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Come cambiare davvero l’organizzazione del Pd per renderlo democratico @DomaniGiornale

La nuova segretaria del Partito Democratico deve ricostruire un’organizzazione, non solo una comunità, come dicono in politichese, ma una struttura presente e attiva sul territorio. Il lavoro è tutto da fare, molto meno sexy del declamare a voce alta e magari indignata i diritti civili e sociali sui quali il governo è debole, ma almeno altrettanto importante. Infatti, è grazie ad un’organizzazione ben funzionante che quei diritti saranno comunicati ai simpatizzanti e ai potenziali elettori, saranno spiegati in maniera da coinvolgerli e fare nascere e crescere in loco la convinzione che un governo a guida PD renderebbe il paese più solidale, più vitale, migliore. Naturalmente, in questo compito, a mio parere decisivo, dovrebbero avere un ruolo centrale gli iscritti che molti resoconti, non so su quali basi, riferiscono essere, se non proprio umiliati, delusi e scoraggiati poiché la loro preferenza per il segretario è risultata (s)travolta dagli elettori/elettrici primarie/e.

  Come si ricostruirà un partito intorno alle due proposte che, molto schematicamente, sono emerse nelle poche esternazioni in materia di Schlein e Bonaccini? Davvero la nuova segretaria crede che sarà sufficiente l’afflusso di poche decine di migliaia di iscritti (quanto davvero nuovi e non rientri sarà poi utile sapere) e l’apertura ai movimenti, alla famosa società civile, a rinnovare/ristrutturare il partito? Davvero il neo-presidente del partito è convinto che la spina dorsale del PD debbano essere gli amministratori locali, tutti wonderwomen e supermen che oltre all’intensa e assorbente attività amministrativa avranno tempo e voglia da dedicare alle riunioni e all’attività di partito con il rischio di politicizzare la loro carica di governo locale?

Schlein non ha in nessun modo chiarito quale può essere l’offerta alle associazioni e ai gruppi esterni che li convinca ad avvicinarsi al PD. Forse due “sardine” in Direzione sono un primo segnale, ma inevitabilmente già concluso. Mi parrebbe molto opportuno tentare, in una pluralità flessibile di forme, l’instaurazione di un rapporto con i lavoratori organizzati, non tipo cinghia di trasmissione che rischierebbe di essere il sindacato CGIL che detta con il PD che si adopera per l’attuazione. Precari e pensionandi, che sono gran parte di quel mondo, attendono risposte che tengano insieme credibilmente quanto troppi spacchettano ovvero proprio come non solo difendere il lavoro, ma produrne le opportunità, di volta in volta, riconoscendo nei fatti la centralità come elemento di sussistenza e di dignità. Non è un frase fatta, ma un impegno da prendere e da articolare.

Auspicabilmente, un Partito Democratico dovrebbe porre in alto sulla sua agenda il tema della partecipazione politica, come apprendimento, come modalità di rapportarsi agli altri, come attività che può dare soddisfazione nel perseguimento di obiettivi personali e di solidarietà. Al diversificato “popolo” (sic, non “partito”) degli astensionisti va mandato non solo l’invito alla partecipazione in quanto dovere politico e al voto in quanto dovere costituzionale (art. 48), ma anche il messaggio che chi partecipa contribuisce a fare sì che le sue preferenze e i suoi interessi siano presi in seria considerazione. Tutto questo potrà essere fatto partendo dal basso, non sta a me valutare quanto gli esistenti circoli siano in grado di rilanciarsi, dai livelli locali favorendo l’emergere di una nuova classe dirigente e di una cultura politica che richiede studio e apprendimento. L’ora è già scoccata.

Pubblicato il 15 marzo 2023 su Domani

L’inutile fuga dal PD dei riformisti scissionisti @DomaniGiornale

Immagino che una buona parte, sicuramente maggioritaria, di coloro che hanno votato Elly Schlein stiano assistendo con amarezza e irritazione (che condivido) all’abbandono del partito ad opera di alcuni dirigenti dem e dei loro seguaci. Il precedente di coloro che perdono e se ne scappano con il pallone dopo avere giocato, non del tutto meritatamente, in ruoli di rilievo, esiste, ma visibilmente non ha dato vita a nulla che assomigli ad una prospettiva riformista. Ho molto apprezzato il discorso di concessione della vittoria effettuato a caldo la sera stessa da Stefano Bonaccini. Apprezzo molto meno le indiscrezioni che lo danno in attesa di un ruolo di rilievo nel partito. Non sarebbe preferibile che continuasse a dedicare le sue energie al buongoverno di quella regione importante che è l’Emilia-Romagna e che, evitando di cumulare cariche, si accordasse su un nome di suo gradimento per il ruolo operativo che la segretaria intendesse affidare alla sua (di Bonaccini) area?  Se, poi, i democratici in (cattivo) odor di abbandono alzassero gli occhi si renderebbero conto che i commentatori di ogni ordine e grado che stanno prematuramente plaudendo all’espressione del loro disagio e dissenso non lo fanno perché desiderano la nascita di un “vero” partito riformista e liberale (qualcuno potrebbe anche, per carità, spiegarmi che cos’è un “falso” partito riformista?), ma perché semplicemente mirano a indebolire il PD e la sinistra in Italia.

