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Sostiene Veltroni…

Sostiene Veltroni che il PD è quello che è e non si cambia. Però, il PD non è quello che doveva essere e, in sostanza, non è mai stato: il luogo dove si incontravano e si “contaminavano” le migliori culture riformiste dell’Italia (forse sarebbe stato meglio guardare anche fuori dai sacri confini, all’Europa). No, se il PD non cambia, profondamente, non diventerà mai il Partito Democratico che molti dei fondatori volevano, ma che non sono riusciti a costruire.

Cittadini, partiti, istituzioni e leggi elettorali

Relazione pronunciata al convegno
“La forma di governo tra riformismo elettorale e mutamento politicoistituzionale”
Giornata di studi sulle Riforme istituzionali
Torino, 17 novembre 2017
Campus Luigi Einaudi
Pubblicato in federalismi.it
RIVISTA DI DIRITTO PUBBLICO, COMPARATO, EUROPEO
ISSN 1826-3534  – Numero Speciale 1/2018

 

Cittadini, partiti, istituzioni e leggi elettorali

Questa relazione è, prima di tutto, ma non soprattutto, un esercizio di resistenza alle tentazioni. Per quanto tentato dal replicare alle moltissime ignoranze e alle gravissime scorrettezze manifestate(si) nel dibattito sulle leggi elettorali, le loro riforme e controriforme, mi limiterò, a fatica, ad alcune considerazioni. Procederò a evidenziare gli errori più grossolani alla luce della ingente letteratura politologica in materia, la quale dovrebbe, da un lato, già essere patrimonio dei politologi e, dall’altro, apparire lettura essenziale per riformatori, in special modo, per i giuristi che si avventurino su un terreno ampio, dissodato, politicamente di straordinaria importanza. Purtroppo, non è affatto così. Mi troverò spesso di fronte ad un dilemma classico: criticare gli autori degli errori più grossolani, citandoli per nome e cognome (il pessimo articolo di Passarelli merita davvero la citazione) (1) oppure stendere un fin troppo pietoso velo sul loro sonno più che trentennale (2) di letture mancate e mai recuperate? Procederò molto pragmaticamente. Adesso, back to basics, come direbbe Giuliano Amato.

La più semplice definizione di una legge/sistema elettorale è che costituisce un meccanismo per la traduzione di voti in seggi (3) . Naturalmente, nel corso del tempo abbiamo imparato che è indispensabile guardare a tutto quello che sta a monte del momento elettorale e a tutto quello che sta a valle del voto. Con qualche ritardo, tuttavia molto utilmente, alcuni politologi USA (4) sono anche giunti a teorizzare e in parte a esplorare, cosa che nel loro paese diventa di importanza decisiva a causa delle drammatiche manipolazioni del voto attraverso il gerrymandering (5) – furiosamente praticato dalle assemblee statali dominate dai Repubblicani -, la necessità di analizzare il contesto (6) . Sono pochi, in Italia, ad avere proceduto a questo tipo di analisi prima di proporre, formulare, giudicare e fare approvare le nuove leggi elettorali.

Quando, nel 1953, un relativamente riluttante De Gasperi mosse alla riforma della legge elettorale proporzionale prevedendo un premio di maggioranza (7) la proposta era quella di rendere più solida la coalizione parlamentare (e politica) centrista a fronte della sfida di una riemergente destra neo-fascista e l’auspicio era quello di costringere i comunisti ad abbandonare la loro rendita di opposizione per diventare alleato dei socialisti, essenziale, ma non in posizione dominante.

Dunque, senza sminuire l’elemento partigiano, ovvero il rafforzamento della coalizione già al governo, importanza superiore aveva l’obiettivo sistemico: andare verso una competizione bipolare anche se per qualche prevedibile periodo di tempo sbilanciata a favore dei centristi. Nelle menti e negli intenti dei promotori dei referendum elettorali (1991, 1993) la motivazione sistemica era nettamente prevalente. Per molti di loro (mi colloco fra questi) era sostanzialmente cruciale: costruire le condizioni elettorali di una democrazia, qui sono costretto allo slogan, peraltro vicinissimo alla realtà, maggioritaria, bipolare, dell’alternanza e, aggiungo, che attribuisse all’elettorato il potere decisivo di produrre l’alternanza, non di eleggere il governo (obiettivo impossibile e improponibile nelle democrazie parlamentari), ma di scegliere fra coalizioni che a quel governo si sarebbero candidate. Qui tralascio tutti gli errori storici, politici e di comparazione di coloro che ritengono che l’alternanza, ovvero la sostituzione totale di un partito o di una coalizione al governo ad opera di un partito o di una coalizione all’opposizione caratterizzi la maggioranza delle elezioni nelle democrazie non solo europee (8) , ma occidentali (9) . Non è affatto così. Né, d’altronde, è corretto sostenere che sempre e dovunque il verificarsi dell’alternanza costituisca il fenomeno caratterizzante le democrazie di migliore qualità. Anzi, gli elettori del Regno Unito nonché ovviamente gli studiosi e i commentatori si sono lamentati della “troppa” alternanza negli anni Sessanta e, in seguito, hanno assistito (e cooperato) a lunghi periodi di governi conservatori (dal 1979 al 1997, diciotto anni e quattro elezioni generali), e di governi laburisti (dal 1997 al 2010, tredici anni e tre elezioni generali). Tecnicamente, la molto ben governata Germania, in quasi settant’anni di vita della sua Repubblica, ha avuto una sola alternanza completa nel 1998: dal governo Democristiani-Liberali guidati da Helmut Kohl al governo Sociadelmocratici-Verdi guidato da Gerhard Schröder.

