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La strage di Bologna e le sfide della democrazia @formichenews

Non ho mai avuto nessun dubbio che il più grave fatto di sangue della storia dell’Italia repubblicana doveva essere inteso come attentato alla democrazia e come volontà di colpire la sinistra nel suo luogo simbolo del buongoverno. La democrazia italiana ha vinto quella sfida, ma le sfide non finiscono mai. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di scienza politica

Quel sabato 2 agosto 1980 stavo attraversando il campus di Harvard, noto come The Yard. Avevo terminato la penultima settimana di lezioni alla Harvard Summer School. A classi di un ventina di studenti ciascuna, insegnavo due corsi: “Eurocommunism” e “The Role of the Military in Politics”, due ore al giorno cinque giorni la settimana. Mi pagavano abbastanza bene, ma ero soprattutto interessato agli USA, a quegli studenti (uno di loro sinteticamente mi spiegò, much to my disbelief, perché Ronald Reagan avrebbe vinto la Presidenza, novembre 1980), ai pochi colleghi ancora in zona in una torrida estate. La notizia dell’esplosione di una bomba alla stazione di Bologna me la diede appunto un allarmatissimo collega che l’aveva appena appresa ascoltando il programma radiofonico BBCWorld. Poi sarebbero seguite alcune telefonate dall’Italia. Fin dall’inizio ebbi due tipi di pensieri/preoccupazioni. Il primo riguardava l’incolumità dei parenti, degli amici, dei colleghi. Seppi poi da molti di loro che l’interrogativo era stato condiviso. La stazione era un luogo da tutti noi molto frequentato, per motivi di lavoro e in agosto per le vacanze. Nessuno fu coinvolto. Poi, inevitabilmente, i colleghi americani vollero conoscere la mia interpretazione e le mie valutazioni.
Non ho mai avuto nessun dubbio che il più grave fatto di sangue della storia dell’Italia repubblicana doveva essere inteso come attentato alla democrazia e come volontà di colpire la sinistra nel suo luogo simbolo del buongoverno. Bologna non era stata scelta a caso e certamente non soltanto perché snodo cruciale del traffico ferroviario (e stradale) Nord/Sud. Ai miei colleghi e amici dissi subito della mia convinzione che la strage era fascista. I terroristi rossi, i brigatisti assassinavano persone e rivendicavano, perfino giustificandoli, i loro omicidi. Colpendo indiscriminatamente I neo-fascisti miravano a creare un clima di panico che conducesse ad una svolta a destra, alla dichiarazione dello stato d’emergenza, a una soluzione autoritaria.
Dopo di allora, tutte le volte che mi è stato fisicamente possibile, moltissime, sono andato, da solo o con i miei figli, alla stazione per la commemorazione della strage. La mia tristezza non è mai venuta meno. Le mie aspettative, che si scoprissero e si punissero, non “esemplarmente”, ma secondo le leggi vigenti, i responsabili, non le ho mai abbandonato. Da parlamentare ho contribuito a sostenere e mantenere vivo il disegno di legge di origine popolare sull’abolizione del segreto di Stato sui fatti di terrorismo e strage, operazione tanto indispensabile quanto complicata poiché inevitabilmente coinvolge(va) i servizi segreti di molti paesi. Attraverso una lunga sequenza di processi tutti coloro che hanno fisicamente partecipato e collaborato all’attentato sono stati individuati, processati e condannati. Disapprovo fortemente coloro che sminuiscono la portata di questi esiti processuali attribuibili a magistrati che vi hanno lavorato indefessamente. Tuttavia, senza nessuna inclinazione complottistica, sono altresì convinto che nessuno è finora riuscito a individuare i mandanti politici della strage di Bologna.
Vorrei potere concludere che nel corso del tempo sono stati fatti molti passi avanti nella direzione giusta, forse sì forse no. Ritengo giusto avanzare ipotesi e formulare congetture anche all’insegna del cui prodest, chiedendosi a chi il caos, il panico, l’emergenza avrebbero potuto portare profitto politico. Mi pare che la risposta più soddisfacente, forse l’unica plausibile, è che ne avrebbero ottenuto vantaggi visibili e concreti alcuni non marginali spezzoni dell’apparato statale e alcuni, neppure loro marginali, settori della destra politica italiana, non soltanto neo-fascista. Non riesco a spingermi fino all’affermazione del coinvolgimento di apparati stranieri. Continuare a cercare i mandanti risponde a effettive esigenze di verità e giustizia. Concludo sottolineando che la democrazia italiana ha comunque vinto quella sfida, ma le sfide non finiscono mai.
