è stato deludente. I candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta. E bisogna sapere che tipo di partito si vuole costruire. Si vuole o no un partito socialdemocratico che riscopra il rapporto con i sindacati così da riportare indietro milioni di voti? In queste settimane non ho visto idee, solo persone che si candidano. L’unica che ha proposto qualcosa è Paola de Micheli, ma in generale il dibattito è cominciato male e non finirà bene.
La ricostruzione passa anche dal voto in Lazio e Lombardia: quale futuro vede per il Pd dopo il “caso Moratti”?
Non sono un astrologo ma è chiaro che in Lombardia la mossa di Renzi e Calenda fa perdere il Pd. Se il Pd aveva una minima possibilità di vincere, con Moratti che portava via voti al centrodestra, questa mossa invece lo farà perdere. Nel Lazio bisogna che Pd e M5S giungano a un accordo. Se Calenda e Renzi vanno su Alessio D’Amato, indeboliscono l’eventuale alleanza tra dem e grillini ma al tempo stesso la facilitano perché chiariscono le idee agli elettori. Ma Pd e M5S o si mettono insieme o rinunciano a vincere le regionali.
In una intervista rilasciata nella fase di nascita del Movimento delle Sardine Mattia Santori dichiarò che chi aveva frequentato le lezioni di Scienza politica di Pasquino non poteva diventare populista. Sono assolutamente d’accordo. Forte è la probabilità che in quelle lezioni il prof delineasse anche alcune alternative per i movimenti: tenere alta la mobilitazione oppure istituzionalizzarsi; tentare di cambiare i partiti e le loro politiche criticando e premendo dall’esterno oppure entrarvi. Mi pare che la mobilitazione delle Sardine, il cui contributo alla vittoria di Bonaccini contro Salvini (pardon, Borgonzoni) resta peraltro difficile da valutare, sia scemata e che nessuna istituzionalizzazione sia stata tentata. Non credo proprio che il Partito Democratico sia stato sufficientemente “premuto” dall’esterno affinché cambiasse alcune sue politiche e meno che mai la sua organizzazione. Vedo, invece, che Mattia Santori ha accettato di essere collocato nella lista del PD che sostiene la candidatura di Matteo Lepore a sindaco di Bologna. Entrismo?
Certo, il PDB (bolognese) da cui Santori accetta la candidatura non è molto diverso da quello da lui e da tantissime sardine sfidato qualche anno fa. Anzi, è al punto massimo del suo inesauribile continuismo. Il decennale assessore Matteo Lepore ha vinto le primarie, ma non bisogna dimenticare che era stato praticamente incoronato suo successore dall’unico sindaco di Bologna, Virginio Merola, che dagli anni novanta è riuscito a rimanere in carica per dieci anni. In quello che l’incoronato promette non si vedono novità programmatiche né, tantomeno, vado con il politichese, “discontinuità”. Da quale fonte, da quale dichiarazione, da quale azione Santori abbia colto la possibilità di trovare spazio per esercitare un ruolo di pungolo, di stimolo, di orientamento per fare cambiare il Partito Democratico è impossibile dire. Lui non è stato preciso limitandosi a sostenere che rimarrà “indipendente”.
Naturalmente, le scelte personali hanno motivazioni dei più vari tipi: mettersi alla prova, imparare di più sulle istituzioni, svolgere il compito di rappresentante di esigenze e di preferenze sottovalutate, dimenticate, escluse. Tutti compiti tanto nobili quanto difficili la cui esecuzione dovrà essere monitorata in maniera sistematica. Forse Santori cercherà anche di essere la cintura di trasmissione delle linee politiche, alquanto indistinte e stinte, delle Sardine di oggi. Precedenti esperienze suggeriscono che un qualche apporto elettorale al PD potrà venire dalla candidatura di Santori, in special modo se le Sardine bolognesi vorranno impegnarsi nella sua campagna elettorale. Quello che sappiamo con maggiore certezza è che, da un lato, lo spazio di autonomia e di influenza di un solo consigliere comunale è molto limitato e soprattutto che ci saranno numerose occasioni nelle quali le Sardine fuori dal Consiglio saranno frenate nelle loro iniziative e la Sardina nel consiglio entrerà in rotta di collisione o con quanto si muove fuori o con i detentori del potere politico dentro il Consiglio comunale.