Adesso, possiamo dirlo con maggiore conoscenza di causa, i referendari cercavano una riforma elettorale palingenetica che conferisse agli elettori tanto il potere di scegliere il loro candidato al Parlamento (quindi, di ottenere una rappresentanza migliore) quanto quello di incidere sulla formazione del governo. Nel 1993 la traduzione parlamentare dell’esito del quesito referendario fu fedele e ottima per il Senato: tre quarti di eletti in collegi uninominali, un quarto recuperati con riparto proporzionale fra i migliori, perdenti, sì, ma senza dimenticare né sottovalutare che quei perdenti avevano fatto campagna elettorale, parlato con gli elettori, ascoltato le loro richieste e, soprattutto, ottenuto voti, spesso molti. È la traduzione del quesito referendario alla Camera che lasciò molto a desiderare e fornì molto materiale da criticare. La legge, il cui relatore fu l’allora deputato Popolare Sergio Mattarella, si prestò alla critica e allo sberleffo di Giovanni Sartori che la definì Mattarellum.

Fermarsi qui, al latinorum, considerandolo uno dei contributi intellettuali grazie al quale Sartori merita di essere ricordato e celebrato (com’è improvvidamente stato fatto al Convegno Annuale della Società Italiana di Scienza Politica tenutosi a Urbino dal 14 al 16 settembre 2017) è semplicemente scandaloso. Significa non sapere niente dei sistemi elettorali e quindi non essere in grado di capire le motivazioni dello sberleffo al Mattarellum. La legge elettorale per la Camera era, in effetti, alquanto mattocchia. Congegnata, grazie al recupero proporzionale su scheda a parte (con possibilità di voto disgiunto, risorsa nelle mani degli elettori, ma anche strumento nelle mani dei partiti) ed alla facoltà di candidarsi in un collegio uninominale e in tre schede proporzionali, con l’obiettivo non proprio nascosto di salvare quei capipartito che non avessero conquistato il seggio nei collegi uninominali, la legge dava ai capi dei partiti piccoli notevole potere di ricatto. Il messaggio era ovvio: “se non candidate alcuni dei nostri in collegi uninominali sicuri, i vostri candidati non avranno i nostri voti”. Diversa, invece, fu la tattica della desistenza stipulata nel 1996 fra l’Ulivo di Romano Prodi e Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti. In una ventina o poco più di collegi, Rifondazione si impegnò a non presentare candidature invitando i suoi elettori a votare per i candidati dell’Ulivo. A sua volta, l’Ulivo reciprocava in altrettanti collegi. La desistenza, unitamente alla mancata alleanza fra Lega e Berlusconi, consentì all’Ulivo di vincere fortunosamente le elezioni, ma, in seguito, permise a Bertinotti di porre fine all’esperienza del governo dell’Ulivo nell’ottobre 1998, cambiando in peggio la storia d’Italia. A questo “peggio”, in misura piccola, ma concreta, aveva dato il suo contributo la frammentazione dei partiti, chiedo scusa, dei partitini, agevolata e mantenuta proprio dai meccanismi della legge Mattarella.

Che si potesse fare peggio, anzi, molto peggio, lo dimostrarono nel 2005 i quattro “saggi di Lorenzago”: Roberto Calderoli (Lega), Francesco D’Onofrio (UDC), Domenica Nania (Alleanza Nazionale), Andrea Pastore (Forza Italia). Quella che Calderoli avrebbe poco tempo dopo definito una “porcata”, vale a dire il tentativo di scrivere una legge deliberatamente totalmente “partigiana” che, prima di tutto, andasse a svantaggio del centro-sinistra, poi avvantaggiasse il centro-destra e i capi dei partiti e che, per l’appunto, Sartori bollò spregiativamente con l’epiteto Porcellum, era una legge proporzionale. Aveva lunghe liste bloccate senza voto di preferenza. Consentiva candidature multiple addirittura in tutte le circoscrizioni, opportunità pienamente sfruttata da Berlusconi convinto, in parte probabilmente a ragione, che il suo essere capolista portava voti alla lista, e utilizzata in larga misura anche dagli altri capi dei partiti di centrodestra e di centro-sinistra (la cui opposizione alla legge in Parlamento non può essere considerata né durissima né memorabile). Conteneva un premio di maggioranza che mirava ad attribuire al partito/la coalizione vittoriosi alla Camera almeno 340 seggi, mentre al Senato i premi erano regione per regione, un problema per il centro-sinistra, debole nelle regioni grandi, più popolose, portatrici di un premio in seggi più consistente come la Lombardia, la Sicilia, il Veneto, talvolta anche la Campania.

Che la Corte costituzionale abbia lasciato passare tre elezioni politiche (2006, 2008, 2013) prima di dichiarare incostituzionali diversi punti della legge Calderoli attesta due punti. Il primo è sicuro, poi confermato dalla sentenza successiva sull’Italicum: la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia elettorale è, come mi ha detto un giudice costituzionale, “incerta” (sic!). Il secondo punto è che ai giuristi mancano le indispensabili competenze politologiche per valutare le conseguenze politiche delle leggi elettorali (10). Ancora oggi mi vanto di essere stato scelto più di trent’anni fa da due autorevoli Professori di Diritto Costituzionale (poi entrambi, Giuliano Amato e Augusto Barbera diventati giudici costituzionali, attualmente in carica) per scrivere il capitolo I sistemi elettorali nel loro Manuale di Diritto Pubblico (11) , aggiornato e ripubblicato per più di un decennio. Quanto all’Italicum, in pratica fu un Porcellinum. Qui ci metto del mio, sottolineando come fossero presenti tutte le componenti deprecabili del Porcellum in misura appena attenuata: le liste non erano più, dopo una lunga battaglia parlamentare, bloccate, ma i capilista sì con l’aggiunta successiva, a furor di popolo, del contentino di due preferenze purché per candidature di genere diverso. Le candidature multiple erano ancora possibili, ma “soltanto” in dieci circoscrizioni, non in tutte. Il premio di maggioranza rimaneva tale numericamente (non previsto per il Senato che Renzi e Boschi avevano reso non più elettivo salvo vederselo resuscitare sonoramente dal referendum costituzionale del 4 dicembre che bocciò tutte le loro malfatte riforme), ma poteva essere conseguito soltanto dal partito (divieto di formazione di coalizioni pre-elettorali) che avesse ottenuto il 40 per cento dei voti al primo turno (curiosamente proprio la percentuale raggiunta dal Partito Democratico nelle elezioni europee del maggio 2014) oppure dal partito (non le coalizioni poiché erano impediti gli apparentamenti, come pure è possibile nella legge per l’elezione dei sindaci) che vincesse il ballottaggio (12) fra i due più votati al primo turno.

