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Il peccato originale che rende questo Pd non riformabile @DomaniGiornale


Revisionare. Ricostruire. Rifondare. Rigettare. Rifare da capo. Ex novo. Si moltiplicano i verbi e hanno già fatto la loro comparsa coloro che quanto più sono platealmente candidati alla segreteria del Partito democratico tanto più dichiarano che non è il momento di fare nomi. E allora chi scrive non farà loro nessuna pubblicità. Fra l’altro sono nomi che non mi piacciono e non mi convincono.
Per capirne di più bisogna risalire alla fase in cui il Pd nacque e a come nacque. Quel 21 aprile 2007 c’ero anch’io a Campo di Marte, Firenze, al congresso di scioglimento dei Democratici di sinistra. Nella mia qualità di iscritto di base (unico partito di cui ho avuto la tessera in seguito all’invito del segretario regionale dell’Emilia-Romagna Antonio La Forgia, che mi piace ricordare qui), avevo persino portato in giro e promosso la mozione tre: “Un Partito democratico? Non subito, non così”.
Con Gavino Angius e Mauro Zani volevamo che si cominciasse a discutere, collaborare, mischiarsi a livello locale attraendo anche altre energie, altre persone interessate a quanto di nuovo sapessimo e potessero fare, altri saperi ed esperienze. Venni, lo metto sul personale, sonoramente sconfitto e più o meno elegantemente sbattuto fuori. Nella celebrazione dell’evento fra le lacrime e i sogni della grande maggioranza di coloro che già dirigenti erano e che a lungo lo sarebbero rimasti, le mie orecchie ascoltarono inadeguatezze, manipolazioni, errori.
Era ora che il Partito democratico diventasse il luogo di incontro delle migliori culture riformiste del paese: cattolicesimo democratico, gramscismo, ambientalismo, ecc. ecc.. Non trovò posto il socialismo e meno che mai i socialisti, non voluti né dai cattolici né dagli ex comunisti che avevano tenuto alte le loro critiche alle socialdemocrazie del nord Europa: inadeguate, incapaci di cambiare il capitalismo, logore, superate. Sì, c’era proprio di che piangere di fronte alla fusione fredda, senza entusiasmo, di due gruppi dirigenti.
FONDERE CULTURE POLITICHE
Nessun tentativo ad opera di nessuno di suggerire come le culture politiche fondanti vetuste e esauste potessero dare vita ad un nuova cultura politica.
Il Manifesto dei Valori, per me un documento della massima importanza, iniziava “Noi, I Democratici, amiamo l’Italia”, uno scimmiottamento deprimente dell’incipit della berlusconiana discesa in campo: “L’Italia è il paese che amo”.
Tutte le volte che ci penso riscrivo la prima fase in chiave riformista: “Noi, i Democratici vogliamo migliorare l’Italia.
Certamente non avrebbero potuto essere i due elementi che i “novisti” introdussero nel partito: “contendibilità” e “primarie” a costruire un partito nuovo, dinamico, progressista.
Se davvero democratico nel suo funzionamento, le cariche importanti di quel partito sarebbero state inevitabilmente e giustamente contendibili.
Quanto alle primarie, che, incidentalmente non sono mai le modalità con le quali si elegge il segretario del partito, ma sono strumenti utili per selezionare le candidature alle cariche elettive al tempo stesso mobilitando anche i simpatizzanti, furono subito piegate da Walter Veltroni a veicolo per la sua cavalcata estiva dal Lingotto alla segreteria del partito.
Ponendo l’accento quasi esclusivamente sulle politiche da fare, e nulla dicendo su quale partito volesse costruire, Veltroni portò più di una mina per fare saltare in aria il già periclitante governo Prodi.
Poi annunciò che il Pd era un partito “a vocazione maggioritaria”, da un lato, senza stupire coloro che sanno che i partiti cercano di ottenere il maggior numero possibile di voti, ma, dall’altro, preoccupando molto coloro che sanno che nelle democrazie parlamentari i governi sono di coalizione.
In seguito, soltanto due segretari del Pd scelsero di trovare parole d’ordine incisive: Pierluigi Bersani e Matteo Renzi.
Il primo annunciò di “voler dare un senso a questa storia”. Immagino il riferimento fosse alla storia del Partito comunista, con l’accento sulla variante riformista di governo di stampo emiliano.
Nessun tentativo di elaborazione e/o revisione di una nuova cultura politica.
Non da Matteo Renzi è plausibile attendersi una visione politica ispirata ad una qualsiasi cultura.
Infatti, la parola d’ordine “rottamazione” fa parte della cassetta, non delle idee, ma degli attrezzi populisti.
Funzionò almeno in parte. Il Renzi governante vi aggiunse un’altra parola populista: “disintermediazione”.
Nessuna associazione, nessun gruppo d’interesse, nessuna categoria professionale s’interponga fra il capo del governo e il popolo.
Non ricordo critiche e repulse interne a queste parole d’ordine e nemmeno elaborazioni alternative.
In verità non mi pare che dai Democratici siano stati fatti sforzi di comprensione delle sfide da affrontare e dei problemi da risolvere.
Appoggiarsi ai governi non-politici, sostenerne l’azione fino ad identificarsi con l’agenda del capo di quel governo significa non impegnarsi in nessuna attività di rinnovamento e di elaborazione culturale.
I segretari passano. Quelli che non passano sono i capi corrente, scusate, i coordinatori delle “sensibilità” all’interno di un partito plurale, cioè caratterizzato da oligarchie neanche troppo mutevoli. La disattenzione alla cultura politica rimane diffusa e alta.
IL PARTITO IRRIFORMABILE
Sì, questo Partito democratico è irriformabile. Non sarà riformato da tutti coloro che ne hanno tratto prestigio, cariche e sostentamento per almeno un paio di decenni.
Non sarà riformato semplicemente sostituendo i “vecchi” con i giovani, riducendo il numero degli uomini per ampliare gli spazi politici a favore delle donne che, spesso, sarebbero quelle che si sono accodate agli uomini potenti.
I riformatori potrebbero volere guardare a due casi interessanti.
Primo caso: come François Mitterrand in Francia riuscì a incoraggiare e attrarre tutte, o quasi, le associazioni e club variamente capaci di elaborazioni riformiste (sì, lo so che, da un lato, il semipresidenzialismo, dall’altro, la legge elettorale maggioritaria a doppio turno in collegi uninominali imponevano di aggregarsi per non scomparire) per dare vita al Parti socialiste.
Secondo caso: l’Ulivo, il grande incompiuto. Fu la mobilitazione di un ampio schieramento di associazioni che intravedevano lo spazio per fare politica, non come professione, ma come vocazione temporanea, che sospinse al successo elettorale.
Poi, però, neppure gli ulivisti vollero, si dedicarono, seppero impegnarsi nella attività indispensabile per cambiare questo paese: elaborare una cultura politica all’insegna di una società giusta, europea e europeista, che riduce le eguaglianze e amplia le opportunità. Domani è un altro giorno.
Pubblicato il 8 ottobre 2022 su Domani
Il partito unico? Per funzionare serve il ritorno al maggioritario #intervista @ilgiornale

Intervista raccolta da Stefano Zurlo

Il partito unico? «Il termine è un po’ raggelante in democrazia», risponde con una punta di perfida ironia Gianfranco Pasquino, professore emerito di scienza della politica e fresco autore del saggio Libertà inutile, profilo ideologico dell’Italia repubblicana, appena pubblicato da Utet. «Ma il punto è un altro».
Scusi, almeno dalle parti del centrodestra il dibattito gira proprio attorno a questa questione: si fa il partito unico? Non si fa e ci si ferma alla Federazione? O ancora, meglio non fare nulla?
«Berlusconi ebbe un’intuizione geniale quando creò una coalizione unificata nel 1994: un Polo al Nord e un altro al Sud, con Forza Italia come perno di un’alleanza che comprendeva Alleanza Nazionale e la Lega».
Oggi?
«Oggi Salvini ha bisogno di visibilità, è lo studente che copia, il copione. Ma il Berlusconi del 1994 aveva un grande vantaggio rispetto al Salvini di oggi: c’era il Mattarellum, un sistema maggioritario con i collegi uninominali, un sistema che spingeva verso l’unità».
Oggi c’è il Rosatellum che ha una quota maggioritaria. Non basta?
«No che non basta, questo è un sistema misto con una modesta quota maggioritaria, quello era maggioritario per tre quarti. Capisce, se cambiano le regole del gioco cambia tutto».
Altrimenti?
«Si può andare avanti a discutere per mesi, ma mi lasci essere scettico: non credo che arriveremmo molto in là. Tanto per cominciare, la Meloni sta bene dove sta: ha una rendita di opposizione».
Ma il partito unico…
«Dica pure la coalizione unica, anzi meglio unificata».
Dunque, la coalizione unica può funzionare?
«Se si modifica la legge elettorale, Penso di sì e il discorso può farsi interessante».
Interessante?
«Si supera il pluralismo che in realtà è frammentazione e dispersione delle forze e si stabilisce una leadership chiara. Non è poco».
Fra Salvini e Meloni?
«Ci si siede intorno a un tavolo, si guardano i sondaggi, gli ultimi, naturalmente, e sulla base di quelli si decide chi sarà il candidato premier. Non esiste col maggioritario un’altra formula».
Dall’altra parte?
«Pensi a cosa vorrebbe dire un Nuovo ulivo: potrebbe essere un passo in avanti straordinario per le forze di sinistra. Sfruttando anche il nome autorevole di Prodi che oggi torna nella corsa al Quirinale».