Pubblicato il 2 agosto 2022 su Formiche.net
Gli ignoranti e le truppe per battere i terroristi @fattoquotidiano

L’exit dall’Afghanistan è stato un disastro, se non addirittura un “crimine” viste le conseguenze su vita e morte di centinaia di migliaia di persone. Ricostruire le motivazioni della entry in Afghanistan del Presidente Bush e dei suoi consiglieri, neo-con e falchi, serve a capire il fallimento. Terribili semplificatori pensarono, da un lato, che era possibile fare la “guerra al terrorismo” con truppe sul territorio, boots on the ground, dell’Afghanistan. Dall’altro, che la loro vittoria avrebbe addirittura portato la democrazia in Iraq, ma anche in Afghanistan. Solo qualche voce isolata si levò negli USA a mettere in questione entrambe le motivazioni-obiettivi. In Europa, ci furono, da un lato, l’anti-americanismo di maniera, dall’altro, in mancanza della capacità di elaborazione politica e strategica l’accettazione del disegno USA. Quanto alla guerra al terrorismo, pochi segnalarono che nessuna guerra ha senso contro un nemico evanescente e imprendibile che si annida dappertutto ed è praticamente impossibile da colpire. I nemici sono più propriamente i terroristi in carne, ossa e cintura di esplosivi intorno alla vita, e, naturalmente le loro organizzazioni. Diventano un obiettivo più facile quando si installano in un territorio. La guerra ai terroristi non richiede dispiegamenti di truppe, ma intensa ed estesa attività di intelligence e capacità di mira quando il terrorista viene individuato. Il successo più grande di questa strategia fu l’eliminazione di Osama Bin Laden nel 2011 in territorio pakistano con un costo molto basso e nessuna perdita USA. In Afghanistan di successi del genere praticamente non se ne sono avuti, mentre le perdite di soldati USA, uno stillicidio, sono state numerosissime. L’attività mirata ad eliminare i capi dei terroristi appare oggi l’unica disponibile e praticabile, quella più promettente di risultati. La guerra al terrore può al massimo continuare ad essere una frase propagandistica ad effetto, ma priva di sostanza e di effetti positivi.
Al Dipartimento di Stato e altrove nell’Amministrazione Bush, quasi nessuno era sufficientemente preparato ai compiti di State-building e di Nation-building. Molti parlavano di esportazione della democrazia senza sufficienti conoscenze in materia. I riferimenti ai successi in Germania post-nazismo e nel Giappone imperiale erano fondamentalmente sbagliati. In Germania c’erano sinceri democratici sopravvissuti in patria o in esilio che avevano la capacità di dare un apporto decisivo sia alla stesura della Costituzione sia ai comportamenti politici che una democrazia richiede. In Giappone ci furono dieci anni, ripeto dieci, di occupazione militare USA che portarono ad un regime democratico alla legittimità della cui instaurazione contribuì significativamente la figura dell’imperatore. Niente di tutto questo né in Afghanistan né in Iraq.
Rotti tutti i rapporti con i suoi colleghi al Dipartimento di Stato dove aveva lavorato per circa vent’anni, Fukuyama scrisse che era necessario porsi un obiettivo meno ambizioso della costruzione della democrazia. Bisognava costruire l’ossatura di uno Stato e creare sentimenti di appartenenza alla comunità. Invece, i policy-makers USA preferirono, per ottenere consenso nell’elettorato, definire le loro azioni come democratizzazione che, ovviamente, comincia con le elezioni e si basa su quelle procedure. In verità, qualche attenzione fu indirizzata anche alla costruzione dello Stato: addestramento delle forze di polizia e dei militari, la formazione di una burocrazia, forme di assistenza sanitaria, creazione di scuole. Ma ospedali e scuole spesso erano fatti funzionare da organizzazioni non governative con pochi effetti positivi sulla preparazione di personale afghano all’altezza delle sfide. Lo “Stato” avrebbe anche potuto consolidarsi se non fosse stato per il massiccio ricorso alla corruzione in primis politica, ma anche sociale. Il fenomeno era riconosciuto dagli americani, ma poco combattuto per non indebolire i politici al governo. Errore gravissimo che rese il consenso popolare fragile e dipendente dai privilegi che parte dei cittadini traevano da clientelismo e corruzione. Purtuttavia, qualcosa di positivo è rimasto.
