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Non dei populisti, ma del popolo (referendario) bisogna avere paura

Larivistailmulino

Una replica alla Nota di Michele Salvati

Referendum cinico e baro. Fabbrini sostiene, e Salvati concorda convintamente, che i «no» ai referendum partono sempre avvantaggiati, addirittura, molto spesso, vincono. Entrambi non menzionano, però, che, fuori d’Italia, questo non è accaduto in due casi-contesti chiave. In Francia, quando nel 1958 l’incauto e avventuroso de Gaulle fece votare il popolo sulla Costituzione della Quinta Repubblica, vinse proprio lo oui. Poi, quando nel 1962, a completamento e perfezionamento della Repubblica semipresidenziale, il generale-presidente sottopose a referendum l’elezione diretta del presidente della Repubblica ne conseguì un altro chiaro e forte oui. La Gran Bretagna rincara la dose della confutazione: Brexit. Infatti, contro la «teoria» di un’inadeguata politologia hanno vinto i sostenitori del yes, we leave. Quanto all’Italia potrebbe essere sufficiente ricordare che nel 1993 gli elettori votarono «sì» addirittura a otto referendum, cinque dei quali su materie elettorali-istituzionali. Insomma, le prove empiriche di quello che sostiene Fabbrini e che supporta Salvati sembrano, «diciamo», debolucce. Per di più, il governo Renzi, che entrambi appoggiano pancia a terra – ma non possono dirlo – li ha anche parecchio delusi. Infatti, il referendum costituzionale, inconsapevole dei loro (allora inespressi) pareri, lo ha fermamente voluto il capo (del governo), spingendolo ai limiti non della personalizzazione, ma del plebiscitarismo.

Se Renzi e Boschi non avessero insistito, probabilmente non avremmo nessun generosissimo – poiché le riforme sono state approvate da una maggioranza parlamentare – referendum altrimenti impossibile poiché il variegato, articolato e disorganizzato fronte del «no» le 500 mila firme proprio non è riuscito a raccoglierle. Tuttavia, il governo che afferma di volere la partecipazione dei cittadini, ha anche invitato gli elettori all’astensione sul referendum relativo alle trivellazioni, facendolo fallire per mancanza di quorum. Avesse collocato la data insieme alle amministrative di giugno, questo governo così impegnato nel ridurre i costi della politica sarebbe riuscito a risparmiare un centinaio di milioni di euro. Purtroppo, persino l’opportunismo istituzionale bisogna prima o poi pagarlo.

Il peggio, però, è che, Renzi e Boschi hanno esagerato nel loro entusiasmo partecipazionista referendario. Infatti, i due giovani riformatori, non contenti del referendum abrogativo così com’è, ne formulano una disciplina aggiuntiva, rendendolo più difficile da chiedere (800 mila firme), ma più facile per il conseguimento del quorum commisurato alla percentuale di votanti alle precedenti elezioni politiche, quindi più esposto al fatidico «no».
Poi, però, esagerano e introducono altre fattispecie referendarie (non meglio precisati referendum «propositivi e d’indirizzo»), ovvero moltiplicano le possibilità attraverso le quali le élite oscurantiste mobiliteranno il popolo (scelgano i lettori a quale animale assimilarlo) contro le élite buone che vogliono soltanto portare in questo malandato Paese (attualmente ottava potenza industriale al mondo) «magnifiche sorti e progressive». A sventare il pericolo letale, ringraziando fin d’ora la prudenza (sic?) della Corte costituzionale che ha rinviato la decisione, sarà poi indispensabile togliere il ballottaggio dall’Italicum.
Hai visto mai che il popolo faccia vedere le stelle alle élite degli algoritmi confindustriali, dei banchieri internazionali, dei governanti ex rottamatori? E dei politologi e dei loro amici.