Il ballottaggio è stato bocciato dalla Corte Costituzionale in mancanza della statuizione di una percentuale minima di voti per accedervi con il rischio di una gravissima distorsione della rappresentanza parlamentare. Infatti, nel frammentato sistema partitico italiano, non si può escludere che il partito vittorioso al ballottaggio avesse ottenuto fra il 20 e il 25 per cento dei voti e risultasse premiato con più del raddoppio dei suoi seggi pervenendo fino al 54 per cento. Qui è opportuno evidenziare che sia il Porcellum sia l’Italicum erano leggi elettorali proporzionali con premio di maggioranza. Quindi tutte le lamentele giornalistiche e politiche sul “ritorno alla proporzionale”, che, per Paolo Mieli e per alcuni politologi commentatori, costituirebbe il prodromo alla tragedia di Weimar in salsa italiana, mai contrastate dagli studiosi di scienza politica, erano assolutamente fuori luogo (senza contare che Weimar non crollò primariamente a causa della legge elettorale proporzionale). Vittoriosa con uno scarto minimo nel febbraio 2013, la coalizione Italia Bene Comune fra il Partito Democratico, Sinistra Ecologia e Libertà e i Socialisti Italiani con meno del 26 per cento dei voti, ottenne il 54 per cento dei seggi. Il premio fu, dunque, 28 per cento di seggi; il rimanente 72 per cento fu assegnato con ripartizione proporzionale. La legge che, nella più volta ripetuta frase di Renzi e Boschi, tutta l’Europa ci avrebbe invidiato e metà Europa avrebbe imitato, frase avallata dai costituzionalisti di riferimento del governo e del PD e nella sostanza in un numero imprecisato di articoli sul “Sole 24 Ore” dal politologo Roberto D’Alimonte della LUISS di Roma, non ha avuto modo di essere applicata. Dal punto di vista politico, meglio così. Il sistema politico italiano si è risparmiato non pochi inconvenienti di funzionamento del sistema e non pochi rischi di torsione autoritaria del partito vittorioso e del suo leader. Dal punto di vista politologico, invece, esprimo un rammarico. Infatti, il suo utilizzo, almeno una volta, avrebbe confermato in modo palese l’esistenza di gravi inadeguatezze sia per la rappresentanza politica sia per la governabilità (anche su questo, di più infra).

La cronaca dei tentativi furbeschi di elaborare e di fare approvare una legge che consentisse sia all’indolenzito (dalla batosta referendaria) Renzi sia al ringalluzzito Berlusconi di scegliere i loro parlamentari e, al tempo stesso, di svantaggiare il Movimento Cinque Stelle e di posizionarsi in maniera tale da pervenire, eventualmente, ad una coalizione governativa quasi centrista, non apporta elementi conoscitivi di nessun interesse tranne quello di ribadire che l’orizzonte dei sedicenti riformatori continuava ad essere ostinatamente “partigiano”. Né il potere degli elettori né il miglioramento del sistema politico trovavano posto nelle loro motivazioni anche se la parola governabilità era enfaticamente e ripetutamente pronunciata dai Democratici. In nessuno dei testi a me noti la governabilità si consegue attraverso l’elezione popolare diretta del governo (13). In nessun paese l’ingovernabilità è attribuibile/attribuita ai sistemi elettorali, neppure a quelli proporzionali, quanto, piuttosto a dinamiche sociali e culturali nonché, ovviamente, politiche, alle quali si possono dare risposte anche istituzionali che solo in minima parte passano attraverso le riforme elettorali (14). Nessun politologo ha mai sostenuto che la governabilità (15) crescerà riducendo la rappresentanza che è, invece, la tesi prevalente fra i politici italiani e i loro commentatori di riferimento. È una tesi sbagliata come, indirettamente, ma molto convincentemente, ha dimostrato Powell (16). Oserei affermare che quanto migliore è la rappresentanza elettorale, politica, parlamentare dei cittadini-elettori tanto più probabile è che si pervenga ad un buon governo, vale a dire ad un governo che voglia e riesca a tradurre le preferenze, gli interessi, le domande degli elettori in politiche pubbliche (17) .

Se la rappresentanza politica, che può essere tale esclusivamente se è elettiva (18), si esprime attraverso sistemi elettorali pessimi, le conseguenze negative su parlamento e governo saranno automatiche (19) . Coloro che, nominati e paracadutati in posizioni di vertice nelle liste bloccate e in collegi sicuri, sanno di potere contare sulla ricandidatura non si cureranno affatto di rispondere al loro elettorato (che, peraltro, molto raramente conoscono o possono identificare) e neppure, meno che mai, alla Nazione alla quale, secondo l’art. 67 della Costituzione dovrebbero offrire rappresentanza “senza vincolo di mandato” (su molti di questi aspetti si veda quanto affermato da Calamandrei in due pregevoli saggi degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso) (20). In questo modo si spezza il cruciale circuito dell’accountability. Viene meno l’insieme di comportamenti democratici virtuosi che mettono in relazione cittadini, rappresentanti e governanti (21). Nella legge elettorale a firma del deputato Ettore Rosato, capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei deputati, non si trova nessuna preoccupazione per l’accountability, per la responsabilizzazione degli eletti in Parlamento a tutto scapito degli elettori e del loro potere ridotto ai minimissimi termini. Detto alto e forte che la legge Rosato non è affatto un ritorno alla proporzionale poiché duecentotrentadue deputati e centosedici senatori saranno eletti in collegi uninominali e trecentottantasei deputati e centonovantatre senatori nelle circoscrizioni proporzionali, piccole per i deputati, da due a quattro eletti per circoscrizione, e in circoscrizioni regionali, come impone la Costituzione, per il Senato, va subito aggiunto che combina in peggio l’elemento maggioritario con l’elemento proporzionale.