Quanto alla costruzione della nazione: “fatto l’Afghanistan bisogna fare gli afghanistani”, vale a dire suscitare e valorizzare il sentimento di appartenenza alla stessa comunità e la consapevolezza che stare insieme richiede compromessi e accettazione delle diversità, la presenza di gruppi etnici e religiosi in competizione fra di loro ha reso questo compito praticamente impossibile. Si sarebbe dovuto pensare fin dall’inizio a modalità di power-sharing, di condivisione del potere politico, di governo e di rappresentanza. La majority rule, il governo della maggioranza richiede un grado di omogeneità sociale impensabile in Afghanistan e in Iraq. I talebani si sono imposti con la violenza. Non è affatto detto che finisca qui.
Pubblicato il 2 settembre 2021 su il Fatto Quotidiano
I FIGLI DI ARES Guerra infinita e terrorismo #Firenze 25 gennaio 2017
LEGGERE PER NON DIMENTICARE
ciclo d’incontri a cura di Anna Benedetti
Biblioteca delle Oblate – Via dell’ Oriuolo 24 – Firenze
Mercoledì 25 gennaio 2017 – ore 17.30
UMBERTO CURI
I FIGLI DI ARES
Guerra infinita e terrorismo (Castelvecchi, 2016)
Introduce:
Gianfranco Pasquino professore Emerito di Scienza politica
Non può essere pacifico un mondo in cui la maggior parte delle risorse economiche, monetarie, energetiche e alimentari sono riservate a una minoranza della popolazione. Parte da qui la riflessione sulla guerra e il terrorismo dello storico della filosofia Umberto Curi. L’asimmetria della nuova guerra congiunta all’asimmetrica distribuzione delle risorse a livello planetario, dovrebbe essere sufficiente “a far intravedere quale sia il grembo che alimenta la perpetuazione e il rafforzamento del terrorismo”. La crescita simbiotica del divario tra l’opulenza dei pochi e la miseria dei tanti e la proliferazione del terrorismo internazionale, testimonia concretamente l’inseparabilità concettuale e materiale dei due fenomeni. Come pure l’attuale distinzione tra “migranti economici” e “richiedenti asilo politico” non solo è scientificamente infondata, in quanto entrambi figli del sottosviluppo e della povertà imposta, ma va semmai interpretata come l’esito ineluttabile delle logiche predatorie dell’Occidente. Se si vuole un mondo più sicuro, conclude Curi, “è indispensabile adoperarsi affinché esso sia pure più giusto” e se si vuole la pace “ben più incisiva rispetto allo strumento della guerra preventiva è la rimozione delle catene della miseria in cui versano centinaia di milioni di esseri umani”.
Umberto Curi Professore emerito di Storia della filosofia nell’Università di Padova. Fra i suoi testi più recenti, ricordiamo: Straniero (2010), Via di qua. Imparare a morire (2011), L’apparire del bello. Nascita di un’idea (2013), La porta stretta. Come diventare maggiorenni (2015), Endiadi. Figure della duplicità (2015). Sui temi affrontati in questo libro, ha pubblicato fra l’altro Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica (1999).
Gianfranco Pasquino nato a Torino, si é laureato in Scienza politica con Norberto Bobbio e specializzato in Politica Comparata con Giovanni Sartori. Professore di Scienza politica nell’Università di Bologna dal 1969 al 2012, è stato nominato Emerito nel 2014. Fra i fondatori della “Rivista Italiana di Scienza Politica”, ne è stato Redattore Capo per sette lunghi anni (1971-1977) e condirettore dal 2000 al 2003. E’ anche stato Direttore della rivista “il Mulino” dal 1980 al 1984. Ha ottenuto tre lauree onorarie: dalle Università di Buenos Aires e di La Plata e dall’Università Cattolica di Cordoba. Dal luglio 2005 é socio dell’Accademia dei Lincei. E’ autore di numerosi volumi i più recenti sono La Costituzione in trenta lezioni (UTET 2015); Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Egea-UniBocconi 2015) e L’Europa in trenta lezioni (UTET 2017).