   Né ieri né l’altro ieri, potrei anche scrivere mai, le scissioni hanno portato a qualcosa di buono, non per chi lascia e neppure per chi resta. Qualche briciola elettorale non cambierà in meglio le sorti del sedicente terzo polo a meno di profonde e imperscrutabili innovazioni politiche e culturali. Quello che risulta ancora più preoccupante è che gli esodanti non possono, al momento, riferirsi a nulla di particolarmente concreto, spiazzante e sgradito già fatto da una segretaria che deve essere incoronata domenica prossima. Dunque, non sono le sue azioni e neppure le sue proposte, grazie alle quali ha vinto la carica, a spingere alla fuoruscita, non sono atteggiamenti sprezzanti, ma il suo essere quello che è: una donna di sinistra che vuole rivitalizzare un partito ripiegato su se stesso aprendolo alle donne, ai giovani e ai precari, intesi in senso molto lato come coloro che non vedono opportunità. Invece, alcuni dei fuoriuscenti, che, certo, non definirò eccellenti, hanno molto goduto di opportunità concesse loro proprio dal Partito Democratico. Peccato che non abbiano più fiducia nelle loro capacità di argomentazione e di formulazione di linee alternative. Peccato che non sappiano che un po’ dappertutto nei partiti, più spesso in quelli di sinistra il cui seguito è alquanto eterogeneo, si aggregano opposizioni alla linea ufficiale senza dannosi deflussi. Peccato, infine, che troppe delle loro lamentele ricalchino le critiche a Elly Schlein che sono subito venute dal centro-destra, salotti televisivi, editorialisti, politici “affermati” e in carriera.

   Non so quanto Schlein sarà in grado di mantenere quello che ha promesso, ma sono convinto che il tentativo di cambiare il Partito Democratico debba essere esperito, magari con le opportune correzioni che gli oppositori interni siano in grado di argomentare e suggerire. Da ultimo, indebolire il PD significa aprire altri spazi al governo di centro-destra e ridimensionare le possibilità di rappresentanza politica, di interessi e di preferenze, proprio di quella parte di italiani che ne hanno maggiormente bisogno. Un capolavoro di riformismo.

pubblicato 8 marzo 2023 su Domani

Alle primarie voterò Schlein, ha la grinta giusta per cambiare il Pd #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, spiega di votare Elly Schlein domenica perché «ha più grinta di Bonaccini» e dice che il Pd deve ragionare «su che tipo di struttura si vuole dare a un partito riformista e di sinistra in Europa negli anni 30 del 2000».

Professor Pasquino, cosa si aspetta dalle primarie del Pd di domenica dopo i 150mila voti tra gli iscritti al partito?

Innanzitutto una premessa a cui tengo molto: queste non devono essere chiamate primarie, ma è l’elezione del segretario del Pd a opera non dei soli iscritti, come secondo me dovrebbe essere, ma di simpatizzanti e potenziali elettori. I 150mila elettori tra gli iscritti non sono né pochi né tanti, ma parliamo comunque di una cifra di gran lunga superiore a qualsiasi capacità di mobilitazione di qualsiasi altro partito nel paese. Quindi è un buon segno. Sarebbe il caso che domenica almeno un milione di persone andassero a votare, poi vedremo. Ma a fronte di un’astensione generalizzato temo che questo possa incidere anche sull’elezione del segretario del Pd.

Lei andrà a votare?

Andrò a votare e voterò per Elly Schlein.

Perché?

Perché per guidare il Pd serve quella grinta che, con tutto il rispetto e la stima che nutro personalmente per lui, Enrico Letta non aveva. E penso che Schlein ne abbia più di Bonaccini, che per me rappresenta la continuità. Schlein invece garantirebbe una qualche possibilità di cambiamento.

Bonaccini però è andato molto bene tra gli iscritti, anche se è stato battuto da Schlein a Roma e Milano. Se lo aspettava?

Che Bonaccini fosse forte fra gli iscritti me lo aspettavo. C’è stato anche un effetto di popolarità, ha un ruolo visibile e continua a dire che lui ha sconfitto la Lega ma se questo è certo dal punto di vista numerico credo che la Lega non avrebbe comunque mai vinto in Emilia – Romagna. Il risultato di Schlein invece mi ha sorpreso, poi ai gazebo vedremo quanto conteranno le grandi città.

Su quali punti crede che i due candidati si differenzino maggiormente?

Questo è un punto delicato. Si sta eleggendo il segretario di un partito, non il capo di un governo. Quindi mi interessa relativamente cosa pensano i candidati ad esempio sul reddito di cittadinanza o cose del genere. Non è questa la tematica in gioco. Si vota su che tipo di partito vogliono, su quali gruppi conteranno, a chi si rivolgeranno. Le alleanze si fanno dopo l’elezione del segretario, non prima. Poi che Schlein sia più vicina al M5S rispetto a Bonaccini è ovvio, ma se Bonaccini pensa di andare da qualche parte senza rapportarsi con i Cinque Stelle si sbaglia. E chiaramente vale anche per Conte nei confronti del Pd. Ma occorre ragionare su che tipo di struttura si vuole dare a un partito riformista e di sinistra in Europa negli anni 30 del 2000.

Chiunque vincerà dovrebbe prendere spunto dai socialisti spagnoli o dai socialdemocratici tedeschi, che sono al governo, per impostare l’opposizione e tornare a vincere?

Fare opposizione significa fare politica e quindi il Pd non deve avere paura di fare un’opposizione anche dura, di offrire proposte alternative o un minimo di convergenza al governo. Ma queste sono tutte operazioni politiche. Io penso invece a operazioni organizzative di alto profilo. Penso ci sia qualcosa da imparare dappertutto ma in Germania la socialdemocrazia è al 25 per cento, non di più. In Spagna i socialisti avevano il 40 per cento ora hanno si e no il 30. C’è da imparare da tutti, ma credo che il Pd debba imparare soprattutto dalla sua storia.

In che modo?