Per coloro che amano questi paragoni, la legge Rosato capovolge la legge Mattarella, ne sminuisce la competitività e la svirilizza a favore delle segreterie dei partiti. Poiché oltre alla candidatura nel collegio uninominale sono ammesse fino a cinque candidature nelle circoscrizioni proporzionali fin d’ora possiamo essere certi (assured), anche se in verità non ne sentivamo il bisogno, che nessuno dei dirigenti dei partiti e dei loro collaboratori più stretti perderà il seggio. Gravissimo è che, a fini puramente partigiani, vale a dire, per vincolare il voto al partito, la legge Rosato neghi la possibilità del voto disgiunto. Chi sceglie un candidato nel collegio uninominale automaticamente vota la coalizione che lo sostiene nella quale può trovarsi un partito sgradito a quello stesso elettore. Chi apprezza una coalizione e la vota, automaticamente e inevitabilmente dà sostegno al candidato uninominale che, forse, avrebbe preferito non sostenere. Il voto disgiunto insieme alle liste bloccate fa della legge elettorale Rosato un esemplare fra i più riprovevoli della riaffermazione di quel che rimane della partitocrazia/partitinocrazia italiana. È una legge che nessuno in Europa ci invidierà e nessuno penserà di imitare.

La legge Rosato è anche una legge poco promettente per la governabilità come, malamente, intesa dai loro fautori. Non può in nessun modo promettere la maggioranza assoluta di seggi per uno schieramento. Anzi, suggerisce che sarà difficile per tutti andare a comporre una coalizione di governo decente, in grado di durare. Qui, però, prendendo atto che, seppure molto obtorto collo, qualcuno si è finalmente accorto che le democrazie parlamentari nell’Unione Europea hanno governi di coalizione, mi affretto ad aggiungere che qualsiasi governo di coalizione composto da due/tre partiti (persino quattro e più raramente cinque, remember il pentapartito?) è più e meglio rappresentativo di un governo composto da un solo partito. Da non sottovalutare che i cittadini il cui partito si trova nella coalizione di governo si sentiranno logicamente più e meglio rappresentati dei cittadini i cui partiti sono esclusi dal governo.
Dopodiché molto dipenderà dalla qualità dei governanti, sperabilmente scelti anche fra i parlamentari più esperti e più capaci.

Una delle tentazioni, peraltro non impellente, alla quale non voglio cedere, è quella di procedere alla simulazione della distribuzione dei seggi nel Parlamento da eleggere nel 2018. Anzi, intendo mettere in guardia tutti dalle simulazioni per di più condotte dagli orfani di un padre malevolo come fu l’Italicum. Chi prevede un futuro politico-parlamentare oscuro e pericoloso sta facendo, non del tutto inconsapevolmente, affermazioni dal contenuto poco democratico. Quattro mesi di campagna elettorale passerebbero come acqua sul volto e sulle opinioni degli elettori. I candidati (questo può essere vero) e i leader dei partiti non sapranno trovare gli argomenti giusti e le parole appropriate per fare cambiare opzione di voto a percentuali significative di elettori. Non soltanto costoro avrebbero già deciso, ma non cambieranno idea neppure se i leader e i loro esperti/collaboratori commettessero errori clamorosi (22) . Sappiamo, invece, che una percentuale notevole di elettori decide, anche guardando alle coalizioni in lizza, nell’ultima settimana della campagna se non, addirittura, un giorno prima o il giorno stesso del voto. Certo, la legge Rosato offre pochissime opportunità agli elettori che chiamerò, in ossequio ad una classificazione che ha avuto qualche successo, “d’opinione” (23), a coloro che, per l’appunto, valutano le scelte in campo. I “sinceri democratici” debbono augurarsi che gli elettori d’opinione siano molti, intendano attivarsi e superino il disgusto recandosi alle urne e smentendo con la loro crocetta i simulatori senza fantasia e i politici senza vergogna. Purtroppo, una legge elettorale pessima non consentirà di avere un Parlamento buono a sostegno di un governo capace. Chi comprime la rappresentanza non può ottenere governabilità.

 

 