Ma come lo chiamerebbe?
«Ovviamente toglierei ogni riferimento all’Ulivo. Eh, mi pare non porti bene. Lo battezzerei partito Progressista, in contrapposizione al partito Conservatore o, magari con lessico berlusconiano, partito Liberale, meglio ancora partito Liberale nazionale».
Il centrosinistra unito avrebbe più forza?
«Potrebbe ad esempio rivolgersi ai sindacati e chiamarli ad un dialogo riformatore proprio in nome delle idee progressiste. Credo che l’impatto sarebbe forte e si sprigionerebbero suggestioni inedite. Penso che alla fine da una parte e dall’altra ci sarebbero coalizioni in grado di mordere la realtà e di incidere davvero sui problemi. Ma, ripeto, se non si forzano le regole del gioco, il match rimane una partita fra dilettanti».
Insomma, la semplificazione del quadro da sola non basta?
«Direi proprio di no. Ha presente la Dc?».
Perché?
«La Democrazia cristiana era già una sorta di partito unico che andava da destra a sinistra e in cui le correnti pescavano in bacini diversi, tant’è che se oggi seguissimo i voti degli elettori dello scudo crociato li ritroveremmo nel centrodestra e nel centrosinistra. Ma il partito unico non basta, la semplificazione senza un cambio della legge in senso maggioritario è un’incompiuta e non dà risultati. Le correnti si spostano in funzione del potere e destabilizzano. Siamo punto e a capo».
Il maggioritario come punto di partenza, ma poi si dovrebbe passare ad un sistema presidenziale o semipresidenziale?
«Sulla carta va benissimo, ma naturalmente questo è un discorso che nessuno vuole affrontare: per arrivare al presidenzialismo dovremmo immaginare una crisi gravissima, un crollo che francamente non c’è».
Ma potendo e dovendo scegliere, meglio il modello americano o quello francese?
«Meglio, molto meglio il sistema semipresidenziale francese. Negli Usa il presidente si trova spesso in difficoltà perché la Camera o il Senato hanno una maggioranza di segno opposto. In Francia, con la coabitazione, c’è sempre qualcuno che comanda: il presidente o il premier e non c’è il rischio di paralisi. Ma ci vorrebbe un De Gaulle all’orizzonte e io francamente non lo vedo».
Pubblicato il 28 giugno 2021 su il Giornale
Il Pd di Letta e una sinistra federazione. Ricordi e riflessioni di Pasquino @formichenews
Mentre Letta festeggia il suo Pd che diventa primo partito nei sondaggi, risulta ancora più evidente che una coalizione effettivamente inclusiva è indispensabile. Magari Conte bloccherà l’emorragia delle 5 Stelle, ma non sarà sufficiente allearsi con il Pd a superare la non-Federazione del Centro-Destra saldamente intorno al 45 per cento
Mio nonno sostiene di avere già ascoltato e letto qualche centinaia di dichiarazioni simili a quelle del Ministro Orlando: “Il Pd, sulla base di un asse chiaro, deve lavorare a un modello Unione, per mettere insieme tutte le forze possibili che si trovano nel centrosinistra, senza escludere nessuno”. La parola Unione gli evoca la più infausta delle esperienze, quello del pasticciaccio brutto del 2006. Allora, non soltanto Prodi non seppe sfruttare tutto l’abbrivio offertogli dalle primarie, ma l’Unione fu un patchwork davvero mal riuscito, raffazzonatissimo.
Senza tornare al Fronte Popolare del 1948 che mio nonno ricorda non proprio con entusiasmo, sarebbe forse preferibile guardare all’Ulivo, quello sì fu un tentativo intelligente di mettere insieme tutte le non ancora logore e logorate sparse membra della sinistra e del riformismo.
No, mio nonno non vuole proprio parlare della fondazione del Partito Democratico anche se qualcosa da imparare da quei molti permanenti errori ci sarebbe. Sostiene anche che dall’Ulivo si possono trarre due lezioni non solo importanti, ma decisive. La prima è che un buon contributo alla formazione di quello schieramento venne dalla legge elettorale Mattarella. Nei collegi uninominali consentire la presentazione di più di un candidato sarebbe stato un suicidio, lo capirono persino i democristiani memori della batosta del 1994. Però, nessuno dimentichi mai i guasti della desistenza con l’inaffidabile Bertinotti che pose le basi per la caduta del primo governo Prodi.
La seconda lezione è che, con buona pace di non poche vestali uliviste irriflessive, dopo la vittoria elettorale, il capo dello schieramento pensò di dovere soltanto governare senza mai innaffiare politicamente l’Ulivo (forse era consapevole della sua inadeguatezza, ma allora avrebbe dovuto subito cercare un suo uomo/donna di fiducia). Adesso, mentre Letta festeggia il suo PD che diventa primo partito nei sondaggi grazie alla meritata retrocessione della Lega (Fatima ha smesso tempo fa con i miracoli), risulta ancora più evidente che il “campo largo”, il “perimetro ampio”, una coalizione effettivamente inclusiva è indispensabile poiché con il 20 per cento virgola non si va da nessuna parte, meno che mai a Palazzo Chigi. Magari Conte bloccherà l’emorragia delle 5 Stelle, ma non sarà sufficiente alleato con il PD a superare la non-Federazione del Centro-Destra saldamente intorno al 45 per cento.
Mio nonno non vorrebbe sentirsi raccontare la favola dei programmi. Non ha mantenuto un buon ricordo della Fabbrica dell’Unione e del suo inutile volumone di 283 pagine. Continua a credere, sfogliando qualche libro di scienza politica, che la politica si fa organizzandosi sul territorio e che i meccanismi elettorali sono dispensatori di opportunità politiche. Sa che il territorio in seguito alla riduzione del numero dei parlamentari è diventato più complicato, ma anche più disponibile a chi riuscisse a conoscerlo meglio. Ė assolutamente convinto che qualsiasi “federazione” Cinque Stelle-Partito democratico non porterebbe nessun valore aggiunto se operasse in una situazione elettorale caratterizzata da un sistema proporzionale (proprio al contrario, come dimostrò il Fronte Popolare). Continua a guardare alla Francia dove il doppio turno, senza bisogno di nessun furfantino premio di maggioranza, diede un suo formidabile contributo alle vittorie della gauche plurielle non solo con Mitterrand, ma anche con Jospin nel 1997.
E, mi chiede, ci piaccia o no Macron, il suo En marche non è forse stato un importante movimento di aggregazione di forze del cambiamento? Annuisco, ma non elaboro. Silenziosamente, prendo atto che l’anima è impalpabile e il cacciavite bisogna volerlo e saperlo usare anche riformando per necessità e con intelligenza la legge elettorale –che nei comuni, non dovremmo dimenticarlo mai, è una variante del doppio turno. All’inclusività ci penseranno gli elettori quando vedranno l’offerta dei partiti (di centro, trattino sì e no, sinistra).
Pubblicato il 13 giugno 2021 su formiche.net
L’ombra di Craxi #Italia89 #mondoperaio
da mondoperaio 9 – settembre 2019
Italia ’89
L’ombra di Craxi
Prima di cominciare questo lungo commento al testo di Petruccioli (n.d.r. C. Petruccioli, Il tabù dell’alternanza, mondoperaio 9 – settembre 2019), mi sono chiesto a che cosa può servire riflettere sul passaggio cruciale che portò dal PCI al PDS. Dopo non poche esitazioni e contorsioni mi sono risposto che, dato il ruolo svolto dal PCI nel sistema politico italiano dal 1946 al 1989 e poi dal PDS e i suoi successori nella fase successiva, qualche notazione, qualche approfondimento e molte critiche hanno senso. D’altronde, seppure in maniera tutt’altro che lineare, il Partito Democratico di oggi (domani non so) porta sulle spalle un fardello di eredità comunista, ex-comunista, post-comunista nient’affatto lieve. Provare a fare chiarezza sulle modalità della svolta dell’89-91, sulle sue inadeguatezze, su quello che non avrebbe mai potuto essere serve in qualche modo per indicare la necessità di una svolta contemporanea il prima possibile e, forse, a non rifare errori simili, molti dei quali già ampiamente commessi, addirittura ripetuti più volte.
Dal resoconto di Petruccioli, dalla mia condizione di allora (ero Senatore della Sinistra Indipendente), da quanto avevo letto e studiato, da quello che sapevo, direi, senza falsa modestia, molto e, comparativamente, moltissimo (!), sui partiti e sulle loro trasformazioni, credo di potere sostenere che quel Partito Comunista Italiano era sostanzialmente non riformabile. Vale a dire che non sarebbero bastati aggiustamenti nelle modalità di comportamento del gruppo dirigente, cambiamenti cosmetici nel pensiero politico, riforme nella struttura organizzativa. Ci voleva di tutto e di più. Non ho nessuna difficoltà a concordare con Petruccioli che critica coloro che hanno concepito e trattato la “svolta come evento improvviso, indotto nel Pci dall’esterno, sostanzialmente avulso dalla vicenda originale [qui qual è il significato di “originale”? GP] di quel partito”. Tutto questo, però, è un’aggravante essendosi poi rivelata enorme l’impreparazione ad affrontare una svolta ritenuta insita nella storia “originale” del partito.