Pubblicato il 20 settembre 2016

Naufragare nella demagogia elettorale

Prima del referendum, la demagogia, ovvero la pretesa, ad opera dei governanti, di “guidare (verso l’astensione) il popolo”, ha avuto ampio spazio. Dopo il referendum, la demagogia si esprime nella pretesa di fornire l’interpretazione corretta, naturalmente l’unica, all’esito del voto. Anche in questa demagogia eccellono i sostenitori di Renzi, ma, nella peggiore tradizione italiana, nella quale vincono (quasi) sempre tutti, non rimangono soli. Allora, sia chiaro, anzitutto, che ha perso chi voleva il “sì” al quesito referendario, ovvero l’abolizione delle trivellazioni. Invece, ha vinto chi quelle trivellazioni vuole, per buone, ma anche per cattive ragioni, continuare a fare. Poi, è giusto e opportuno passare ai numeri e alle interpretazioni. Bisogna, però, anche sapere contare.

Politicamente, i sostenitori del “sì” possono sottolineare che più di tredici milioni di italiani si sono espresso a loro favore. Molto male fanno, dal canto loro, i sostenitori della continuazione delle trivellazioni a basarsi sul numero degli astenuti, addirittura ad esaltarlo come un grande successo (del governo). Infatti, fra I 35 milioni di italiani che non sono andati alle urne, ce ne sono certamente moltissimi che lo hanno deciso deliberatamente per non consentire il conseguimento del quorum. Omaggio del vizio alla virtù elettorale, questi astensionisti hanno preso atto che non avrebbero vinto con il voto esplicito e si sono comodamente/furbescamente trincerati nel non-voto. Poiché sappiamo che, oramai, nelle elezioni politiche, vota poco più del 70 per cento degli italiani, è anche possibile sostenere che la vittoria appartiene al 30 per cento e più degli astensionisti cronici. Di costoro non conosceremo mai le preferenze, ed è un peccato poiché politiche pubbliche complesse, comprese le trivellazioni, sarebbero forse migliori se i decisori ottenessero maggiori informazioni dall’elettorato.

Una democrazia decidente nella quale un terzo degli elettori non si esprime è destinata a squilibri e a piroette. Con riferimento al voto del 17 aprile, è possibile effettuare previsioni sull’esito del referendum costituzionale (plebiscito, se il capo del governo insiste a personalizzarlo) di ottobre? Poiché il referendum costituzionale non prevede quorum, né Renzi né Napolitano, che deve essere menzionato essendo sceso in campo con tutto il suo prestigio, potranno invitare ad una, per loro esiziale, astensione. Il referendum costituzionale sarà ad armi quasi (il governo gode sempre di maggiore visibilità e impatto degli oppositori) pari.

Pur tenendo conto che, molto, com’è giusto in una democrazia, dipenderà dalla campagna elettorale, dai toni, ma, sperabilmente, soprattutto dal merito degli argomenti usati a favore o contro revisioni costituzionali anche complesse, i dati del 17 aprile suggeriscono due considerazioni fondamentali. La prima è che grosso modo coloro che possiamo ritenere favorevoli alla riforma (quasi tutti gli astenuti) equivalgono sostanzialmente ai contrari, vale a dire a quasi tutti e forse qualcuno in più di coloro che hanno votato “sì” all’abrogazione delle trivellazioni. Seconda considerazione, ferma restando la mia critica a chi non vota, spesso nascondendo il disinteresse dietro un presunto diritto all’astensione, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, la percentuale complessiva dei votanti nel referendum costituzionale sarà molto importante. L’onere di portare alle urne elettori invitati ad astenersi il 17 aprile spetterà a chi ha voluto e fatto quelle revisioni. Tuttavia, il fronte del “no” alle riforme renzian-boschiane, con prefigurazione, grazie a Verdini e Alfano, del Partito della Nazione, non deve contare su una bassa affluenza grazie alla quale i loro sostenitori vincerebbero. Dovrà, invece, spiegare e convincere per vincere bene. Tra le (mie) interpretazioni e l’esito c’è, ovviamente, il procelloso mare della campagna elettorale nel quale naufragare sarà tutto meno che dolce .

Pubblicato AGL il 19 aprile 2016