2017: los tres grandes desafíos
El año 2017 empezó trayendo consigo, pesadísimos e ineludibles, tres desafíos que marcaron todo el año 2016 y subsistieron incluso hasta su finalización, trágicamente (en Berlín y Estambul): el terrorismo, las desigualdades, la elección de Donald Trump. El terrorismo de matriz islámica —negar su motivación religiosa no sólo es absurdo sino también erróneo—, se ha convertido a esta altura en una constante en distintas zonas del mundo. Hay quien sostiene que en realidad este terrorismo está vinculado y es producto de lo ocurrido en Irak y Libia, y hoy, sobre todo, de la guerra civil en Siria. Sin negar la contribución de estas tres situaciones, nos equivocaríamos todos, dramáticamente, si olvidáramos cuántos son los hechos de terrorismo atribuibles y reivindicados por Al Qaeda antes de la guerra de Irak. No, el terrorismo nació antes de la letal decisión del presidente George Bush (secundado por Tony Blair) de entrar en guerra contra Saddam Hussein, abriendo una enorme caja de Pandora de conflictos étnico-religiosos adormecidos. Ese terrorismo, financiado por países árabes que se sienten amenazados y siguen estando bajo extorsión, está en condiciones de llevar a cabo ataques en muy diversos lugares de Europa, Estados Unidos, Oriente Medio y África. Sostener que cualquier atentado es obra de “lobos solitarios” significa subestimar dos elementos. El primero es que, de todas formas, hay hombres dispuestos a matar, al grito de “Alá es grande”, porque han internalizado los preceptos de la guerra contra Occidente. Segundo, que estos lobos solitarios, cualquiera sea el modo en el que se haya producido su radicalización —en los suburbios parisinos, en un barrio-gueto de Bruselas, en cárceles, en, mucho más raramente, centros de recepción de inmigrantes—, encuentran con rapidez el apoyo de otros hombres y mujeres que comparten con ellos sus objetivos. Nada de esto está destinado a desaparecer ni, mucho menos, a ser erradicado o superado en 2017. Afirmar que el terrorismo no cambiará nuestra vida de occidentales es muy hipócrita y de ninguna manera tranquilizador. Cualquiera que viaje en avión sabe cuánto, para peor, ha cambiado nuestra vida.
Algunos de nosotros estamos preocupados por las desigualdades y por su crecimiento abrumador porque preferimos una sociedad más justa en la distribución de la riqueza. Porque pensamos que cuando la riqueza, producida por patrimonios más que por el trabajo, se concentra cada vez más en las manos y en los fondos de inversión de pequeños porcentajes de la población de pocos países, no sólo de los más ricos (el fenómeno se produjo ya en China y se ha extendido incluso a India), la vida de demasiadas personas se vuelve insoportable. Sabemos que existe una relación estrecha entre bienestar y democracia. Creemos, sin embargo, que cuanto más equilibrada sea la distribución de los recursos, cuanto mejor esté vinculada a la igualdad de oportunidades, cuanto más surja de la posibilidad de tener un trabajo y de obtener de él los frutos merecidos, tanto más aceptable será la vida de todos. Las desigualdades injustificables minan la cohesión social, generan tensiones insoportables y no contribuyen de hecho al funcionamiento óptimo del sistema económico.
La escalada de las desigualdades se debe ampliamente a la victoria, que pareció definitiva, de la ideología neoliberal. Esa ideología no ha sabido mantener la otra campana de su promesa, vale decir, que la acumulación de riqueza en manos de un estrato social restringido se traduciría rápidamente en inversiones, en oportunidades, en aumento de la ocupación, en más recursos para todos. El desafío de contener y reducir las desigualdades que, naturalmente, no podrá ser resuelto en 2017, convoca a la causa sobre todo a la izquierda: a sus partidos, a sus movimientos, a sus intelectuales. No se requiere únicamente la redefinición del rol del Estado en la esfera económica, es decir, el relanzamiento de las medidas políticas y, me atrevería a decir, de la “filosofía” keynesiana. Se requiere la formulación de una nueva ideología que sepa mantener juntos keynesianismo y bienestar social en un mundo enormemente más complejo. Precisamente cuando es dinámica la economía produce y reproduce desigualdades. No le bastará al Estado con ser democrático para reducir esas desigualdades sin obstaculizar el desarrollo. Deberá convencer a la mayoría de la población de que actúa en función del interés colectivo, que sabe hacerlo porque es confiable y competente. Ésta es la tarea de una ideología que tiene una visión del mundo y habla no sólo al cerebro sino también al corazón de la gente.