1 G. PASSARELLI, Electoral Laws and Elections in the Second Italian Republic. The 2013 Landmark (?), in Polis, n. 1/2014, pp. 107-122.
2 Più che trentennale poiché, lasciando da parte la legge truffa (1953) e, non tornando assurdamente alla legge Acerbo (1923), improponibile come termine di paragone, dibattito e riforme risalgono all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Per una essenziale panoramica, si veda M. REGALIA, Electoral Systems, in E. JONES – G. PASQUINO (a cura di), The Oxford Handbook of Italian Politics, Oxford, OUP, 2015, pp. 132-143. La mia proposta, presentata in Commissione Bozzi il 4 luglio 1984 e ampiamente discussa per tutto il decennio, ora si trova in G. PASQUINO, Partiti, istituzioni, democrazie, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 229-242.
3 S. ROKKAN, Citizens, Elections, Parties, Oslo, Universitetsforlaget, 1970.
4 M. HTUN – G.B. POWELL, Jr. (a cura di), Political Science, Electoral Rules, and Democratic Governance. Report of the Task Force on Electoral Rules and Democratic Governance, American Political Science Association, Washington, D.C., September 2013 (reperibile all’url: https://liberalarts.utexas.edu/government/_files/moserweb/APSATaskForce2013.pdf).
5 Il ritaglio truffaldino dei collegi elettorali è operazione che risale al governatore del Massachusetts Elbridge Gerry il quale la iniziò, con successo, nel 1812.
6 Il contesto, come messo in limpida evidenza cinquant’anni fa da Sartori, include i partiti e i sistemi di partito (G. SARTORI, Political Development and Political Engineering, in J.D. MONTGOMERY – A.O. HIRSCHMAN (a cura di), Public Policy, Cambridge (MA), HUP, 1968, pp. 261-298). Entrambi sono spariti dall’orizzonte culturale (sì, parola grossa) degli apprendisti riformatori italiani i quali, nel non necessariamente migliore dei casi, vedono solo l’orizzonte degli interessi del loro partito.
7 Il Ministro Maria Elena Boschi è arrivata ad affermare che i capilista bloccati sarebbero stati “i rappresentanti di collegio”. George Orwell direbbe che questo è uno splendido esempio di neolingua. Date le modalità con le quali è probabile che fossero selezionati e i comportamenti che si sarebbero attesi da loro, mi permetterei di suggerire che quei capilista erano a tutti gli effetti intesi come “commissari di partito” (del capo del partito).
8 M. VALBRUZZI, Government Alternation in Western Europe: A Comparative Exploration, tesi di dottorato, Firenze – Istituto Universitario Europeo, 2017.
9 G. PASQUINO – M. VALBRUZZI (a cura di), Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, BUP, 2011.
10 D.W. RAE, The Political Consequences of Electoral Laws, New Haven-Londra, Yale University Press, 1971.
11 G. AMATO – A. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, il Mulino, 1984.
12 Di ballottaggio si deve parlare con precisione poiché è limitato a due concorrenti, competitors, non di secondo turno che spesso contempla la presenza anche di tre, addirittura quattro candidati.
13 G. PASQUINO, Sistemi politici comparati, Bologna, Bononia University Press, 2007; G. PASQUINO, Governments in European Politics, in J.J. MAGONE (a cura di), Routledge Handbook in European Politics, Londra, Routledge, 2015, pp. 295-310.
14 R. ROSE (a cura di), Challenge to Governance. Studies in Overloaded Polities, London, Sage Publications, 1980; M. CROZIER – S.P. HUNTINGTON – J. WATANUKI, La crisi della democrazia. Rapporto alla Commissione trilaterale, Milano, Franco Angeli, 1977.
15 La governabilità può essere secondo Sartori la conseguenza della stabilità del governo che consente e agevola la produzione di decisioni. Quanto le decisioni siano/saranno efficaci dipende soprattutto, ma non solo dalla competenza dei governanti.
16 G.B. POWELL. Jr., Elections as Instruments of Democracy, New Haven e Londra, Yale University Press, 2000.
17 O. MASSARI – PASQUINO (a cura di), Rappresentare e governare, Bologna, il Mulino, 1994.
18 Se gli eletti parlamentari temono che a sanzionare i loro comportamenti saranno, nell’ordine, il capo del partito, il capo della corrente di partito, il gruppo di pressione che ne ha imposto la presenza in lista e non gli elettori, è prevedibile che daranno “rappresentanza”, se tale si può definire (meglio obbedienza) ai capi e non agli elettori. Sul punto si veda: G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 211-236.
19 G. PASQUINO, Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Milano, Egea-UniBocconi, 2015, pp. 71-91.
20 P. CALAMANDREI, Patologia della corruzione parlamentare, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017.
21 G. PASQUINO, Accountability, Electoral, in B. BADIE – D. BERG SCHLOSSER – L. MORLINO (a cura di), International Encyclopedia of Political Science, Londra, Sage Publications, 2011, pp. 13-16.
22 Molti elementi utili a smentire ciascuna e tutte queste affermazioni si trovano in P. BELLUCCI-P. SEGATTI (a cura di), Votare in Italia: 1968-2008. Dall’appartenenza alla scelta, Bologna, il Mulino, 2010.
23 A. PARISI – G. PASQUINO, Relazioni partiti-elettori e tipi di voto, in A. PARISI – G. PASQUINO (a cura di), Continuità e mutamento elettorale in Italia. Le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema politico italiano, Bologna, il Mulino, 1977, pp. 215-249.

In attesa di proposte #Politiche2018

Troppi dicono che la campagna elettorale in corso è “brutta”. Piena di rancori e di risentimenti, con molte vendette da consumare. Mi paiono categorie poco politiche, ma so benissimo che la politica è fatta da persone, elettori compresi, che, inevitabilmente, basano i comportamenti anche sulle emozioni. Nessuno dice quale campagna elettorale italiana è stata bella: quella del 1948 quando, secondo la DC, c’era il fondato rischio che i cosacchi giungessero ad abbeverare i loro cavalli in Piazza San Pietro? Certo, dopo il lungo percorso da Mosca avrebbero avuto moltissima sete. Quella del 1976 con il più fondato rischio, per i democristiani, che il PCI li “sorpassasse”? Quella del 1994, con gli ex- e i post-comunisti ai quali si contrapponeva l’immaginaria rivoluzione liberale di Berlusconi? Quella del 2013 in un paese ancora fiaccato dalla crisi economica al quale il centro-sinistra non sapeva cosa offrire e il Movimento di Grillo prometteva di fare vedere un cielo molto stellato? Ho lasciato fuori la campagna elettorale del 1996 nella quale la novità Ulivo sostenuta da molte associazioni si contrappose abbastanza (non trascuro l’appoggio condizionato, ma decisivo, di Rifondazione comunista) nettamente al centro-destra di Berlusconi privo della Lega che corse da sola. Brutta è stata, se guardiamo oltre Atlantico, la campagna elettorale per le presidenziali USA del 2016, e bruttissimo l’esito.

Cos’è davvero brutto nella campagna elettorale italiana? La mia risposta ferma e tassativa è: la legge elettorale Rosato che obbliga gli elettori a ratificare le alleanze fatte dal partito che intendono votare e ad accettare tutti i suoi candidati. La risposta della quasi totalità dei commentatori e dei conduttori televisivi è, invece, che la bruttezza deriva dalle promesse irrealizzabili che tutti gli schieramenti fanno senza curarsi del costo di quelle promesse e dell’esplosione probabile del debito pubblico, già a livelli insopportabili. È assolutamente giusto e opportuno criticare chi promette in maniera sconsiderata ed evidenziare che mancano le coperture, ma il mio suggerimento è di procedere in maniera diversa. Contrariamente al detto comune che non bisogna guardare al dito di chi indica (promette) la luna, sostengo che è proprio al possessore di quel dito che bisogna guardare.

La maggioranza di noi elettori non guarda soltanto alla luna che ci viene promessa. Ci chiediamo, invece, se chi indica quella luna è credibile. Se ha fatto promesse simili nel passato, le ha poi adempiute una volta al governo? Il suo schieramento è sufficientemente coeso dietro quelle promesse? Lo è stato nel passato?