L’occasione per cominciare era andata perduta nel giugno del 1984 subito dopo la morte di Enrico Berlinguer. Scegliere come segretario Alessandro Natta aveva significato rimandare sine die, ma il giorno fatidico arrivò presto, la trasformazione di un grande partito, di massa, popolare, rappresentativo che aveva iniziato il suo declino elettorale e culturale (più precisamente, di perdita dell’egemonia di tipo gramsciano). Potremmo anche fare dell’ironia sull’affollarsi di molti bene intenzionati medici al capezzale del PCI, troppi dei quali neppure lo ritenevano “sufficientemente” ammalato. Proliferavano Le lettere al Partito comunista e suggerimenti sotto forma di altri generi letterari. Probabilmente, il gruppo dirigente si sentiva lusingato da cotanta attenzione. Certamente, alla base giungevano scarsi echi di un dibattito che mi pareva spesso ovattato e occasionale, cioè dettato da qualche occasione (terremoto, scala mobile, etc.). Molta della base, però, pur attraversata da una pluralità di linee divisorie, manifestava notevole interesse per tutte quelle idee che suggerissero come andare oltre le caute posizioni ufficiali. Anche se è vero che, spesso, in non pochi partecipanti, affiorava un grumo di emozioni, sentimenti e risentimenti, che rendeva alcuni incapaci di guardare indietro e di fare i conti con il passato al tempo stesso che li impossibilitava a guardare a vanti, a progettare il futuro. In quelle occasioni ho imparato che, comunque, in politica bisogna tenere conto anche delle emozioni, non semplicemente scansarle.
Mi limiterò a due esempi personali, non per narcisismo, ma perché ne ho conoscenza diretta. Primo, all’invito del segretario del PCI di San Giovanni Valdarno, fra la fine del 1984 e la primavera del 1985, ad andare a discutere della riforma elettorale e. specificamente, della proposta che avevo presentato in Commissione Bozzi (4 luglio 1984), risposi chiedendo quali erano le posizioni degli iscritti. Risposta: metà favorevoli a quanto sostenevo, metà contrari. Mi precipitai. Ne scaturì un dibattito di rara intensità e qualità con le preferenze personali e politiche che si intrecciavano con il desiderio di acquisire il massimo di informazioni possibili sui sistemi elettorali e sulle loro conseguenze sui partiti, sulle coalizioni e, naturalmente, sul PCI. Nella primavera del 1986, in preparazione del Congresso del PCI di Firenze, fui invitato a Reggio Emilia, dall’allora segretario della sezione alla quale erano stati iscritti alcuni che negli anni settanta erano diventati brigatisti. I dirigenti desideravano una mia conferenza di respiro che, certo, consentisse di riflettere sulle tematiche dell’imminente congresso, ma anche di guardare avanti, molto avanti. Convenimmo sul titolo “Sopravviverà il PCI fino al 2000?”. A fronte di un centinaio di compagni, la mia risposta, non respinta pregiudizialmente, ma ampiamente, direi, appassionatamente, discussa, fu: “probabilmente, no”. Non sono un indovino, ma mi vanto di sapere applicare le conoscenze della scienza politica a tutti fenomeni politici (Giovanni Sartori sarebbe orgoglioso di me).
Dalle mie numerose escursioni sul territorio, che scherzosamente definivo turismo politico, frequentando non poche Federazioni e sezioni del PCI, dove non ero mai andato in precedenza, con la sola preclusione del PCB (Partito Comunista di Bologna) pervicacemente per nulla interessato a discutere con me (non lo fece mai), traevo regolarmente quella che era molto più che una impressione, vale a dire, la preoccupazione degli iscritti, dei simpatizzanti e dei militanti nel vedere che al cambiamento, in Italia, nell’Europa centro-orientale, nel mondo, il gruppo dirigente del partito non sapesse/non volesse/ non riuscisse a rispondere. Sembrava che, ad eccezione di Pietro Ingrao, nessuno di quel gruppo dirigente si interrogasse. Naturalmente, non solo sarebbe stupido negarlo, ma anche controproducente per qualsiasi comprensione di quanto stava succedendo, sui cambiamenti possibili e auspicabili, forse indispensabili, su tutto si stagliava l’ombra lunga e minacciosa di Bettino Craxi.
Un punto va chiarito subito, in maniera definitiva. La da molti temutissima socialdemocratizzazione del PCI (da anni chiamato a fare la sua Bad Godesberg in seguito alla quale i socialdemocratici tedeschi arrivarono rapidamente al governo), dopo il crollo del PCUS e del suo sistema, non era resa impraticabile dal socialdemocratico Craxi. A determinate condizioni, con una adeguata elaborazione, non sarebbe stata interpretabile come una improponibile resa a Craxi, un cedimento totale. La socialdemocratizzazione non era praticabile perché, nonostante qualche neppure troppo timido tentativo effettuato da alcuni studiosi comunisti di approfondire le esperienze, al plurale, socialdemocratiche, nel PCI la loro liquidazione politica e culturale era già avvenuta da tempo. La convinzione che le socialdemocrazie erano “in crisi”, “logore”, “superate”, non in grado di sconfiggere il capitalismo, quindi non erano una prospettiva da perseguire, era diffusissima nel partito, molto più che maggioritaria. Non vi erano dubbi che la terza via si trovava o doveva comunque essere cercata nella spazio fra i comunismi realizzati e le socialdemocrazie a loro volta realizzate. I lettori e gli interlocutori si faranno una o molte ragioni del mio silenzio su quegli studiosi e commentatori comunisti che, nello stesso periodo, per superare quel loro comunismo (sic), oppure forse solo per farsi pubblicità sulla stampa “borghese”, recuperavano il decisionismo attribuendolo al pensiero di Carl Schmitt, loro giurista, già nazista, di riferimento. Quella storia, però, la lascio scrivere a loro, anche a quelli poi diventati in maniera rivelatrice renziani. Il fatto è che per andare oltre le esperienze socialdemocratiche bisogna non soltanto averle studiate e conoscerle, ma avere la capacità di scegliere quello che è imperativo conservare e quello che bisogna valorizzare per costruire una situazione più avanzata. Nel frattempo, abbiamo capito, trent’anni dopo, che anche le conquiste socialdemocratiche sono reversibili. Peccato che molti pensino che la ripresa di un pensiero di sinistra debba passare attraverso il neo-liberalismo.
Da quanto leggo nel molto (fin troppo?) lungo documento di Petruccioli, quasi nulla di quello che ritenevo allora importante per trasformare un Partito comunista, con tutte le sue peculiarità italiane, fu davvero oggetto del dibattito. Cito “si sarebbe dovuta sviluppare una critica chiara e argomentata delle posizioni tradizionali del PCI che si volevano superare, delle radici ideologiche che ne erano all’origine e che motivavano, a ben vedere [si vedevano benissimo, GP], anche i residui [sic, !] ma tenaci legami con ‘il socialismo reale’.” Sarei alquanto più drastico su quello che i comunisti avrebbero dovuto chiedersi. Che cosa era fallito? L’Unione Sovietica aveva perso la Guerra Fredda sostanzialmente dal punto di vista economico? Dunque, era il modello di pianificazione, se non più precisamente il rapporto fra apparato politico-statale e società, che non aveva funzionato mentre il neo-liberismo investiva le maggiori democrazie anglosassoni,guidate da Reagan e da Thatcher, con uno tsunami liberatorio di potenzialità, risorse, energie?
In una società, inesorabilmente diventata “plurale”, –non scrivo “pluralista” poiché questo aggettivo chiama in causa non solo il numero dei soggetti, ma la realtà della competizione fra loro–, era già diventato evidente che il partito unico non era in grado di suscitare trasformazioni, di accogliere i trasformatori, di dare loro anche fette di potere politico. Quindici anni prima Norberto Bobbio (Quale socialismo. Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976) aveva sfidato i comunisti, ma non solo loro, chiedendo se esistesse una “dottrina marxistica dello Stato”, ricevendone verbose e inconcludenti risposte. La domanda mantiene tutta la sua attualità. Tuttavia, la risposta non è affatto scontatamente negativa. In qualche modo i cinesi stanno facendo i conti relativamente ai rapporti fra il Partito e lo Stato e il modo come li risolveranno avrà comprensibilmente un impatto enorme.
Nonostante si sapesse molto su che cosa era il Partito comunista italiano e sulle motivazioni ideologiche, programmatiche, di carriera politica che motivavano milioni di aderenti e migliaia di dirigenti, nella svolta l’unica “motivazione” presa seriamente in considerazione fu quella del nome della cosa (rossa). Petruccioli tenta, invano, per quel che mi riguarda, di convincerci che il problema era governare. Davvero? con il prevedibile 20 per cento circa dei voti? Mi pare, invece, che il problema fosse molto diverso. Se, dopo il crollo del muro di Berlino, comunisti proprio non si poteva più rimanere e socialdemocratici non si voleva diventare, e, probabilmente, neanche si sarebbe riusciti, quale opzione praticabile rimaneva? Democratici di Sinistra, quasi a significare due “cose” egualmente non sostenibili. Da un lato, che c’era una Sinistra evidentemente non democratica (honni soit qui pense à Craxi) e, dall’altro, che fino ad allora il PCI era stato di Sinistra, ma non Democratico. Con il senno di poi è facile notare che, nel corso della trasformazione, molti se ne andarono a sinistra e, più tardi, un numero forse persino maggiore decise che gli bastava l’aggettivo democratico –la cui specificità contenutistica continua a eludermi, non a illudermi.