Innanzitutto chiedendosi perché dal 30 e oltre di Veltroni è arrivato sotto al 20 per cento dei voti. Bisogna riflettere su cosa non è andato nei territori, tra i militanti, nel gioco delle correnti. Spero che chi vinca si dedichi a questo e non a fare passeggiate istrioniche che non servono a nulla. La mia proposta è che il Pd “ricominci da tre”. Ricominciando prima di tutto a dire che è un partito europeista e credo che in questo Schlein, con la sua esperienza da parlamentare europea, parta avvantaggiata.

Bonaccini ha detto che uno dei suoi primi pensieri è neutralizzare le correnti che animano il partito e che spesso lo hanno fossilizzato. Ci riuscirà?

Le dichiarazioni lasciano il tempo che trovano. Bonaccini deve dire in che modo neutralizzerà le correnti senza neutralizzare le energie positive che talvolta derivano da esse.

Come finirà questa partita?

Non ho elementi per fare pronostici. Posso solo dire che preferirei vincesse Elly Schlein perché garantirebbe un cambiamento rispetto alla continuità di Bonaccini.

Chiunque vincerà, sarà in grado di rivitalizzare il Pd?

Il Pd non è in declino ma è un partito stagnante in termini di capacità propulsiva. È andato al di sotto del 20 per cento perché Calenda e Renzi hanno compiuto un’operazione di sciacallaggio ma alle Regionali è tornato sopra quella cifra. È un partito indispensabile nello schieramento politico sia come partito di opposizione in sé sia come elemento di aggregazione contro il governo di centrodestra.

A proposito di questo, il Pd ha parlato di un’Italia isolata in Europa a causa del governo Meloni. È d’accordo?

Il prestigio e l’influenza di un paese in Europa dipendono dalle persone che lo rappresentano. Meloni, essendo sovranista, ha dei problemi perché l’unico vero alleato è la Polonia. Ma in Europa c’è anche Gentiloni, che sta svolgendo il suo ruolo di commissario in maniera apprezzabile, e c’era Sassoli, capace di ottenere un affetto bipartisan non marginale. Lo scopo di Meloni è trascinare i popolari in un’alleanza meno europeista spaccando l’attuale coalizione di governo ma se compie questa operazione l’Italia non sarà più forte e non sarà più forte neanche l’Europa.

Pubblicato il 22 febbraio 2023 su Il Dubbio

Pasquino: «Al Partito democratico servono idee, non nomi» #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

“Sto con Letta. Ha fatto bene a presidiare la piazza di Roma”

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna spiega che «il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario» e che quindi il problema del Partito democratico «non è accelerare i tempi del Congresso ma produrre delle idee». Secondo Pasquino «finora il dibattito è stato deludente» perché «i candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta» .

Professor Pasquino, Letta ieri ha scritto che l’opposizione sta contrastando le politiche del governo sull’immigrazione, ma a Catania c’è Aboubakar Soumahoro e non qualche dirigente del Pd. Trova che i dem stiano sbagliando strategia?

Il problema dell’immigrazione non riguarda i partiti o i dirigenti ma l’intero paese, e quindi chiunque sia al governo dovrebbe riuscire a coinvolgere l’opposizione. Il problema è che non abbiamo la soluzione in casa e che è un problema europeo. È l’unico caso in cui mi sento di dire che l’Ue porta una responsabilità pesante. Non riesco a immaginarmi un segretario di partito, peraltro dimissionario, che va li per risolvere la situazione. Anzi, farebbe solo peggio.

Dunque i politici che sono lì in questo momento sbagliano?

Sbagliano e penso che lo facciano solo per un po’ di popolarità e visibilità. Che Sinistra italiana abbia una posizione diversa dal Pd lo sappiamo, ma “accogliere tutti” non è la soluzione. Apprezzo la bontà di Soumahoro, ma la sua non è una soluzione politica.

Torniamo a Letta, che domenica è stato contestato alla manifestazione di Roma. Pensa abbia sbagliato ad andare?

Letta ha fatto benissimo ad andare per portare a quella manifestazione la posizione del Pd, che io condivido totalmente e che peraltro non tutti nel Pd condividono. Si è preso una responsabilità importante perché ci crede. Quella non è solo la sua posizione personale ma spero della maggioranza del partito. Non doveva lasciare la piazza agli equidistanti, che non fanno parte del Pd.

Eppure nelle stesse ore a Milano c’era un’altra manifestazione molto più vicina alle posizioni di Letta, non poteva andare lì come hanno fatto altri esponenti dem?

Bisogna andare dove c’è una posizione opposta o comunque diversa dalla tua, per testimoniarne l’esistenza. A Milano Calenda e Renzi avrebbero comunque controllato la manifestazione e messo Letta in una posizione difficile. Quella era una manifestazione molto vicina alla linea del Pd, è vero, ma proprio per questo Letta non avrebbe portato nulla di utile.

Il segretario dem ha auspicato ieri un’accelerazione sui tempi del Congresso, condivisa da Bonaccini. Crede che anche da questo passi un’opposizione più dura al governo Meloni?

Non penso, perché il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario. Il problema non è accelerare ma produrre delle idee. Finora il dibattito è stato deludente. I candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta. E bisogna sapere che tipo di partito si vuole costruire. Si vuole o no un partito socialdemocratico che riscopra il rapporto con i sindacati così da riportare indietro milioni di voti? In queste settimane non ho visto idee, solo persone che si candidano. L’unica che ha proposto qualcosa è Paola de Micheli, ma in generale il dibattito è cominciato male e non finirà bene.

La ricostruzione passa anche dal voto in Lazio e Lombardia: quale futuro vede per il Pd dopo il “caso Moratti”?