Al suo interno esistono le competenze per tradurre efficacemente le promesse elettorali in politiche pubbliche? E, eventualmente, a ritoccare quelle promesse per procedere ad una migliore attuazione? I tre governi guidati da Berlusconi hanno fatto quello che avevano promesso? I governi del centro-sinistra guidati da Renzi e da Gentiloni hanno dimostrato tutta la competenza di cui si vanta l’attuale segretario del PD? Come valutare le capacità di governo delle 5 Stelle, solo in riferimento ai casi locali più visibili, Roma e Torino, oppure ampliando lo sguardo ad altre città con sindaci del Movimento? È mia opinione che la campagna elettorale attuale non sia né brutta né, aggettivo impegnativo, bella. Il suo difetto è che le proposte/promesse dei contendenti sono frammentarie, non consentono agli elettori di vedere quale idea di Italia abbiano i tre schieramenti: un’Italia credibile e attivo partner nell’Unione Europea oppure un’Italia sovranista fuori dall’euro e dalla UE? Ci sono ancora cinquanta giorni affinché gli schieramenti facciano chiarezza, individuino il loro tema dominante, formulino la loro idea d’Italia nei prossimi cinque anni. Poi saremo noi a decidere qual è, se non la migliore, la meno brutta.

Pubblicato AGL il 16 gennaio 2018

Le frittate dello chef del Nazareno

“Non tutte le frittate finiscono per venire bene” è il commento di Romano Prodi, che, avendone fatte, di frittate se n’intende, a quello che ha tentato Pisapia per mettere insieme le sparse membra della sinistra e del PD. Troppo facile attribuire tutte le responsabilità all’improvvisato e velleitario Master Chef di Campo Progressista. Altrettanto facile, ma ugualmente inadeguato sostenere che hanno sbagliato tutti. Chi ha più potere ha anche maggiori responsabilità. Che Alfano, persino troppo premiato dal PD: Ministro degli Interni e Ministro degli Esteri nella stessa legislatura, se ne vada è certamente un danno per il PD di Renzi il quale, probabilmente, fa molto affidamento su quanto il manovriero toscano Denis Verdini riuscirà a combinare sul versante di centro. Tuttavia, il vero problema è sapere se le energie, in verità non molte, non tutte nuove, sollecitate da Pisapia si disperderanno oppure confluiranno nello schieramento che si è creato alla sinistra del PD: Liberi e Uguali, composto da Art. 1-MDP, Sinistra Italiana, Possibile.

Pensare che quello schieramento potesse essere, prima raggiunto dall’ambasciatore Piero Fassino, già rivelatosi esageratamente renziano, poi convinto a stilare qualche tuttora imprecisato accordo con il PD, era ovviamente un nient’affatto pio desiderio. Spesso apertamente offesi da Renzi e dai suoi collaboratori, di volta in volta variamente delegittimati e dichiarati “inutili” (essendo “utile” solo il voto al PD), gli uomini e le donne alla sinistra del PD hanno deciso che giocheranno le loro carte nella campagna elettorale che sta per iniziare. Renzi, l’uomo solo al comando, colui che con l’Italicum aveva imposto che le coalizioni non potessero formarsi, si trova adesso ad allettare tutti quei partitini che un tempo, anche quello dell’Ulivo, si chiamavano “cespugli”. Addirittura qualcuno suggerisce che l’unico modo per evitare l’annunciata sconfitta del Partito Democratico sarebbe quello di tornare a sperimentare la desistenza in un incerto numero di collegi uninominali a favore dei candidati Liberi e Uguali.

Certo, le desistenze mirate del 1996 permisero all’Ulivo di vincere le elezioni e a Rifondazione di ottenere un buon gruzzolo di parlamentari che fecero ruzzolare Prodi due anni e mezzo dopo, cambiando, in peggio, la storia politica dell’Italia. Adesso, però, la legge elettorale Rosato, non casualmente accettata e votata dai parlamentari di Berlusconi, ha meccanismi meno favorevoli alla desistenza (e, comunque, dispone di un numero molto minore di collegi uninominali dell’allora vigente legge Mattarella). Le tecnicalità della legge elettorale contano, ma, ovviamente, le distanze programmatiche e le personalità contano molto di più e possono risultare decisive. “Liberi e Uguali” non hanno neanche bisogno di ripeterlo, ma dovrebbe essere oramai evidente a tutti che per loro Renzi non può essere il candidato alla carica di Presidente del Consiglio. Né potrà essere colui che detterà l’agenda del molto eventuale governo Gentiloni-bis. Quell’agenda, infatti, dovrà ricomprendere misure molto precise di ridefinizione/correzione delle due leggi di cui Renzi si vanta di più: il Jobs Act e la Buona Scuola e, magari, anche delle modalità con le quali stare e agire nell’Unione Europea. Era proprio sulla messa in discussione di queste controverse leggi, nonché sull’impegno forte a fare approvare lo jus soli, che le sinistre sarebbero state disponibili a confrontarsi con il capo del Partito Democratico. Fino alla presentazione delle liste delle candidature è possibile a coloro che intendano evitare di consegnare il prossimo governo al centro-destra o al Movimento Cinque Stelle cercare qualche forma di accordo. Al momento, però, stiamo assistendo a un brutto spettacolo, di cui è il ristretto gruppo dirigente del PD a portare le maggiori responsabilità, che probabilmente si tradurrà in una frittata immangiabile da molti elettori e indigeribile.

Pubblicato AGL l’8 dicembre 2017

Dieci anni dopo, richiamarsi all’Ulivo è peggio che mai

Dieci anni perduti non per caso.

Nessuno, e si vede si sente, nel PD ha mai neppure iniziato l’elaborazione di quella strombazzata (e condivisa) cultura politica che avrebbe messo insieme il meglio del popolarismo, del progressismo, dell’ambientalismo (dimenticando proprio quanto di buono c’è, tuttora, nel socialismo).

Richiamarsi all’Ulivo è peggio che mai. Nessuno nel PD autoreferenziale e autoombelicale ha mai neppure provato a rapportarsi alle associazioni riformiste.

L’Ulivo tentò di essere centro-sinistra doppiamente plurale, partiti e associazioni. Il PD è quasi soltanto partito personale, di Veltroni e di quel che resta di Renzi.