A lungo ho insegnato ai miei studenti dei corsi di Scienza politica che “un partito è un’organizzazione di uomini e donne che presentano candidati alle elezioni,ottengono voti, conquistano cariche”. Regolarmente un certo, ma piccolo, numero di studenti dichiarava di essere insoddisfatto della mia definizione e mi chiedeva di integrarla facendo riferimento ad una ideologia. La mia replica è sempre stata che l’ideologia è certamente utile, ma non è una componente essenziale della definizione minima di partito. Epperò, nel caso del PCI non era proprio possibile transitare senza nessuna mediazione da un partito fortemente ideologico ad un partito post-ideologico. Incidentalmente, non vedo quasi nulla di tutto queste nelle note di Petruccioli che, quindi, ritiene che il PCI già fosse oppure avrebbe dovuto e potuto facilmente diventare un partito “programmatico”. Lo dirò meglio. Abbandonare, perché non di andare oltre si trattava, l’ideologia comunista (marxista, gramsciana) era, in qualche misura, indispensabile, ma rimanere privi di qualsiasi riferimento culturale era la peggiore delle soluzioni possibili. Una riflessione sui due cardini del pensiero e dell’azione delle socialdemocrazie realizzate avrebbe dovuto essere posta all’ordine del giorno, magari chiamando a riflettervi coloro che a quei due cardini, stato del benessere e keynesismo, e alla loro feconda combinazione, avevano già dedicato attenzione e riflessione scientifica.
Naturalmente, la mia non è in nessun modo una rivendicazione postuma di un contributo che non mi fu mai chiesto. Avevo, fra l’altro, anche scritto della assoluta necessità per un partito di sinistra, anche questa era una lezione socialdemocratica, di tenere rapporti intensi e frequenti, anche dialettici, con i sindacati e non solo con gli intellettuali per intenderci, del tipo Anthony Giddens, il quale andando Oltre la destra e la sinistra, (Il Mulino 1997), si è trovato alla Camera dei Lords! Rimando alla molto interessante analisi storico-comparata di Svezia Germania Stati Uniti svolta da Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism, Cambridge, Mass-London, Harvard University Press, 2018, anche se non ne condivido alcune rigidità interpretative. Non fu, non dico fatto, ma neppure intrattenuto, nulla di tutto quello che riguardava la cultura politica. Nessuna discussione “culturale” su che cosa poteva cercare di essere un Partito che non poteva/non doveva rimanere comunista. Curiosamente, nell’Europa centro-orientale quasi tutti i partiti comunisti hanno traslocato armi e bagagli sotto l’etichetta socialista, godendo, almeno temporaneamente, di qualche relativo successo. Niente da imitare, ovviamente, tranne, forse, che un partito comunista ha/aveva il dovere di riflettere più a fondo sul suo tasso di socialismo oppure nel PCI proprio non ce n’era?
Comunque, dal 1991 quel che si era faticosamente (non certo per sola responsabilità di D’Alema: Petruccioli davvero esagera finendo anche per omaggiare D’Alema attribuendogli un potere politico enorme), ricomposto nel solco della vecchia organizzazione si è trovato in mare aperto senza bussola. La mia tesi, argomentata nel fascicolo La scomparsa delle culture politiche in Italia (“Paradoxa”, Ottobre/Dicembre 2015, pp. 13-26) è che, per l’appunto, è andato perduto qualsiasi appiglio, qualsiasi riferimento, qualsiasi elemento di cultura politica che abbia attinenza al disegno di un futuro che un partito progressista si impegna a costruire contenendo e riducendo le diseguaglianze sia sociali sia di opportunità. Al proposito, è imperativo (ri)leggere Bobbio, Destra e sinistra (Donzelli 1994).Di questo non parlarono allora coloro che stavano tentando di traghettare un nuovo partito lasciando la sponda del comunismo, ma che non possedevano la bussola del percorso e sembrarono assolutamente non interessati a cercarla. Né fu fatto in seguito.
Tutto questo ha avuto conseguenze pesantissime, userò un aggettivo caro a Pietro Ingrao, il quale, sia chiaro, fu parte del problema, “epocale”. Quelle conseguenze sono ancora qui con noi e da sole non promettono affatto di andarsene. Quelle conseguenze hanno un nome: Partito Democratico. Era inevitabile che, mai intessuto di significati e di contenuti, il termine Sinistra appassisse e fosse destinato a sparire anche grazie al davvero notevole, ma non proprio encomiabile, sforzo di alcuni intellettuali per negare l’utilità stessa della categoria sinistra: What is left? Sono gli stessi che, poi, con rara coerenza hanno sostenuto pancia a terra l’opera, sono molto riluttante a scrivere “riformatrice”, del due volte ex-segretario del Partito Democratico. Quanto al PD, la sua nascita non fu affatto preceduta da una approfondita elaborazione culturale, da uno scontro/incontro/confronto di idee e di prospettive. Al massimo, si arrivò a “narrazioni”, oggi meritatamente dimenticate, e a un catalogo di parole: Partito Democratico. Le parole chiave ( a cura di M. Meacci, Editori Riuniti 2007). Forse già dice qualcosa che la parola Riformismo abbia due trattazione: la prima, mia, la seconda opera di Iginio Ariemma. Non esiste praticamente nessuno disposto a negare che il Partito Democratico sia stato una spregiudicata operazione di addizione di ceti politici già democristiani e già comunisti. Quanto alla raccolta, fusione proprio no, ma neppure ibridazione, delle migliori culture progressiste e riformatrici del paese, fu solo propaganda smentita da due fatti. Avvenne i) quando quelle culture praticamente non esistevano più da una quindicina d’anni; ii) senza che la cultura socialista, sicuramente progressista e provatamente riformatrice, fosse neppure chiamata a dare un qualsiasi contributo.
Rimanendo nella narrazione politico-istituzionale che troppi hanno voluto dare della nascita del PD, non sono riuscito a capire quando sia davvero esistita “la condizione ideale perché i due soggetti [immagino uno conservatore, grande apertura di credito a Forza Italia, e l’altro lo stesso PD, a meno che Petruccioli si riferisca al Popolo delle Libertà e all’Ulivo e allora dovremmo fare un discorso alquanto diverso] incardinassero un bipolarismo politico di tipo europeo, con una alternanza di tipo europeo”. A scanso di equivoci, sottolineo che queste fantomatiche alternanze di tipo europeo, tranne che in Gran Bretagna, di recente con qualche eccezione, non contemplano che molto raramente la sostituzione di un governo con un altro governo del tutto diverso (G. Pasquino e M. Valbruzzi (a cura di), Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo ,Bologna, Bononia University Press 2011). Nella maggior parte dei casi si tratta di semialternanze assolutamente in linea con la storia delle coalizioni multipartitiche che caratterizzano tutte le democrazie parlamentari.
Inoltre, anche se, per fortuna, l’idea e la sostanza del partito della nazione sono già tramontate, neppure l’escamotage di Petruccioli tiene: due partiti della nazione in competizione fra di loro al massimo rappresenterebbero un po’ più e un po’ meno della metà della nazione. Fra l’altro, chi siamo noi per decidere che i partiti della nazione debbano essere soltanto due? Infine, sono in totale disaccordo sul contenuto del “programma riformista per un governo della sinistra”: “i cittadini devono poter scegliere il governo. Il governo deve governare. Il Parlamento deve fare le grandi leggi e controllare l’attività del governo”. Sarà anche chiaro, ma è, da un lato, sbagliato: da nessuna parte al mondo i cittadini scelgono il governo. Da nessuna parte al mondo il Parlamento fa le “grandi leggi”. Le fa il governo che dagli elettori ha ricevuto un mandato per tradurre le sue proposte in politiche. Dall’altro, il programma riformista è tanto vago quanto banale: “il governo deve governare”.
Non ricordo che nulla di tutto questo fosse all’ordine del giorno della trasformazione del PCI. So che chi perde di vista la rappresentanza e pretende di limitarla per ottenere governabilità sbaglia alla grande e sacrifica entrambe a suo totale discapito. Petruccioli proietta un passato da lui interpretato in un futuro che, in parte, è già stato sconfitto e superato. Ho scritto molto in materia. Approfondirò soltanto su richiesta esplicita del Direttore di “Mondoperaio”, ma, che sia chiaro, non ripartiremo da zero.
Mi è persin troppo facile concludere, ma è perché la conclusione me la sono costruita molto abilmente, che il compito del Partito Democratico, che al governo non è e il cui programma riformista è sparito, deve essere espresso in questi semplicissimi e esigentissimi termini primum philosophari deinde governare. Nelle condizioni attuali, filosofare richiede prioritariamente smontare in maniera ragionata quello che c’è, un enorme macigno per qualsiasi nuova partenza, e lasciare la porta aperta a tutti coloro che hanno qualcosa da offrire in termini di idee e energie. La storia della trasformazione del PCI, letta non soltanto con gli occhi di Petruccioli, ha molto da dire. Non è ancora troppo tardi.
SCENARIO PD/ Zingaretti tra la tentazione Renzi e il modello Prodi #intervista #ilsussidiario.net
Intervista raccolta da Federico Ferraù
Nel Pd è cominciata l’era Zingaretti. Il neosegretario ieri ha incontrato Chiamparino e ora si prepara a sfidare i 5 Stelle
Nel Pd è cominciata l’era Zingaretti. Il governatore del Lazio, forte del 66 per cento dei consensi incassati alle primarie, sta già facendo il segretario del partito: ieri ha incontrato Chiamparino, ha detto niente giochi con M5s e, sondaggi alla mano, si prepara a sfidare i 5 Stelle. “Ma il Pd da solo fa poca strada – dice il politologo Gianfranco Pasquino -, ha bisogno di raggiungere quel tessuto sociale che Prodi riuscì a raggiungere con l’Ulivo”. Più che proporsi di far cadere il governo, secondo Pasquino il neosegretario deve lavorare in vista delle regionali e delle europee.