Non sono un astrologo ma è chiaro che in Lombardia la mossa di Renzi e Calenda fa perdere il Pd. Se il Pd aveva una minima possibilità di vincere, con Moratti che portava via voti al centrodestra, questa mossa invece lo farà perdere. Nel Lazio bisogna che Pd e M5S giungano a un accordo. Se Calenda e Renzi vanno su Alessio D’Amato, indeboliscono l’eventuale alleanza tra dem e grillini ma al tempo stesso la facilitano perché chiariscono le idee agli elettori. Ma Pd e M5S o si mettono insieme o rinunciano a vincere le regionali.

L’autunno delle Sardine: nessun singolo vince contro l’apparato @DomaniGiornale

In una intervista rilasciata nella fase di nascita del Movimento delle Sardine Mattia Santori dichiarò che chi aveva frequentato le lezioni di Scienza politica di Pasquino non poteva diventare populista. Sono assolutamente d’accordo. Forte è la probabilità che in quelle lezioni il prof delineasse anche alcune alternative per i movimenti: tenere alta la mobilitazione oppure istituzionalizzarsi; tentare di cambiare i partiti e le loro politiche criticando e premendo dall’esterno oppure entrarvi. Mi pare che la mobilitazione delle Sardine, il cui contributo alla vittoria di Bonaccini contro Salvini (pardon, Borgonzoni) resta peraltro difficile da valutare, sia scemata e che nessuna istituzionalizzazione sia stata tentata. Non credo proprio che il Partito Democratico sia stato sufficientemente “premuto” dall’esterno affinché cambiasse alcune sue politiche e meno che mai la sua organizzazione. Vedo, invece, che Mattia Santori ha accettato di essere collocato nella lista del PD che sostiene la candidatura di Matteo Lepore a sindaco di Bologna. Entrismo?

   Certo, il PDB (bolognese) da cui Santori accetta la candidatura non è molto diverso da quello da lui e da tantissime sardine sfidato qualche anno fa. Anzi, è al punto massimo del suo inesauribile continuismo. Il decennale assessore Matteo Lepore ha vinto le primarie, ma non bisogna dimenticare che era stato praticamente incoronato suo successore dall’unico sindaco di Bologna, Virginio Merola, che dagli anni novanta è riuscito a rimanere in carica per dieci anni. In quello che l’incoronato promette non si vedono novità programmatiche né, tantomeno, vado con il politichese, “discontinuità”. Da quale fonte, da quale dichiarazione, da quale azione Santori abbia colto la possibilità di trovare spazio per esercitare un ruolo di pungolo, di stimolo, di orientamento per fare cambiare il Partito Democratico è impossibile dire. Lui non è stato preciso limitandosi a sostenere che rimarrà “indipendente”.

   Naturalmente, le scelte personali hanno motivazioni dei più vari tipi: mettersi alla prova, imparare di più sulle istituzioni, svolgere il compito di rappresentante di esigenze e di preferenze sottovalutate, dimenticate, escluse. Tutti compiti tanto nobili quanto difficili la cui esecuzione dovrà essere monitorata in maniera sistematica. Forse Santori cercherà anche di essere la cintura di trasmissione delle linee politiche, alquanto indistinte e stinte, delle Sardine di oggi. Precedenti esperienze suggeriscono che un qualche apporto elettorale al PD potrà venire dalla candidatura di Santori, in special modo se le Sardine bolognesi vorranno impegnarsi nella sua campagna elettorale. Quello che sappiamo con maggiore certezza è che, da un lato, lo spazio di autonomia e di influenza di un solo consigliere comunale è molto limitato e soprattutto che ci saranno numerose occasioni nelle quali le Sardine fuori dal Consiglio saranno frenate nelle loro iniziative e la Sardina nel consiglio entrerà in rotta di collisione o con quanto si muove fuori o con i detentori del potere politico dentro il Consiglio comunale.

   Dal punto di vista del cittadino elettore del PD e sostenitore delle Sardine è augurabile che si trovi (ma chi lo farà?) una non facile sintesi. Il punto di vista dell’analista politico è che nessun singolo vince contro un apparato che si è ricomposto in un clima di grande soddisfazione e compiacimento e che quel singolo dovrà prepararsi ai tempi duri non solo dell’irrilevanza, ma anche dell’indifferenza con ripercussioni negative, frenate e dissensi, sull’autunno del movimento.

Pubblicato il 23 agosto 2021 su Domani   

Imparare l’arte delle primarie per usarle quando servono @DomaniGiornale

Quella di Torino è stata bruttina, ma i commenti alle due primarie del Partito Democratico, a Roma e a Bologna, grondano di soddisfazione e autocompiacimento. Cercano di fare dimenticare previsioni buie e tempestose, sostanzialmente infondate e la sostanziale incomprensione di che cosa sono e possono essere le primarie. Anche in questo caso sarebbe utile il mio test d’accesso per chi vuole esprimere valutazioni: quale articolo scientifico, quale libro di analisi delle elezioni primarie, che, incidentalmente, si fanno in molti altri luoghi, ad esempio, in Argentina e in Cile, oltre agli USA, hanno letto gli spericolati commentatori/trici? Certo, le primarie sono un esercizio di democrazia, meglio quando sono impostate, organizzate, condotte in maniera effettivamente democratica. A Roma il PD non è abbastanza forte da condizionarle, ma qualche scoraggiamento a altre potenziali candidature era stato mandato. A Bologna il PD ha prima fatto quasi tutto il possibile per trovare un mitico “candidato unitario” ovvero designato dai potenti. Poi si è buttato a sostegno del candidato preferito dai “maggiorenti” (il piuttosto loquace Romano Prodi incluso) cercando di squalificare l’oppositrice perché “renziana”. Come se il Presidente della Regione Bonaccini non fosse stato renziano e lo stesso sindaco Merola, “ideologicamente” assai volubile, non avesse avuto la sua sbandata renziana. Adesso, il vincente annuncia la sua apertura alla renziana Conti la quale, opportunamente e nobilmente, ha dichiarato lealtà di voto, ma non vuole farsi fagocitare. Ci si chiede (notate come pongo la questione) che fine farà il ricorso promosso da tre ex-segretari del Partito di Bologna ai probiviri contro gli iscritti del PD che hanno annunciato il loro voto alla Conti. Lana caprina.