Le sinistre sparpagliate non vincono

Mettere insieme le sparse membra delle sinistre, al plurale, è un po’ dappertutto (Francia e Spagna insegnano) operazione tanto ambiziosa, qualche volta velleitaria, e difficile quanto, se le sinistre vogliono vincere le elezioni (che non succede abbastanza spesso), necessaria. Negli anni settanta del secolo scorso, soprattutto i socialisti italiani furono affascinati dalla sinistra plurale che con ostinazione e furbizia François Mitterrand riuscì a costruire e che lo portò alla Presidenza della Repubblica. In Italia, oggi, si menziona talvolta, come grande riferimento positivo, l’esperienza, in verità, durata pochissimo tempo, dell’Ulivo. Non è un riferimento appropriato. Sdegnate, le vestali dell’Ulivo respingono l’idea che, neanche nel suo tentativo di diventare il Partito della Nazione, il Partito Democratico di Renzi, non disposto e incapace di aprirsi alla società, riesca a trasformarsi in un Ulivo. Invece, in un certo modo, la sinistra plurale francese fu un’anticipazione dell’Ulivo avendo saputo costruirsi, oltre che su un’aggregazione di partiti deboli, anche ascoltando e interagendo con preziosi rappresentanti della società civile, i clubs, e valorizzandone presenza e attività. Forse non guidato con polso fermo dagli inesperti prodiani e da un leader anche lui neofita, l’Ulivo, divenne rapidamente preda dei partiti e cadde per opera di un pezzo di sinistra, la Rifondazione Comunista guidata da Fausto Bertinotti.

La strada che, adesso, sembra perseguire l’ex-sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, curiosamente ex-deputato proprio di Rifondazione Comunista, dovrebbe condurre le sinistre in un “campo progressista” poi in grado di confrontarsi/trattare con il Partito Democratico. Nel migliore dei casi, quella strada è stata finora percorsa per meno della metà. Da un lato, il Partito Democratico sostiene fin troppo orgogliosamente che, comunque, a lui spetta la rappresentanza del centro-sinistra e che il tentativo di Pisapia dovrà prendere pienamente atto che senza il PD, le sinistre non vanno da nessuna parte. Dall’altro lato, Pisapia vuole dal PD discontinuità nelle politiche, in particolare quelle del lavoro e per i giovani, ma c’è chi vuole di più. Sostanzialmente, gli ex-PD di Art. 1 Movimento Democratico Progressista vogliono che la discontinuità investa anche il segretario del PD, Matteo Renzi, responsabile, come capo del governo, proprio di quelle politiche.

Inevitabilmente, la discussione, implicita ed esplicita, qualche volta fatta di troppe riserve e di improduttive impuntature, oscilla fra le politiche sulle quali trovare un accordo al fine di proporle in campagna elettorale e le personalità. Il quesito riguarda, almeno in parte, qualora Pisapia non voglia assumersi il ruolo di capo di tutto lo schieramento, la scelta del candidato alla carica di capo del governo. L’altra parte del quesito si riferisce alle candidature al Parlamento. Difficile tenere fuori dalle scelte figure come Bersani e il molto controverso D’Alema, ma se le politiche camminano sulle gambe degli uomini (e delle donne) è innegabile che le capacità dei due leader debbano essere tenute in grande conto –anche perché sicuramente superiori a quelle dei componenti del non tanto più magico giglio che avvolge Renzi. Saranno ancora settimane di alti e bassi nei rapporti sia fra Pisapia e le sinistre che lui desidera fare entrare nel Campo Progressista sia fra questo Campo in via di definizione, sperabilmente senza paletti e senza esclusioni, e il Partito Democratico. Le elezioni siciliane dell’inizio di novembre, per le quali le sinistre il PD non hanno ancora trovato nessun accordo, saranno scrutate attentamente per trarne lezioni, ma fin da subito mi pare di potere concludere che, senza una chiara e solida convergenza fra “la cosa” di Pisapia e il PD, le sinistre italiane e lo stesso PD avranno vita grama (e i loro elettori rimarranno tristemente insoddisfatti).

Pubblicato AGL il 18 settembre 2017

Gli abbracci fuori programma

Chi può resistere alle emozioni che suscita l’abbraccio spontaneo di Giuliano Pisapia a Maria Elena Boschi? alle di lui braccia protese mentre le si avvicina accelerando il passo e sorridendo? Sostiene il Pisapia che nella sua giornata politica abbraccia molte persone e che le critiche rivoltegli sono come minimo surreali. Non tutte le persone sono tanto abbracciabili quanto l’attuale sottosegretaria Boschi, rimasta aggrappata a una carica di governo dopo la sconfitta clamorosa delle riforme costituzionali, che erano anche molto responsabilità sua, e che ha aspramente criticato i fuorusciti dal PD i quali, incidentalmente, dovrebbero costituire buona parte di coloro che entreranno nel Campo progressista di Pisapia. Il fatto è che Pisapia ha la facoltà di abbracciare chiunque desideri, ma, a loro volta, coloro che vedono quegli abbracci hanno il diritto di giudicare tutto quello che il body language, il linguaggio del corpo comunica (in quel caso un trasporto sicuramente eccessivo e politicamente rilevante). Che l’abbraccio Pisapia-Boschi abbia ottenuto tanto spazio e suscitato dibattito è perché, fino ad oggi, è stato la cosa più concreta dell’operazione Campo progressista. Adesso, che Pisapia abbia deciso di non incontrare Roberto Speranza, il coordinatore di Articolo 1-Mdp, perché da loro è stato criticato, è indice di eccessiva suscettibilità che, politicamente, non promette nulla di avanzato. Per andare avanti bisogna anche sapere criticare gli errori del passato, e il PD ne ha commessi, per non riprodurli. Il Campo progressista non è una tabula rasa. Chi lo frequenta ha una storia di cui tutti debbono tenere conto, anche criticandola.