Con Zingaretti avremo un Pd più spostato a sinistra?
Più a sinistra delle gestione renziana, ma a sinistra-sinistra no. Lì c’è uno spazio occupato in parte da Sinistra italiana, in parte da Liberi e Uguali, in parte da Potere al popolo; sono raggruppamenti destinati a durare, a meno che il Pd non faccia una politica come la loro. Ne dubito.
Ma il dna di Zingaretti qual è?
E’ un politico di centro-sinistra che ha dimostrato capacità di governo come governatore del Lazio e una buona capacità attrattiva.
La prima mossa è stata quella di incontrare il governatore del Piemonte Chiamparino, in prima linea nel volere la Tav. Una scelta giusta?
Sì, perché Chiamparino si è molto esposto e ha bisogno del sostegno del suo partito, se vuole vincere le regionali di fine maggio. Inoltre sulla Tav i 5 Stelle stanno dimostrando profonde contraddizioni che immagino si trovino anche nel loro elettorato, un elettorato che il Pd deve darsi come obiettivo di riconquistare.
Secondo alcuni, i voti del Pd che sono andati a M5s non torneranno indietro. Secondo altri invece sono recuperabili perché espressione, alla vigilia del 4 marzo, di un voto più “utile” a fermare il centrodestra. Lei che ne pensa?
Quello che sappiamo è che l’elettorato italiano oggi è molto mobile. Un terzo degli elettori ha cambiato il proprio voto tra il 2013 il 2018 e non c’è ragione di pensare che non possa farlo di nuovo. Più che elettori Pd, li definirei elettori dell’ambiente Pd molto insoddisfatti della politica di Renzi. Il 4 marzo sono andati là dove potevano esprimere in modo più forte la loro protesta. Quindi sono riconquistabili, a patto di fare proposte che siano chiare e mobilitanti.
Tav vuol dire grandi opere, soprattutto vuol dire Nord produttivo. Un’Italia che ha detto no al Pd e confinato Renzi nella ridotta del Centro. Zingaretti ha le carte per parlare a questa parte del paese?
Piano: il Nord non è del tutto ostile al Partito democratico. A Torino fino al 2016 il sindaco era Fassino, il governatore del Piemonte è Chiamparino, il sindaco di Milano è Sala. Il Pd ha forti potenzialità, soprattutto se sceglie le persone giuste.
Ad esempio?
Non sono così addentro, però so le persone che non dovrebbero essere scelte: uomini e donne di spettacolo e tv, giornalisti, scrittori. Tutti costoro sanno poco di politica, si troverebbero malissimo nelle assemblee elettive e non darebbero nessun contributo. Ci vogliono in lista donne che facciano politica e soprattutto giovani, scelti nei luoghi di aggregazione giovanile. Un partito ha bisogno di rinnovarsi.
Ma cosa dovrebbe fare Zingaretti?
Riconquistare le periferie delle grandi città, parlando a coloro che sentono il peso delle disuguaglianze. Una parte della classe operaia, che era rappresentata dai sindacati, si è dispersa nel momento elettorale. Zingaretti deve intercettare tutti questi elettori.
Prodi lo ha sostenuto. Che parte avrà ora nel Pd?
Un uomo che va verso gli ottanta non so che tipo di ruolo possa avere. Quello del padre nobile? Bene, lo eserciti, attivamente, senza venire fuori di tanto in tanto con delle dichiarazioni sporadiche. Detto questo, Prodi ha ancora un suo seguito e quello che dice conta. Se dice le cose che dice Zingaretti, il segretario del Pd avrà molto da guadagnare.
Padre nobile cosa significa? Riproporre l’Ulivo? O cos’altro?
Il disegno originario del Pd era di diventare qualcosa come l’Ulivo, e anche più strutturato di quello. Quest’operazione non è mai stata fatta e se Prodi volesse sostenerla sarebbe una buona idea. Il Partito democratico da solo fa poca strada, ha bisogno di raggiungere quel tessuto sociale che Prodi riuscì a raggiungere con l’Ulivo e che poi andò perduto, perché l’Unione era un’altra cosa.
Il renzismo si può considerare concluso?
Sì. L’idea che ci fosse un uomo arrembante, che decideva tutto, anche il sistema istituzionale che dovevamo avere, e che aveva creato una corrente molto confusa ma tutta fatta di persone che volevano qualcosa in cambio, è finita in quella bella domenica del 4 dicembre 2016. Renzi ha però reclutato l’80 per cento dei senatori e il 60 per cento dei deputati. Ci sono molti renziani che rimarranno in posti rilevanti per i prossimi quattro anni.
Appunto. Cosa farà l’ex premier?
Dipende da lui. Può limitarsi ad essere l’uomo che ha aperto la strada al governo gialloverde, oppure potrebbe giocare un ruolo diverso, non elettorale ma politico serio, non presentando libri ma argomentando la necessità di un partito di centrosinistra.
A che cosa deve puntare Zingaretti? A far cadere il governo?
No. Se il governo ha delle contraddizioni, e le ha eccome, prima o poi scoppieranno. Zingaretti deve fare la pratica dell’obiettivo, come avrebbero detto i sessantottini, cioè dedicarsi alle prossime elezioni. Deve vincere le regionali in Piemonte e dimostrare alle europee che il Pd non ha il 18 ma il 25 per cento. E soprattutto che il Pd sa gestire l’economia.
Come?
Dando un ruolo significativo a Pier Carlo Padoan, che è uomo competente e molto apprezzato a livello internazionale.
Pubblicato i 5 marzo 2019
Karl Marx duecento anni dopo #KarlMarx #Marx200 #Marx2018 VIDEO @FondCorriere
Il marxismo è (stato) una ideologia nel senso migliore della parola: una visione del mondo, una prospettiva sul futuro. Ha creato una cultura politica anche nel dibattito/scontro “rivoluzione vs riforme”. Grandi partiti di sinistra si sono formati nella riflessione e nel superamento di quella antinomia, anche senza, inconveniente grave, elaborare una teoria dello Stato. Scomparso il marxismo su quali basi si ricostruisce una cultura politica? È lecito sostenere che il declino dei partiti di sinistra si accompagna, ma forse è anche la conseguenza, della scomparsa della loro cultura politica, e viceversa?
Sala Buzzati
via Balzan 3, Milano
Giovedì 3 maggio 2018In occasione della presentazione di
Karl Marx vivo o morto?
Il profeta del comunismo duecento anni dopo,
a cura di Antonio Carioti, Solferino – I libri del Corriere della Sera
Non c’è traccia di populismo in nessuna variante del marxismo. Non il popolo, non la nazione, ma la classe e il proletariato internazionale occupano il centro del pensiero dei marxisti. Laddove i populisti vogliono dividere il popolo buono e puro, che li sostiene, dai traditori del popolo, ovvero chiunque rappresenta altre preferenze e si oppone a loro, il marxismo vuole offrire ai proletari l’opportunità di liberarsi delle sue catene guardando oltre e fuori i confini delle nazioni. Il populismo non libera nessuno.
La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia* #KarlMarx #Marx200 #Marx2018
*La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia, in A. Carioti (a cura di), Karl Marx. Vivo o morto? Il profeta del comunismo duecento anni dopo, Milano, Solferino, pp. 175-185
Presentazione 3 maggo 2018 ore 18 Fondazione Corriere, Sala Buzzati via Balzan 3 Milano
Il pensiero e gli scritti di Karl Marx, la sua analisi del capitalismo, dello sfruttamento e dell’alienazione dei lavoratori, la prospettiva del superamento dello stadio nel quale la borghesia era/è stata la classe dominante fino alla situazione nella quale non sarebbe più esistito il governo degli uomini sugli uomini in quanto sostituito dall’amministrazione delle cose hanno costituito il patrimonio iniziale di tutti, o quasi, i partiti che si definivano socialdemocratici. Tuttavia, fin dall’inizio delle esperienze socialdemocratiche, già ai tempi di Marx e Engels, si sono prodotti contrasti di non poco conto sulle modalità con le quali fare transitare la teoria di Marx all’azione nella concretezza della lotta politica per conseguire obiettivi che non tutti i socialdemocratici condividevano a cominciare dall’alternativa, a lungo protrattasi, fra riforme e rivoluzione. Se le riforme “di struttura” portassero ad esiti rivoluzionari oppure addirittura rafforzassero il capitalismo in sostanza rimandando e impedendo l’emergere della società socialista è un dilemma che ha attraversato i socialdemocratici in tutti i luoghi fino a tempi relativamente recenti. La rottura più profonda e duratura nel mondo delle socialdemocrazie avvenne quando nel Secondo Congresso della Terza Internazionale Lenin impose ai partiti socialdemocratici e socialisti di accettare 21 condizioni che li avrebbero trasformati in comunisti. Da allora il marxismo fu per molti decenni l’ideologia al tempo stesso sia del maggior numero dei partiti socialdemocratici sia di tutti i partiti comunisti dell’Occidente. Le loro strade si divaricavano, ma per lungo tempo il riferimento a Marx non venne meno né, faccio due soli esempi, per i socialisti italiani guidati da Turati né per i cosiddetti austromarxisti. Nella pure tragica contrapposizione durante la Repubblica di Weimar (1919-1933) fra i socialdemocratici e i comunisti, il marxismo come ideologia e teoria non fu messo in discussione dai primi pure tacciati dai comunisti staliniani di essere diventati socialfascisti.