   Nelle primarie, naturalmente, conta soprattutto vincere, ma il modo come si vince ammonta a una più o meno bella lezione di politica. La campagna elettorale comunica non soltanto chi sono i candidati, le loro biografie personali, professionali e politiche (quella di Roberto Gualtieri è assolutamente lusinghiera), ma anche che cosa li distingue e che cosa propongono anzitutto all’elettorato della loro aerea politica. Le primarie diffondono informazioni di stile e di sostanza. Dovrebbero anche, se non si sono manifestate come attacchi personali, in effetti a Bologna c’è stato anche questo (non stendo nessun pietoso velo di silenzio), servire come slancio per la corsa alla (ri)conquista del Palazzo comunale. Vedo, invece, che, per il momento, il tempo viene impegnato per tirare sospiri di sollievo e per esibirsi sulle vette dell’ipocrisia e della retorica più melensa. Fermo restando che, in generale, le primarie sono un optional, per il PD sono uno degli elementi fondanti la sua (peraltro pallida) identità di partito. Di tanto in tanto qualche revenant di “intellettuale” organico ottiene il suo momento di esposizione mediatica con critiche severissime (“masturbazione intellettuale”), spesso infondatissime, alle primarie. Molto meglio farebbe il Partito Democratico a valorizzarle come un procedimento che ha la potenzialità di migliorare la politica del partito e, in senso più lato, italiana ponendo le premesse per l’allargamento del campo del centro-sinistra. Non soltanto l’allargamento è indispensabile per chi voglia superare il centro-destra, ma consente la mobilitazione delle energie esistenti e l’attrazione di quelle disponibili purché non si sentano manipolate. In sintesi: c’è più di una candidatura? Oportet ut primariae eveniant. Primarie competitive. Il resto è fuffa.

Pubblicato il 23 giugno 2021 su Domani “Impara le primarie e mettile da parte: cosa resta dopo i risultati”

Bologna è il primo test per Letta: perché il Pd non vuole fare le primarie per il sindaco? @DomaniGiornale

Conseguita molto più che la semplice parità di genere con l’elezione di Debora Serracchiani alla Camera, nettamente preferibile all’imposizione ad opera del capogruppo uscente al Senato Andrea Marcucci di Simona Malpezzi, sua compagna, pardon, amica di corrente, il Partito Democratico di Letta ha iniziato il suo cambio di pelle. O, forse, no. Da Bologna, ma anche da un pezzo non indifferente del PD nazionale vengono segnali alquanto diversi, anche contraddittori. Caso esemplare, non solo perché lo conosco molto bene avendolo ampiamente frequentato, è quello del partito di Bologna. Bisogna scegliere la candidatura per il prossimo sindaco della città. Virginio Merola ha completato due mandati, evento che non si verificava dalla metà degli anni novanta dello scorso secolo. Ha anche indicato, in maniera del tutto irrituale, forse piuttosto scorretta, il suo successore preferito, l’assessore Matteo Lepore. In campo c’è un altro candidato, anche lui assessore, Alberto Aitini, apparentemente preferito dai Circoli cittadini nei quali si sono espressi gli iscritti in qualche modo consultati. Non ho letto dati certi. Il potente parlamentare della città, Andrea De Maria, fino a qualche tempo fa fra i papabili, sembra si sia orientato a favore di Lepore. Non si sono espressi il segretario regionale e il segretario cittadino del PD e neppure l’abitualmente molto loquace presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Tutti uomini.

   Non ho udito nessuna voce proveniente dalle donne del PD, mentre ha fatto capolino Mattia Santori a nome delle guizzanti Sardine le cui procedure decisionali, in materie delicate come quella della indicazione di preferenza per una candidatura importante, mi sono ignote. Trapela la ricerca spasmodica di una candidatura unitaria che, però, è resa impossibile dalla tenace resistenza di Aitini. In un partito democratico la parola definitiva spetta (spetterebbe) allo Statuto nel quale sta scritto in maniera limpida che “il Partito Democratico affida alla partecipazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori [quindi, non dei soli iscritti, nota mia]…. la scelta delle candidature per le principali cariche istituzionali” (art. 1, comma 5); che “gli incarichi sono “contendibili” (comma 9) e che “i candidati [uh, dizione quanto politicamente scorretta! Nessuna obiezione dalle donne?] alla carica di Sindaco e Presidente di Regione vengono scelti attraverso il ricorso alle primarie di coalizione” (art. 24, sottotitolato Elezioni primarie per le cariche monocratiche istituzionali).