El tercer desafío de 2017 es el más inesperado y el más imprevisible: el constructor chapucero, operador inmobiliario y empresario televisivo absolutamente desprovisto de toda experiencia y conocimiento político, Donald Trump, en la Casa Blanca. La presidencia Trump es un desafío, ante todo, a la democracia de EE.UU., a sus mecanismos, a sus estructuras, a sus ‘checks and balances’ (controles y contrapesos), incluso al principio cardinal del liberalismo (“la separación entre poder económico y poder político”). Es el desafío a los derechos civiles y políticos sobre los cuales se construyó, si bien entre conflictos, tensiones y discriminaciones, la democracia de Estados unidos. Es, por último, el desafío al actual desorden internacional del mundo. Sólo veo riesgos y peligros. Feliz Año.
Traducción: Román García Azcárate
Publicado el 12 de enero de, 2017
La paura non si batte con le parole
Immagino che molti lettori siano infastiditi da affermazioni sul pericolo del terrorismo pappagallescamente ripetute che suonano vuote e ipocrite. Credo che ciascun lettore desideri informazioni precise e indicazioni convincenti. Mi ci provo. Primo, sì, dobbiamo avere paura. I terroristi islamici, tali poiché professano quella religione e in nome del loro Dio uccidono, hanno dimostrato di sapere colpire dovunque. Volendo fare stragi eclatanti scelgono luoghi dove le persone si affollano: stazioni ferroviarie, metropolitane, sale da ballo, aeroporti e stadi (anche se a Parigi, in questo caso, non hanno avuto successo). Chiunque frequenti quei luoghi, ed è evidente che un po’ tutti noi in quei luoghi ci siamo stati e ci ritorneremo, deve essere consapevole del rischio e deve, ovvero, può avere paura. Consapevoli dei rischi sarebbe opportuno che ci comportassimo con grande cautela e seguissimo l’indicazione che ho visto nella metropolitana di Washington, D.C.: see something say something. Traduco liberamente: chi vede qualcosa dica qualcosa.
Naturalmente, sappiamo per certo che ci vuole molto altro per evitare gli attentati e le stragi. Dovremmo anche sapere che criticare i servizi segreti, di ogni paese, la loro eventuale inadeguatezza, la loro mancanza di coordinamento serve esclusivamente qualora le proposte per risolvere i problemi siano rapidamente operative. Dovremmo anche sapere che qualsiasi servizio segreto efficiente non si vanterà mai di avere sventato una strage, evitato un attentato, catturato i presunti kamikaze poiché mira, giustamente, a tenere coperte le sue fonti, a salvaguardare i suoi informatori, a non svelare nulla del suo modus operandi. Rimane verissimo che la cooperazione, la condivisione e la prevenzione sono essenziali, ma è altrettanto vero che, salvo deplorevoli casi di gelosie professionali o, peggio, nazionalistiche, non pochi servizi segreti si scambiano già da tempo una pluralità di informazioni. Se ci sono falle, oltre al chiedere conto agli operatori dei servizi segreti, la responsabilità va attribuita ai ministri e ai sottosegretari che a quei servizi sono predisposti.
Non serve a niente colpevolizzare l’Europa e gli europei per il loro colonialismo, per il capitalismo predatore, per politiche gravemente sbagliate: dall’intervento in Iraq alla defenestrazione di Gheddafi all’inazione in Siria. Non è ragionevolmente possibile tornare indietro e riparare a errori e a crimini. Imparata la lezione (temo non da tutti), non ne consegue affatto che diventa possibile pensare che la sfida dei terroristi kamikaze armati di tutto quel che serve, con sostegno finanziario e logistico, sia risolvibile con parole di pace. Uno dei due responsabili, forse il maggiore, dell’intervento in Iraq, che ha sollevato il coperchio del vaso di Pandora di tutte le contraddizioni, le rivalità, le tensioni anche religiose nel mondo mediorientale, Tony Blair, sostiene che è necessario ricorrere a un “centrismo muscolare”. Insomma, non si può rinunciare all’uso delle armi sia per difendersi sia per dare aiuto a coloro, non sembra che siano la maggioranza, che tentano di (ri)costruire stati in grado di garantire, se non una, al momento impossibile, democrazia, almeno ordine politico e sicurezza personale.
Un giorno, magari, si dovrà anche usare la ragione per discutere del multiculturalismo, del suo fallimento, della sua pessima attuazione (“fate quel che vi dettano i vostri costumi”), della sua ridefinizione. Nel frattempo, però, gli europei e, più in generale, gli occidentali hanno il dovere morale e politico di rispettare e attuare i valori sui quali hanno costruito le loro comunità e l’Unione Europea e di esserne orgogliosi. Sono anche autorizzati a chiedere a chiunque voglia venire a vivere in Europa e crescervi i suoi figli e le sue figlie di rispettare quei valori. Quando gli europei avranno eletto Presidente della Commissione un islamico, quel Presidente dovrà dichiarare che riconosce la separazione fra le Chiese, al plurale, compresa la sua, e lo Stato, e che la sharia nella “sua” Europa è fuorilegge.