Ieri. L’abbandono del marxismo da parte dei socialdemocratici tedeschi fu effettuato più di un decennio dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale nel Congresso di Bad Godesberg nel 1959. Quella decisione ebbe un impatto enorme. Aprì la strada ad una molteplicità di richieste, talvolta intimazioni, indirizzate soprattutto ai comunisti, in particolare quelli italiani, di “andare a Bad Godesberg” (ridente cittadina termale) e procedere ad un lavacro di tipo revisionista. Sette anni dopo i socialdemocratici tedeschi arrivarono al governo della allora Germania Ovest, la Repubblica Federale Tedesca, in una Grande Coalizione, per rimanervi poi con i Liberali fino al 1982. Per l’importanza della Germania e della SPD stessa e per le conseguenze politiche irreversibili che Bad Godesberg ebbe, l’avvenimento ha segnato uno spartiacque nella storia delle socialdemocrazie. Tuttavia, i percorsi dei vari partiti socialdemocratici e socialisti europei, dopo Marx, dopo la rivoluzione bolscevica, dopo il fascismo e il nazismo erano già stati molto differenziati. Oserei applicare a tutti quei partiti una famosa frase di Marx sostituendo la parola uomini appunto con partiti, come segue: “i partiti fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni”. Anche se già nel 1951 fu fondata l’Internazionale Socialista, che oggi conta circa 150 partiti aderenti, soltanto i pure molto importanti principi generali sono condivisi. Non solo le tattiche politiche contingenti, ma le strategie di lungo periodo dei diversi partiti sono fortemente condizionate dallo stato dei paesi e delle società in cui operano, dalle loro tradizioni e dal contesto partitico stesso.
Per cominciare con il caso in qualche modo ai margini delle socialdemocrazie continentali, più che alla lunga operosa presenza di Marx a Londra, città nella quale morì (nel 1883) ed è sepolto, la storia del laburismo inglese è debitrice di fatti e tradizioni specifiche della Gran Bretagna, della forza del pur variegato e frammentato movimento sindacale, dell’eredità del pensiero illuminista scozzese e liberale, degli intellettuali della Fabian Society e della dinamica complessiva del sistema politico a cominciare dall’estensione graduale, ma significativa, del diritto di voto. Tutto questo plasmò un partito laburista nel quale i marxisti furono sempre una piccola e non influente minoranza, e nel quale la cifra dell’azione politica fu regolarmente il riformismo senza nessuna ambizione rivoluzionaria. Sicuramente i Laburisti britannici debbono essere considerati parte integrante delle socialdemocrazie europee, ma le loro specificità hanno continuato a contare nel corso del tempo e nelle numerose esperienze di governo. Sono state trasferite ovvero recepite e nutrite anche in alcuni paesi della diaspora anglosassone come Australia e Nuova Zelanda dove i partiti laburisti hanno spesso governato dando rappresentanza e potere alle classi popolari.
Sul continente è possibile rilevare tre, forse quattro varianti di socialismi. Le prime due varianti sono relativamente facili da individuare e definire. Sono, rispettivamente, quelle dei partiti – laburisti, socialisti, dei lavoratori – dei paesi nordici e quelle dell’Europa meridionale, più precisamente, della Francia e dell’Italia. Nei paesi nordici i socialisti non hanno dovuto, con l’eccezione parziale della Finlandia, affrontare la sfida di un forte partito comunista alla loro sinistra. Hanno a lungo goduto dell’appoggio ovvero di una relazione stretta e fondamentalmente collaborativa con un forte sindacato unitario. Giunsero al governo del loro paese, in special modo, il Partito Socialista dei Lavoratori svedese, già all’inizio degli anni trenta. Hanno plasmato in maniera indelebile, “nelle circostanze che trova(ro)no immediatamente davanti a sé”, la vita politica, sociale e economica come non è stato possibile in nessun altro sistema politico. Lo hanno fatto procedendo alla virtuosa combinazione fra una politica economica all’insegna del keynesismo e una politica sociale improntata al welfare. Hanno formulato e spesso attuato accordi e addirittura assetti definiti neo-corporativismo basati sulla solida relazione tripartitica fra un governo di sinistra (sorretto dal partito socialdemocratico), il sindacato unitario e le organizzazioni imprenditoriali, sorretta dalla fiducia reciproca che gli impegni presi saranno mantenuti e attuati. Non può suscitare nessuna sorpresa che, come direbbero gli inglesi, at the end of the day, tutte le classifiche internazionali, a cominciare da quella autorevole dell’Indice dello Sviluppo Umano (reddito, livello di istruzione, stato di salute) vedano regolarmente ai primi posti Norvegia e Svezia, Danimarca e Finlandia.
Le esperienze socialdemocratiche di governo nei paesi nordici sono spesso state giudicate in maniera molto severa, comunque considerate non meritevoli di imitazione nei due maggiori paesi latini, vale a dire Francia e Italia. Sia i politici socialisti e, con maggiore acrimonia, comunisti sia i loro intellettuali di riferimento hanno rimproverato a quei socialdemocratici di non avere saputo cambiare, sconfiggere, superare il capitalismo quanto, piuttosto, di averlo “salvato”, rendendolo persino più efficiente e più forte. In seguito, quei politici e quegli intellettuali hanno sostenuto che le esperienze socialdemocratiche si erano logorate ed erano entrate in crisi. Dunque, non valeva la pena né studiarle né, tantomeno, imitarle. Certamente non entrarono in crisi le esperienze socialdemocratiche in Francia e in Italia poiché in Francia non ebbero mai modo di prodursi tranne che, in parte, con la prima presidenza di François Mitterrand (1981-1988), in Italia sostanzialmente mai anche se, forzando un po’ la valutazione e gli esiti, il primo centro-sinistra italiano (1962-1964) costituì una fase di significativo riformismo. La debolezza dei partiti socialisti francese e, soprattutto, italiano a fronte della solidità dei corrispondenti partiti comunisti e della loro rappresentatività della classe operaia costituì l’ostacolo maggiore, ancorché non l’unico (vi si deve aggiungere quantomeno la divisione della rappresentanza sindacale), alla conquista del governo in un paese occidentale nel periodo della Guerra Fredda. La divisione a sinistra e il conflitto socialisti/comunisti hanno finito per rendere impossibile qualsiasi costruzione di un attore partitico unitario in grado di proporre politiche riformiste di stampo socialdemocratico. In nessuno dei due paesi, praticamente scomparsi i partiti che potrebbero richiamarsi alla socialdemocrazia, è ragionevolmente possibile ipotizzare una qualche ripresa di politiche riformiste, rese per di più ancora più difficile dalla dinamica complessiva della globalizzazione e dallo spirito del tempo.
Nei paesi più propriamente mediterranei come Grecia, Portogallo, Spagna, dopo il crollo dei rispettivi autoritarismi, il compito dei partiti socialisti è consistito soprattutto nel creare e mantenere le condizioni di un regime democratico dando rappresentanza ai ceti popolari e guidando lo sviluppo dell’economia ed è stato coronato da sostanziale successo. La democrazia si è consolidata. Non era da quei partiti e da quei paesi che ci si potessero aspettare innovazioni di rilievo nelle politiche socialiste. L’abbandono del marxismo come ideologia e come guida alla prassi fu logica conseguenza dei tempi e, tranne che brevemente per il Partito Socialista Operaio Spagnolo, non implicò nessuna difficoltà né, tantomeno, traumi. Più complessa la situazione prodottasi nei sistemi politici dell’Europa centro-orientale dopo il 1989. Ridotto il marxismo a mero rituale, a ideologia imbalsamata, a catechismo per gli aspiranti a far parte della nomenclatura, il fallimento dei regimi comunisti ha svelato il vuoto di cultura politica. Non poteva che essere bassa o nulla la credibilità dei partiti comunisti che trasformavano il loro nome in socialisti e i cui ceti politici traslocavano armi e bagagli nella neppur troppo nuova botte socialista che avevano in passato largamente screditato. La reazione profonda e di entità inattesa contro il comunismo “realizzato” ha chiuso ogni spazio a eventuali apparizioni di compagini socialiste che, infatti, tuttora, quasi vent’anni dopo la transizione, non esistono, con conseguenze gravi sullo spirito civico e sulla qualità della democrazia di ciascun paese. Non erano, forse, solo i partiti comunisti dominanti l’impedimento alla formulazione e attuazione di politiche riformiste neppure quelle vagamente di stampo socialdemocratico.
La caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 cambiò ancora una volta “le circostanze” nelle quali si trovavano ad operare i partiti (e i governi) socialdemocratici. In verità, nell’Europa occidentale quelle circostanze erano già cambiate molto significativamente grazie alla prosperità economica diffusasi nel dopoguerra e soprattutto a mutamenti culturali più irreversibili di qualsiasi benessere economico. Quei vantaggi economici, di lavoro e di guadagno, che l’azione organizzata in partiti e in sindacati aveva consentito di conseguire a milioni di cittadini e che i partiti e i governi socialdemocratici avevano cercato di distribuire in maniera equa, semmai più favorevole ai ceti popolari, potevano oramai, almeno così sembrò ai figli e alle figlie di quei lavoratori, essere conseguiti individualmente, di persona attraverso il perseguimento dell’autorealizzazione (Inglehart 1977). I valori post-materialisti e i loro (giovani) portatori fecero irruzione sulla scena politica scompaginando in particolare la sinistra, le variegate organizzazioni socialdemocratiche nelle quali convivevano padri “materialisti” e figli e figlie che, proprio grazie ai loro genitori, potevano permettersi di avere e applicare valori post-materialisti. Naturalmente, alcuni paesi erano più avanzati sulla scala del post-materialismo e in questi paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma anche i paesi nordici, l’onda del post-materialismo colpì in misura considerevole le socialdemocrazie esistenti e governanti.