   Alcuni almeno dei meno distratti fondatori del PD ricorderanno che i due principi posti alla base non soltanto del suo operato, ma della sua stessa esistenza, e considerati assolutamente qualificanti erano la vocazione maggioritaria e le primarie. La prima, davvero velleitaria, è già stata sostanzialmente archiviata dal neo-segretario che ha indicato come compito importante la ricerca di alleati per formare coalizioni competitive. Seppure sempre contrastate e talvolta manipolate, le primarie si sono svolte in moltissime occasioni e località, ad oggi, in ben più di mille casi. Secondo colui, Arturo Parisi, oggi silente, che viene spesso menzionato nei resoconti giornalistici come “il teorico delle primarie”, la procedura delle primarie per la selezione delle candidature si deve assolutamente aprire ogniqualvolta c’è chi, alzando spontaneamente la mano, dichiara la sua disponibilità/volontà a candidarsi. Il regolamento stabilirà tempi e modi per la raccolta di firme a sostegno e per i dibattiti.    Da Bologna giungono, invece, segnali assolutamente inquietanti di resistenza. Il primo è fin troppo facile e prevedibile: la pandemia è un ostacolo a qualsiasi inevitabile “assembramento” primario. Poi, naturalmente, qualcuno sosterrà che non c’è più tempo per farle. Non manca mai la proposta, assolutamente risibile, che si facciano le primarie, non “personalizzanti”, per le candidature, ma “su progetti”. Infine, in apparenza potentissima, si staglia l’obiezione che le primarie dividono il partito, dimenticando bellamente che il partito è già chiaramente diviso in correnti, anche a Bologna. La storia non finisce qui, ma deve tristemente registrare che dal vertice romano del PD il responsabile dell’organizzazione, Stefano Vaccari, manda agli uomini del PD bolognese un ultimatum: si diano da fare per trovare una candidatura unitaria. Ci sarà pure un caminetto all’ombra delle due Torri. Altrimenti, “primarie ultima spiaggia” (Corriere di Bologna, 31 marzo, p. 1).

Pubblicato il 31 marzo 2021 su Domani

Avete voluto la poltrona? Adesso tenetevela e lavorate @domanigiornale

Molti cittadini hanno ragione nel lamentarsi che, una volta eletti, i parlamentari li dimenticano, non si curano dei loro interessi, non tornano nei collegi.

Raramente i cittadini potranno rivolgere agli eletti la domanda classica: “che cosa hai fatto per me di recente?”

A tutto questo si è aggiunto uno sviluppo che mi permetto di definire deplorevole: usare la carica variamente acquisita per ottenerne un’altra.

Tranne alcuni irriducibili che insistono sulla crisi di governabilità per criticare i propri governi, i cittadini democratici lamentano soprattutto una crisi di rappresentanza. Poi, sbagliando, pensano di risolverla riducendo drasticamente il numero dei parlamentari. No, meno non è in nessun modo meglio. Però, molti cittadini hanno ragione nel lamentarsi che, una volta eletti, i parlamentari (aggiungere “loro” sarebbe troppo) li dimenticano, non si curano dei loro interessi, non tornano nei collegi. Spesso in quei collegi non abitano, ma vi sono stati paracadutati. A quei collegi non dovranno rispondere poiché il loro “elettore” di riferimento è chi li ha nominati e ha il potere di rinominarli. Ne consegue che raramente i cittadini potranno rivolgere agli eletti la domanda classica: “che cosa hai fatto per me di recente?” A tutto questo si è aggiunto uno sviluppo che mi permetto di definire deplorevole: usare la carica variamente acquisita per ottenerne un altro.

    Eletta europarlamentare nel maggio 2019 alla leghista Susanna Ceccardi non è parso vero di rientrare nel Bel Paese per ottenere la Presidenza della Regione Toscana. Avendo perso, poi, non garantirà nessuna rappresentanza agli elettori che l’hanno votata, tornandosene nel Parlamento Europeo. Già Vicepresidente e Assessore della Regione Emilia-Romagna anche Elisabetta Gualmini è stata eletta al Parlamento Europeo con più di 78 mila preferenza. Da qualche settimana, ha più volte offerto la sua disponibilità, se così vorrà il Partito Democratico, ad accettare la candidatura a sindaco di Bologna cosicché quei 78 mila elettori del Nord-Est non avranno più da lei nessuna rappresentanza. Il caso più eclatante è quello di Carlo Calenda, il più “preferenziato” degli europarlamentari del PD: quasi 275 mila elettori hanno scritto il suo nome. Uscito dal PD nell’agosto 2019, l’euronorevole Calenda ha annunciato l’intenzione di candidarsi a sindaco di Roma, suo luogo di nascita e di residenza. Tanti saluti a coloro che nel Nord-Est l’hanno votato e al Parlamento Europeo dove la maggioranza dei parlamentari non vede di buon occhio queste operazioni italiane di eletti che si dimettono per tornare a cariche politiche in Italia. Va sottolineato che, se non vincono, il seggio europeo è la loro posizione di ricaduta. Insomma, non rischiano molto.

   Qualcuno, giustamente, sostiene che bisognerebbe stabilire l’obbligo di dimissioni da una carica di governo e di rappresentanza prima della candidatura ad altra carica elettiva. Certo, questa transizione non era quella che si ventilava (ma, forse, dovrei usare il tempo presente) per Stefano Bonaccini. Quasi subito dopo la sua rielezione alla Presidenza della Regione Emilia-Romagna, già si prospettava per lui la carica di segretario del Partito Democratico. Forse lo si faceva per indebolire Nicola Zingaretti. Comunque, la logica era la stessa e ugualmente deplorevole. Anche se non avrebbe dovuto abbandonare la Presidenza della Regione, Bonaccini avrebbe avuto meno tempo per occuparsi dei problemi e per rispondere alle aspettative di chi lo aveva appena rieletto. Quella che pongo è, in senso lato, ma preciso, una questione di etica politica. Nei termini più semplici chi accetta o addirittura si adopera per ottenere una carica politica elettiva prende, più o meno deliberatamente e trasparentemente, un impegno con gli elettori, non soltanto con i suoi. Accetta di adempiere ai compiti di quella carica fino a compimento del suo mandato. Non facendolo produce una ferita nella rappresentanza politica e contribuisce a ridurre prestigio e onorabilità dei rappresentanti e delle loro assemblee. L’opposto di cui qualsiasi Parlamento ha bisogno. 