Dal punto di vista del cittadino elettore del PD e sostenitore delle Sardine è augurabile che si trovi (ma chi lo farà?) una non facile sintesi. Il punto di vista dell’analista politico è che nessun singolo vince contro un apparato che si è ricomposto in un clima di grande soddisfazione e compiacimento e che quel singolo dovrà prepararsi ai tempi duri non solo dell’irrilevanza, ma anche dell’indifferenza con ripercussioni negative, frenate e dissensi, sull’autunno del movimento.
Quella di Torino è stata bruttina, ma i commenti alle due primarie del Partito Democratico, a Roma e a Bologna, grondano di soddisfazione e autocompiacimento. Cercano di fare dimenticare previsioni buie e tempestose, sostanzialmente infondate e la sostanziale incomprensione di che cosa sono e possono essere le primarie. Anche in questo caso sarebbe utile il mio test d’accesso per chi vuole esprimere valutazioni: quale articolo scientifico, quale libro di analisi delle elezioni primarie, che, incidentalmente, si fanno in molti altri luoghi, ad esempio, in Argentina e in Cile, oltre agli USA, hanno letto gli spericolati commentatori/trici? Certo, le primarie sono un esercizio di democrazia, meglio quando sono impostate, organizzate, condotte in maniera effettivamente democratica. A Roma il PD non è abbastanza forte da condizionarle, ma qualche scoraggiamento a altre potenziali candidature era stato mandato. A Bologna il PD ha prima fatto quasi tutto il possibile per trovare un mitico “candidato unitario” ovvero designato dai potenti. Poi si è buttato a sostegno del candidato preferito dai “maggiorenti” (il piuttosto loquace Romano Prodi incluso) cercando di squalificare l’oppositrice perché “renziana”. Come se il Presidente della Regione Bonaccini non fosse stato renziano e lo stesso sindaco Merola, “ideologicamente” assai volubile, non avesse avuto la sua sbandata renziana. Adesso, il vincente annuncia la sua apertura alla renziana Conti la quale, opportunamente e nobilmente, ha dichiarato lealtà di voto, ma non vuole farsi fagocitare. Ci si chiede (notate come pongo la questione) che fine farà il ricorso promosso da tre ex-segretari del Partito di Bologna ai probiviri contro gli iscritti del PD che hanno annunciato il loro voto alla Conti. Lana caprina.
Nelle primarie, naturalmente, conta soprattutto vincere, ma il modo come si vince ammonta a una più o meno bella lezione di politica. La campagna elettorale comunica non soltanto chi sono i candidati, le loro biografie personali, professionali e politiche (quella di Roberto Gualtieri è assolutamente lusinghiera), ma anche che cosa li distingue e che cosa propongono anzitutto all’elettorato della loro aerea politica. Le primarie diffondono informazioni di stile e di sostanza. Dovrebbero anche, se non si sono manifestate come attacchi personali, in effetti a Bologna c’è stato anche questo (non stendo nessun pietoso velo di silenzio), servire come slancio per la corsa alla (ri)conquista del Palazzo comunale. Vedo, invece, che, per il momento, il tempo viene impegnato per tirare sospiri di sollievo e per esibirsi sulle vette dell’ipocrisia e della retorica più melensa. Fermo restando che, in generale, le primarie sono un optional, per il PD sono uno degli elementi fondanti la sua (peraltro pallida) identità di partito. Di tanto in tanto qualche revenant di “intellettuale” organico ottiene il suo momento di esposizione mediatica con critiche severissime (“masturbazione intellettuale”), spesso infondatissime, alle primarie. Molto meglio farebbe il Partito Democratico a valorizzarle come un procedimento che ha la potenzialità di migliorare la politica del partito e, in senso più lato, italiana ponendo le premesse per l’allargamento del campo del centro-sinistra. Non soltanto l’allargamento è indispensabile per chi voglia superare il centro-destra, ma consente la mobilitazione delle energie esistenti e l’attrazione di quelle disponibili purché non si sentano manipolate. In sintesi: c’è più di una candidatura? Oportet ut primariae eveniant. Primarie competitive. Il resto è fuffa.