Oggi. Curiosamente, nello stesso anno, 1994, in cui Bobbio insisteva sulle ragioni della persistenza di ben distinte posizioni di destra e di sinistra, il sociologo inglese Anthony Giddens argomentava e spiegava perché fosse indispensabile andare Oltre la destra e la sinistra. I tumultuosi anni di governo dei conservatori, Thatcher (1979-1990) e Major (1990-1997), favoriti dalla scissione dei socialdemocratici nel 1981, avevano imposto ai laburisti un agonizing reappraisal (dolorosissima rivalutazione) della loro strategia, della loro stessa visione della Gran Bretagna. Più di altri Giddens contribuì alla formulazione della Terza Via (il sottotitolo inglese del libro omonimo pubblicato nel 1998 è The Renewal of Social Democracy) che divenne la formula con la quale il New Labour di Tony Blair approdò al governo nel 1997. Tra il liberismo estremo dei conservatori e il laburismo obsoleto, Blair e Brown si aprirono una Terza Via che doveva riformare il partito, le modalità di governo, le politiche, la stessa società britannica. È una Via nella quale neppure credono più la maggioranza dei dirigenti laburisti e i loro elettori che premiano il più tradizionale, classico, forse effettivamente socialdemocratico Jeremy Corbyn.
Non credo si possa collocare nella Terza Via l’Ulivo fortunosamente vittorioso alle urne nell’aprile 1996 anche se, indubbiamente, fra le motivazioni di alcuni protagonisti si trovava quella del superamento della socialdemocrazia classica (peraltro, mai concretamente comparsa nel contesto italiano). Con qualche forzatura fu inserita nella Terza Via l’esperienza del governo presidenziale del democratico Bill Clinton (1992-2000). Molto più appropriato è il riconoscimento che quanto volle fare il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder (1998-2005), ovvero plasmare e ridefinire un nuovo centro (Die Neue Mitte), rappresentò effettivamente la Terza Via secondo modalità tedesche. Tuttavia, da allora è cominciato un significativo e persistente declino elettorale della SPD che, peraltro, è rimasta politicamente la migliore alleata di governo della Democrazia Cristiana tedesca (2005-2009; 2013-2017; ????-????). Infine, l’esperimento iniziato in Italia nel 2007 con la formazione del Partito Democratico è, comunque lo si valuti, la fuoriuscita da qualsiasi possibilità di recupero, di rilancio, di rielaborazione di un esperimento socialdemocratico. Nella vicina Francia, la clamorosa vittoria presidenziale (2017) di Emmanuel Macron ha con tutta probabilità posto fine a quel poco che era rimasto di socialdemocrazia francese trascendendo Parti Socialiste e Rèpublicains gollisti con lo slogan sia destra sia sinistra e relegandoli in un passato che non potrà tornare. Solo nei sistemi politici scandinavi le socialdemocrazie hanno lasciato tracce tanto profonde quanto positive, ma i duri dati elettorali dicono che, sì, potranno, nella logica delle democrazie dell’alternanza, tornare al governo, ma all’orizzonte non si vede nessun rilancio di un’età d’oro socialdemocratica.
Bilancio per il domani. Abbiamo appreso dai bolscevichi la dura lezione della storia che il socialismo in un solo paese non può essere costruito. Non è possibile dimenticare che uno dei cardini del pensiero di Marx era l’internazionalismo sotto forma di solidarietà del proletariato di tutti i paesi: “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Invece, ciascuno e tutti i partiti socialdemocratici hanno a partire dagli anni Trenta, ma ancor più nel secondo dopoguerra intrapreso e percorso, con maggiore o minore successo, le loro vie nazionali. Dappertutto c’è da qualche tempo ormai la consapevolezza che nessuna di quelle vie nazionali porta ai traguardi/esiti di mantenimento della prosperità e di riduzione delle diseguaglianze che le socialdemocrazie continuano a ritenere degni di essere perseguiti. Anzi, almeno per quel che riguarda la prosperità la sfida della globalizzazione può essere meglio affrontata in chiave sovranazionale nel quadro offerto dall’Unione Europea. Che le sfide della globalizzazione, del governo dell’economia, delle migrazioni possano essere vinte dai governi nazionali che operino senza accordi reciproci e senza cooperazione è l’illusione dei sovranisti. Che possa riaprirsi quella che, brillantemente analizzando le esperienze scandinave, Esping Andersen (1985) definì La via socialdemocratica al potere caratterizzata dalla capacità della politica di contrapporsi vittoriosamente ai mercati appare piuttosto improbabile.
I primi due punti di quello che circa centocinquant’anni fa era il Programma socialdemocratico minimo: 1. Rimuovere gli ostacoli allo sviluppo del capitalismo; 2. Ampliare le libertà borghesi, democrazia e diritti civili, soprattutto il suffragio, sono stati conseguiti. Il punto 3. Accrescere il ruolo del proletariato industriale di fabbrica deve essere ridefinito con riferimento al ruolo dei lavoratori in un mercato del lavoro caratterizzato da enormi variazioni e squilibri. Il punto 4. Lottare contro i bastioni internazionali della reazione (la Russia zarista) mantiene la sua validità, ma i bastioni della reazione non si trovano all’interno di un solo Stato. Anche se l’Unione Europea non è in alcun modo definibile come socialdemocratica, la lotta contro la reazione non può che partire dalle sue istituzioni che delimitano il più grande spazio di libertà e diritti mai conosciuto. Quest’ultima affermazione mi consente di ricordare le parole di Bobbio che qualche decennio fa (per la precisione nel 1976) concludeva la sua splendidamente sintetica voce Marxismo del Dizionario di politica UTET sottolineando che la socialdemocrazia “ritiene che compito del movimento operaio sia quello di conquistare lo Stato (borghese) dall’interno”, mentre il marxismo afferma la necessità della distruzione dello Stato borghese affinché lo Stato stesso si estingua. Le esperienze dei comunismi realizzati hanno contraddetto l’imperativo marxista riguardante l’estinzione dello Stato potenziandolo e rendendolo totalitario. Le socialdemocrazie hanno di tanto in tanto conquistato non lo Stato, ma il governo di numerosi paesi trasformando in meglio il funzionamento e il rendimento complessivo dei sistemi politici nei quali hanno avuto ruoli importanti. All'”amministrazione delle cose” profetizzata da Marx le socialdemocrazie non sono pervenute, ma, è opinione diffusa che i loro governi hanno avuto successo. Eppure, è il paradosso, sono diventati meno probabili e meno frequenti. In Europa non si aggira lo spettro della socialdemocrazia.
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Riferimenti bibliografici
Bartolini, S. (2000) The Political Mobilization of the European Left, 1860-1980: The Class Cleavage, Cambridge: Cambridge University Press
Bobbio, N. (2016) Marxismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Novara, De Agostini, pp. 556-562.
De Waele, J.-M., Escalona, F., Vieira, M. (a cura di) (2013) The Palgrave Handbook of Social Democracy in the European Union, New York, Palgrave-Macmillan.
Esping-Andersen, G. (1985) Politics against Markets. The Social Democratic Road to Power, Princeton, Princeton University Press.
Giddens, A. (1994) Oltre la destra e la sinistra, Bologna, Il Mulino.
Giddens, A. (2001) La terza via, Milano, Il Saggiatore.
Inglehart, R. (1977) The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles among Western Publics, Princeton, Princeton University Press.
Le condizioni del possibile
È più grave sbagliare i congiuntivi oppure sbagliare le riforme costituzionali? La risposta, convincente, non la lasciamo ai posteri. L’hanno data gli elettori italiani del 4 dicembre 2016 e del 4 marzo 2018. La lezione non l’hanno capita tutti coloro che continuano a dire che, se quelle riforme fossero state approvate, saremmo nel paradiso della politica maggioritaria e bipolare. Nessuno, ovvero pochissimi si interrogano sulla effettiva esistenza di un partito in grado di dare vita a quella politica conoscendone e accettandone consapevolmente rischi e opportunità. Molti, invece, spudoratamente, in spregio ad una riflessione mai adeguatamente portata avanti, hanno sostenuto che il Partito Democratico era l’interprete di quella politica e che quelle riforme di Renzi l’avrebbero resa possibile. Allora, l’analisi post-voto 2018 non può essere fatta di sole cifre anche se i due milioni e mezzo di voti persi dal Partito di Renzi rispetto a quello di Bersani sono molto eloquenti. Quindi, bisogna tornare o, meglio, tentare di analizzare che partito è diventato il PD di oggi e confrontarsi con i frequenti rimandi, superficiali, velleitari, senza fondamento alcuno, all’Ulivo. Non dirò nulla sul limpido flop elettorale della listarella “Insieme” che con l’Ulivo non aveva nulla a che spartire, meno che mai come mobilitazione della società civile, tranne l’endorsement di Prodi (il cui peso ciascuno valuterà per conto suo). Da qui ricomincia il discorso.