Pubblicato AGL 25 marzo 2016
I migranti lo sanno l’Europa c’è
Troppo bistrattata, l’Unione Europea non può in alcun modo essere considerata responsabile della migrazione di centinaia di migliaia di persone. Al contrario, per quei migranti, tecnicamente quasi tutti clandestini, ad eccezione di coloro che hanno diritto allo status di rifugiato politico, l’Unione Europea è, in buonissima misura, la soluzione almeno temporanea. Molti, se e quando potranno, rientrerebbero nelle loro patrie, cessassero mai le guerre civili, a cominciare da quella in corso in Siria e quella, non finita, in Sudan. Finora, contrariamente ai troppi e male informati critici, pure in assenza, questa sì criticabile, di una politica comune dell’Unione Europea, non pochi Stati-membri, soprattutto a cominciare dall’Italia a continuare con la spesso accusata Germania e con la silenziosa Svezia, hanno accolto moltissimi emigranti, magari non sapendo delineare criteri da condividere con Stati più riluttanti.
L’Unione Europea non ha creato il problema della migrazione. Non è responsabile né del disastro libico, anche se poteva interrogarsi prima su come gestire le conseguenze dall’intervento contro un dittatore sanguinario come Gheddafi. L’Unione Europea non porta nessuna responsabilità neppure delle guerre civili in Siria e nel meno noto caso dello Yemen. Piuttosto bisognerebbe ricordare agli americani, non principalmente a Obama, ma anche agli inglesi, i Conservatori votarono a favore, che furono loro ad appiccare l’incendio con la guerra in Iraq. Non “causa” delle immigrazioni, l’Unione Europea deve, tuttavia, trovare una o più soluzioni. Lo deve fare non per paura, infondata, dei migranti terroristi, ma per rimanere fedele ai suoi valori e ideali di protezione e di promozione dei diritti umani.
La paura che, in troppi luoghi dell’Europa, viene manipolata da alcuni leader, l’ungherese Orbàn, l’inglese Cameron, la francese Le Pen e, nel suo piccolo, dal leghista Salvini, è infondata. Con i migranti non arrivano i terroristi, i quali, dovremmo averlo imparato da tre brutti avvenimenti: gli attentati alla stazione di Madrid, alla metropolitana di Londra e al settimanale francese Charlie Ebdo, erano già qua, nati, vissuti male e decisi in nome di un qualche più o meno distorto precetto religioso a colpire gli europei. I migranti sono tutti alla ricerca di luoghi dove sopravvivere con le loro famiglie. Il loro arrivo in Europa costituisce, senza esagerare, un omaggio al cosiddetto vecchio continente. Un giorno, probabilmente, qualcuno scoprirà che i migranti hanno rivitalizzato, non soltanto demograficamente, l’Europa.
Che il problema non abbia, però, una soluzione soltanto europea, non significa affatto che non debba essere cercata anche nell’ambito dell’Unione. Il conservatore Cameron e la sua Ministra May, annunciando politiche di blocco degli ingressi e delle permanenze sul territorio inglese, denunciano la loro mancanza di volontà e la loro incapacità a trovare soluzioni. Bloccare gli immigrati prima che siano messi sui barconi da scafisti che perseguono il loro personale arricchimento, spesso tollerati qualche volta incoraggiati da governanti, come quelli libici e di alcuni paesi dell’Africa sub sahariana, che non controllano il loro territorio, è operazione difficilissima. Aiutare, anche con denaro, risorse, intelligence, qualche governante del Maghreb e del Medio-Oriente, a riportare un ordine decente e non repressivo nei loro paesi sembra politica più saggia e più produttiva, soprattutto nel medio periodo. Molto potrebbe farsi, come da tempo già succede soprattutto in Germania e in Svezia, con politiche nazionali di integrazione linguistica e lavorativa. Forse l’Unione Europea dovrebbe partire proprio da queste esperienze e tentarne la generalizzazione fra tutti gli Stati-membri. Il resto sono chiacchiere, più o meno politicizzate, particolaristiche, a vanvera.
Pubblicato AGL il 1°settembre 2015