Pubblicato il 13 ottobre 2020 su Domani

Bettini o grillini, la democrazia nei partiti sarebbe utile. Sostiene Pasquino @formichenews

Dipendiamo dal pensiero di Goffredo Bettini per apprendere dove va e dove deve andare il Pd e dove andrà il sistema politico italiano. Qualcuno si faccia sentire spiegando quali sono i processi decisionali del partito, quali le strutture coinvolte, quali le modalità

Non mi sono noti i processi decisionali dei partiti/corsari protagonisti della politica italiana di cui discorre da par suo Sabino Cassese sulle pagine del “Corriere della Sera” (21 agosto 2020). So, però, che soltanto i corsari che avevano successo continuavano nella loro leadership, ma spesso c’erano ammutinamenti, ammirevoli richieste di democrazia (sic) partecipata e deliberativa. Non sono un grande estimatore di piattaforme decisionali le cui procedure non sono proprio trasparenti e i cui esiti non sono verificabili. Prendo, però, positivamente atto che il numero di aderenti al Movimento 5 Stelle che votano è regolarmente calcolabile in parecchie migliaia. Sono cifre che il Corsaro Nero, il mio preferito, non ha mai conseguito. Sono cifre che nessuno degli attuali partiti corsari è in grado di ottenere tranne il Partito Democratico quando organizza in maniera decente le primarie. Poi, succede che a un segretario così eletto, Nicola Zingaretti, venga contrapposto come potenziale successore un Presidente di regione, Stefano Bonaccini, che ha fatto poco più del suo dovere politico (e istituzionale): vincere da incumbent la rielezione nella regione Emilia-Romagna.

Primum vincere, sono d’accordo, ma talvolta persino i corsari si davano qualche obiettivo mobilitante aggiuntivo. Leggo che le scelte qualificanti del Partito Democratico sono state prese in maniera, lo scriverò pudicamente, irrituale. L’alleanza di governo con le Cinque Stelle è il prodotto della fervida immaginifica azione dell’ex-segretario Renzi, colui che il 4 marzo 2018, senza nessuna consultazione degli organismi dirigenti, buttò il suo partito all’opposizione. Se la memoria mi assiste, non pare ci sia stata un’insurrezione di dissenzienti. Un giorno dell’agosto 2019, lo stesso Renzi, senza nessuna spiegazione, mai il suo forte, dichiarò la fattibilità, anzi, la necessità di un governo con le Cinque Stelle: eroico. Poi, collocati alcuni seguaci al governo fece una scissione, strategica. Epperò, lo stratega vero del Partito Democratico, dicono gli intervistatori dei giornaloni, ma, ieri, anche il bravo Francesco De Paolo e l’autorevolissimo studioso della comunicazione politica Massimiliano Panarari, si sono esercitati nelle esegesi, è l’imponente Goffredo Bettini. Dal suo fervido pensiero variamente esternato dipendiamo per apprendere dove va e dove deve andare il PD e dove andrà il sistema politico italiano.

Ipocritamente elogiato da tutti tranne Marco Travaglio, l’ex-Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi non ha detto nulla sulla politica italiana. Perché non vuole bruciare sue chances oppure perché non ne sa abbastanza? Almeno l’interrogativo andrebbe/andava posto. Invece, Bettini, commentano De Palo e Panarari, detta la linea al PD. Allora, sì, mi sono preoccupato, comunque, molto meno di quanto mi renda tristemente preoccupato il Covid-19. Il Partito Democratico e il suo segretario si fanno dettare la linea da Bettini, gliela hanno affidata in base a meriti pregressi? Sulla base di successi epocali? Con riferimento a mandati congressuali?

Alcuni “antichi” studiosi di scienza politica si sono regolarmente posti il problema della democrazia nei partiti. Deve esserci eticamente. Deve esserci programmaticamente. Deve esserci perché serve. Affari del PD, direbbe qualcuno. In parte, sì; ma né un partito eterodiretto da strateghi né, anche se meglio, quello pilotato da Rousseau, sono da considerare soluzioni ideali. Sappiamo che il problema dei partiti più o meno corsari è che non capiscono e non riescono a rappresentare la complessità, spesso positiva, del loro elettorato. Allora, Bettini rilasci tutte le interviste che vuole. A corto di riflessioni, “Repubblica”, “Corriere” et al. le pubblichino, ma dal PD qualcuno si faccia sentire spiegando quali sono i processi decisionali del partito, quali le strutture coinvolte, quali le modalità. Non oso dire quale la visione del mondo… È il minimo per un Partito sedicente Democratico. Lo dovrebbe desiderare anche Bettini. Renderebbe più salaci le sue interviste e, chi sa, farebbe avanzare un dibattito politico da tempo dolorosamente asfittico.

Pubblicato il 22 agosto 2020 su formiche.net

Unità nazionale? Impossibile con questi politici senza storia #Intervista @ildubbionews

Una volta c’era Pertini. Oggi gli italiani non considerano migliori di loro le persone che li governano
Intervista raccolta da Giulia Merlo

“Gli italiani non sono popolo da sentimento d’unità nazionale”, taglia corto il politologo Gianfranco Pasquino. Professore ed editorialista, ha appena pubblicato per Utet “Minima politica. Sei lezioni di democrazia” in cui ripercorre la storia politica italiana e analizza il ruolo delle istituzioni.