L’Ulivo fu, l’interpretazione non può essere affidata ai protagonisti del tempo che si lamentano della caduta, ma non sanno riflettere sulle cause di quella caduta, il tentativo di mettere insieme, non tanto le culture politiche, ma settori di classe politica e di partiti tradizionali con settori di società civile, di associazioni dei più vari tipi. L’Ulivo vinse le elezioni grazie a due fenomeni ultrapolitici: la desistenza con Rifondazione Comunista, pagata poi carissima, e la mancata alleanza fra Berlusconi e la Lega di Bossi. Sarebbe anche utile riflettere sulla leadership di Prodi, distinguendo molto accuratamente fra la sua azione di governo e la sua indisponibilità a candidarsi a capo politico della coalizione chiamata Ulivo. In seguito, poi, nell’ottica maggioritaria e bipolare, resa possibile e praticabile dalla Legge Mattarella (esito non di contrattazioni fra partiti, ma di un referendum popolare), il Partito Democratico consegnò al suo Statuto proprio l’apprezzabile e indispensabile coincidenza fra la carica di segretario e quella di candidato a Palazzo Chigi con la conseguenza che, in caso di vittoria, il segretario del Partito sarebbe diventato capo del governo senza lasciare la carica partitica. La scelta, perfettamente coerente con la logica del maggioritario e della competizione bipolare, non deve essere messa in discussione, ma si deve ricordare a chi diventa capo del governo che gli spetta politicamente di continuare a svolgere il compito di segretario del partito. Deve dedicare attenzione al funzionamento del partito poiché da quel partito ottiene sostegno e informazioni politiche sull’esito delle sue attività di governo in moda da potere quindi aggiustare la linea mettendosi costantemente in sintonia con una società che cambia.
Di cultura politica ulivista mi sembra non sia proprio il caso di parlare, ma, ovviamente, sono pronto a ricredermi quando mi saranno sottoposti i documenti relativi e fatti i nomi di coloro che hanno scritto sul tema. Il silenzio degli intellettuali, che viene periodicamente criticato, ma, paradossalmente sono altrettanto criticate le loro dichiarazioni e i loro appelli, è stato in materia di cultura politica, ulivista e post-, banalmente assordante. Non fu così per il referendum nel quale le prese di posizione a favore del “sì”, che documento nel mio piccolo libro (No positivo. Per la Costituzione. Per le buone riforme. Per migliorare la politica e la vita, Novi Ligure Edizioni Epoké, 2016), sono state assolutamente imbarazzanti per la assenza di qualità.
Avrebbe potuto l’esperienza dell’Ulivo rinascere, essere rilanciata, una volta che si fosse preso atto che né i Democratici di Sinistra né la Margherita erano in grado, divisi, di essere competitivi con la coalizione di centro-destra? La mia risposta è positiva, se quella esperienza fosse stata criticamente rivisitata e aggiornata. Invece, in maniera affrettata e frettolosa fu seguita una strada molto diversa, quella della ex post tanto criticata “fusione a freddo” fra le due nomenclature senza nessuna ricerca di apporti dalla società civile e senza nessun tentativo di (ri)elaborazione di una cultura politica riformista. In verità, nel 2007 fummo travolti da altisonanti affermazioni concernenti la capacità, se non addirittura il fatto compiuto, vale a dire lo strabiliante successo concernente l’avere messo insieme il meglio delle culture riformiste del paese: quelle, non meglio precisate, di sinistra, dei cattolici-democratici, degli ambientalisti. Da parte mia, che non condivisi mai quegli entusiasmi, sono giunto a una conclusione decisamente più realista curando un fascicolo della rivista “Paradoxa”, Ottobre/Dicembre 2015, dedicato a La scomparsa delle culture politiche in Italia . Fin da subito, mi parve strano e deplorevole che fra queste culture, più o meno, talvolta piuttosto meno, riformiste non facesse capolino la cultura riformista socialista di cui “Mondoperaio” aveva a lungo ospitato il meglio. Nelle sedi congressuali dei DS e della Margherita non ebbe luogo nessuna discussione specifica sulle modalità con le quali giungere ad una nuova elaborazione politico-culturale (e non rifugiamoci dietro la constatazione che neanche nel resto dell’Europa va meglio). Dopodiché il Partito Democratico fu travolto dalla cavalcata estiva 2007 di Walter Veltroni per la vittoriosa conquista della segreteria. Nel migliore dei casi, il PD era diventato un partito con un programma di governo (alternativo a quello del Presidente del Consiglio Prodi), ma senza la cornice di una cultura politica che traesse linfa né dalle pratiche riformiste italiane né da quanto altrove veniva elaborato in materia di diritti (Ronald Dworkin), di eguaglianze possibili (John Rawls), di collocazione politica e di riferimenti di classe (Anthony Giddens), di strutturazione partitica (qui i riferimenti sono troppo numerosi per citarli), di Europa (giusto il richiamo, troppo spesso di maniera e mai aggiornandolo, a Altiero Spinelli). Tutt’altro che casuale che sia toccato a Emma Bonino sottolineare la necessità di +Europa dato che la leadership del PD appare non sufficientemente credibile su questo terreno.
Mentre, altrove, alla liquidazione/liquefazione delle culture politiche classiche, peraltro ancora a fondamento di partiti decentemente strutturati e rappresentativi, veniva contrapposta la cultura politica del patriottismo costituzionale nella elaborazione di Jürgen Habermas, il Partito di Renzi ha cercato di travolgere le fondamenta del patto democratico-costituzionale che sta alla base della Repubblica italiana. È storia di ieri, ma anche storia di domani. Infatti, nessuna alternativa di un qualche spessore è stata elaborata e contrapposta alle proposte del Movimento Cinque Stelle relative alla democrazia diretta, alla democrazia elettronica contrapposta alle primarie, del limite ai mandati elettivi, dell’imposizione del vincolo di mandato che travolgerebbe la democrazia parlamentare, ma che politicamente non può essere criticato in maniera credibile da chi fa valere il vincolo per i suoi parlamentari e dai parlamentari che si asserviscono. È presumibile che non siano stati molti gli elettori che hanno dato il loro voto al Movimento Cinque Stelle per motivazioni intrise di “direttismo” (come scrisse Giovanni Sartori) e di antiparlamentarismo. Molti, però, devono avere considerato legittime le espulsioni derivanti dalle violazioni delle regole interne al Movimento, mentre assistevano a “espulsioni” molto più gravi dei dissenzienti dalla linea del segretario del PD alla faccia di qualsiasi prospettiva di farne il partito della sinistra plurale (incidentalmente, una prospettiva ampiamente e giustamente sostenuta già qualche decennio fa nelle pagine di “Mondoperaio”).
Un partito non vive di sola cultura politica, ma per ottenere iscritti e sostenitori, per reclutare, per “addestrare” e per promuovere un personale politico all’altezza delle sfide della rappresentanza e del governo, deve sempre sapersi organizzare sul territorio. La presenza territoriale diffusa, verticalmente contraddetta dai parlamentari, uomini e donne, paracadutati, consente di fare politica giorno per giorno predisponendo iniziative specifiche e coltivando rapporti frequenti e costanti con l’elettorato tutto. Non esiste nessuna leadership individuale, per quanto eccellente (ma sulla “eccellenza” dei molti segretari del Partito Democratico dal 2007 ad oggi potremmo confrontarci), in grado di supplire all’organizzazione sul territorio. Infine, continuiamo a vedere la frammentazione della sinistra che non è soltanto il prodotto di scontri e di ambizioni personali comprensibili e anche giustificabili, quanto, piuttosto, di riferimenti a visioni almeno in parte diverse, ma non insuperabili. che si estrinsecano in politiche inevitabilmente indirizzate a ceti diversi. La sinistra deve sapere accettare queste diversità/pluralità tentando una ricomposizione che non le cancelli, ma ne consenta una ridefinizione. Una sinistra che non sappia fare tesoro delle diversità nel suo ambito non riuscirà mai a dare rappresentanza e governo ad una società diversificata e frammentata.
La sinistra plurale si ricostruisce e ricostituisce sulle proposte che fa, su come riesce a tradurle, sulle modalità con le quali parla ai suoi ceti di riferimento, li ascolta, vi si rapporta e si sforza di rappresentarli. Non va sdegnosamente sull’Aventino (sì, è un riferimento storico), non si chiama fuori, non rifiuta il confronto e neppure, se necessario, lo scontro, ma è sempre disposta a imparare dalla complessità e a cercare il modo e le forme di governarla. Nella troppo breve esperienza dell’Ulivo la consapevolezza delle diversità e della pluralità era stata acquisita, ma non tradotta in organizzazione flessibile e sicuramente non governata. Nel decennio del Partito Democratico i proclami hanno variamente dominato la scena. Fallito questo esperimento, anche per responsabilità dei padri nobili Romano Prodi e Walter Veltroni, sepolto dall’idea del Partito della Nazione e dalla pratica del Partito di Renzi, è giunta l’ora della riflessione. Nei durissimi dati elettorali si misura l’ampiezza del fallimento. Non si tratta di salvare il salvabile, ma di costruire le condizioni del possibile: rottamare i troppo acclamati rottamatori individuare i costruttori che siano anche, se ho minimamente ragione, predicatori di cultura politica. Nelle idee e nelle proposte si misurerà la validità delle visioni di superamento.
Pubblicato su Mondoperaio marzo 2018 (pp 15-17)