Siamo uniti solo durante le partite della nazionale di calcio, quindi?

E quando vinceva la Ferrari, ma ormai è passato qualche anno. Battute a parte, gli italiani hanno sempre avuto scarsa percezione dell’unità nazionale, se questa viene intesa come uno stare tutti sulla stessa barca remando insieme con qualcuno che tiene il timone. Tra i politici, in particolare, vedo la tendenza a non volersi assumere tutti le stesse responsabilità. E allora il messaggio ai cittadini è quello di un “vorrei ma non posso” perché c’è sempre qualche buona ragione per dissentire.

Sarebbe auspicabile, invece, una sorta di governo di unità nazionale per far fronte all’emergenza di questi giorni?

Forse la sorprendo, ma le rispondo di no. Io credo che nel Paese debba esserci una condivisione nelle scelte, ma esiste un governo e anche una maggioranza. A partire dal premier Conte, è l’esecutivo che deve assumersi la responsabilità delle decisioni. Con l’opposizione si può discutere, ma bisogna che sia chiaro che, alla fine, deve essere il governo a decidere. E’ importante che si mantenga sempre la chiarezza dei ruoli.

Nella storia politica italiana, ci sono però stati politici capaci di instillare questo senso di unità. Prenda il presidente della Repubblica, Sandro Pertini…

Le caratteristiche di un leader emergono dalla sua storia, professionale ma soprattutto politica. Pertini è stato un grande politico, con una storia personale che è stata fondamentale per cementare il suo rapporto di fiducia con gli italiani. In questo senso parlo di superiorità della classe politica italiana della prima repubblica: quegli uomini e quelle donne avevano alle spalle una storia di resistenza e antifascismo, alcuni di loro erano stati eletti alla Costituente. I politici di oggi, invece, non hanno alcuna storia professionale o politica di rilevo, per questo gli italiani non li percepiscono come migliori di loro. Alcuni, c’è da dirlo, si mettono volontariamente sullo stesso piano della parte peggiore del Paese.

In questi giorni di emergenza, le voci più ascoltate sul fronte politico sembrano essere quelle dei sindaci. Perché?

Perché il politico più noto ai cittadini è regolarmente il loro sindaco, che conoscono di persona e hanno eletto con un sistema elettorale che personalizza la competizione. Inoltre, in Italia ci sono moltissimi sindaci capaci, che tengono un rapporto molto stretto coi loro cittadini, con le parti sociali ed economiche. Non mi stupisce che in questa fase di crisi emergano come punto di riferimento, anzi sono lieto per loro. Lo stesso fenomeno mi sembra emerga anche per il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, che viene da una vittoria epocale ed è percepito come riferimento della maggioranza emiliana.

Il Parlamento e i suoi componenti, invece, sembrano non fare lo stesso…

I rappresentanti parlamentari sono completamente scomparsi e questo è deprecabile. Ma la ragione è semplice: molti di loro sono stati paracadutati nei territori di candidatura, quindi non sono un punto di riferimento e non hanno alcun rapporto con chi li ha eletti.

Il governo, invece, riesce a essere più efficace?

Mi sembra che il premier Conte abbia capito di doversi assumere maggiori responsabilità. Del resto, è evidente che a lui piaccia moltissimo farsi ascoltare, argomentare le sue scelte e adora ripetere che è lui a possedere tutte le riflessioni adeguate per gestire la crisi.

Questa crisi insegnerà qualcosa agli italiani, dal punto di vista politico?

L’impressione è che i cittadini ora ascoltino con enorme attenzione i tecnici: il direttore della protezione civile, i medici dell’ospedale Sacco o dello Spallanzani per esempio. Mi sembra che si stia rafforzando l’idea che esistano tematiche importanti per la vita delle persone e che a gestirle debbano essere persone con competenze specifiche. Finita questa emergenza, il Paese si orienterà su donne e uomini che governino sulla base delle loro convinzioni ma soprattutto delle loro competenze. E questo è un dato positivo.

Nessuna tendenza verso il cosiddetto “uomo forte”?

Direi di no. Anzi, credo che dopo questa crisi passerà del tempo prima che la politica riacquisisca un ruolo rilevante. Se si potrà trarre una lezione da questa emergenza sanitaria, sarà che nessuno risolve i problemi da solo ma servono la responsabilità dei politici e la competenza dei tecnici.

Se l’unità nazionale esiste poco, anche quella europea sembra inesistente. E’ anche questa una lezione da imparare?

L’idea che l’Unione Europea sia responsabile di tutto ciò che va male è assurda. L’Ue siamo noi e i nostri governi e l’istituzione fa quello che può, ma sono i singoli stati ad essere riluttanti all’idea di condividere le decisioni. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha il difficile compito di fare sintesi tra esecutivi con posizioni estremamente diverse, molti dei quali sono europeisti a Bruxelles ma nel loro paese scaricano le colpe sull’Unione.

Insomma, l’Ue non poteva comportarsi in modo diverso, in questa crisi?

L’Ue ha reagito con una certa circospezione. Poteva essere più incisiva ma le serviva che gli Stati condividessero la responsabilità, invece tutti sono rimasti alla finestra in attesa. Anche l’Italia si è comportata in modo attendista, sperando che l’emergenza coronavirus non fosse così grave. Ora l’Ue sta facendo il possibile, ma sono i capi dei governi a doversi mettere a disposizione in modo totale.

Pubblicato il 12 marzo 2020 su Il Dubbio