Detto che l’operazione meno concreta, ma già acclarata, è la curiosa rinuncia preventiva di Pisapia alla leadership dello schieramento che sta costruendo del quale sostiene di volere agire come federatore, tutto il resto è oscuro e confuso. Un campo dovrebbe avere, se non un perimetro chiaramente delineato, almeno un’estensione di massima alla quale si mira. Pisapia si muove, per così dire, quasi a tutto campo in un vago ambito definito di centro-sinistra. Sembra un predicatore ecumenico, intenzionato a richiamare e raccogliere tutte le sparse membra delle sinistre italiane (uso deliberatamente il plurale) che si agitano in maniera un po’ scomposta sul territorio, mentre di centro se ne vede poco a meno che non sia il grosso del PD di Renzi. Quale sia il principio unificatore non è ancora stato detto. Alcuni esponenti delle sparse membra vorrebbero che fosse un chiaro “no” alla leadership di Renzi, non nemico da odiare né usurpatore, ma ostacolo a una riaggregazione su basi non troppo diseguali. Ovviamente, questo “no” dovrebbe estendersi anche ai collaboratori più stretti del segretario fra i quali figura la Boschi, dunque, a maggior ragione, non abbracciabile. Se il PD è l’interlocutore del Campo progressista non deve esserne né l’unico né quello privilegiato.

I nostalgici dell’Ulivo continuano a pensare, forse, oggi, alquanto utopisticamente, che nella società italiana si trovino numerosi gruppi, associazioni, movimenti disponibili ad attivarsi. Vero o no, il Campo progressista non sembra avere finora fatto molto per suscitare le energie e la vitalità di questo pezzo, di indefinibile importanza, della società. “Il programma, il programma, il programma” è sempre stato il mantra delle sinistre che, poi, per provare a se stesse prima ancora che ai loro interlocutori, i cittadini, finivano per valutare la qualità del programma dalla sua lunghezza. Vincitore indiscusso fu il programma dell’Unione di Romano Prodi: 281 pagine dove c’è quasi tutto, comprese non poche contraddizioni, e che non ha poi condotto a nessuna esemplare “governabilità”. Finora da Pisapia, dal suo Campo e dai suoi frequentatori non s’è visto niente. Il rischio è che il programma finisca per abbracciare troppa roba e per essere la sommatoria delle proposte, delle promesse, delle priorità “irrinunciabili” di tutti i partecipanti e che non raggiunga quegli elettori che vorrebbe sentirsi raccontare soluzioni praticabili, qui e quasi subito.

Pubblicato AGL 26 luglio 2017

“Avanti”, ma anche Vade retro sinistra

Di tanto in tanto, gli estimatori di Matteo Renzi discettano sul modello di partito che l’ex-segretario ritornato segretario sull’ondina di un consenso più ristretto starebbe costruendo. Per un po’ di tempo, questi estimatori, quando i numeri sembravano promettenti, si erano appassionati all’idea del Partito della Nazione. Suonava, il termine, molto potente. Era quasi un programma, non è mai stato chiarito di cosa, forse di un’ipertrofica aggregazione al centro, con tutti gli altri contro “la nazione”. Poi, di tanto in tanto, ma senza troppa convinzione, il Partito di Renzi avrebbe rappresentato il nuovo Ulivo, ma, in tutta sincerità né le premesse né le azioni di Renzi giustificavano una qualsiasi costruzione di un qualsiasi Ulivo che avesse qualche riferimento al vecchio. L’assenza più evidente nella discussione, peraltro mai centrale, del nuovo partito (sì, dell’ultimo partito ancora esistente in Italia), era relativa proprio alla motivazione con la quale i DS e i Popolari della Margherita avevano troppo rapidamente proceduto a quella che fu criticata come “fusione fredda” e che ebbe come esito il Partito Democratico. Che dovesse contenere il meglio delle culture riformiste del paese fu detto troppe volte, ma, al di là del non coinvolgimento dei socialisti che, in fondo, non poca cultura riformista avevano formulato, avuto e espresso, le altre culture politiche erano già declinate, se non esauste al momento della fusione. Per questa assenza di fondo di qualsiasi cultura politica divenne fin troppo facile flirtare con definizioni di partiti immaginari, mai sostenuti da idee, quindi sempre mobili quanto serviva, per esempio, ad attrarre il riformista Verdini, sul continuum destra/sinistra.

La prima segreteria di Renzi non diede alcuno spazio a riflessioni di cultura politica. La grande occasione delle riforme costituzionali non fu neppure presa in considerazione per andare ad una esplicitazione della cultura, non solo costituzionale, che le sottintendeva, ma per aggiungervi anche quei principi e quei valori che esprimono e danno corpo ad una cultura più specificamente politica. Respinta la richiesta delle minoranze per una conferenza programmatica che precedesse le votazioni per il segretario tenutesi alla fine d’aprile 2017, il discorso sembra definitivamente chiuso. Il Partito Democratico è un partito vote and office-seeking, che cerca voti e cariche. Punto e basta. Qualche volta, però, un libro potrebbe essere il luogo dove riflettere sulla cultura di un partito, quello che si guida e quello che si vorrebbe. Invece, no. Non lo fece Veltroni nella sua cavalcata del 2007 (La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi, Rizzoli 2007) che delineò non un partito nuovo, ma un programma di governo, se non del tutto alternativo a quello del già traballante Prodi, sicuramente competitivo. Non lo fa affatto il libro di Renzi che il suo autore presenta come segue: “Questo libro non è solo un diario personale, una riflessione sulla sinistra o il programma del governo che verrà. Più di tutto, è la condivisione di idee, emozioni e speranze che spesso si sono perse nel racconto della comunicazione quotidiana. I risultati ottenuti e gli errori commessi. Il viaggio tra passato e futuro di un’Italia che non si ferma. Che vuole andare avanti.” Niente, dunque, che possa riguardare la cultura politica del PD di Renzi il quale si esprime semmai soltanto in critiche, talvolta offensive, a tutti coloro che si muovono nella sinistra e dintorni.

Per fortuna, ma certo non per virtù, i commentatori politici renziani, politologi (che sarebbe un’aggravante), e no (che è molto più di un’aggravante!), dalle Alpi alla Sicilia, l’hanno trovata loro la cultura politica del partito renziano. Certo, bisogna aguzzare la vista, cogliere anche gli indizi più labili, tuffarsi in un linguaggio che proprio non facilita la scoperta di elementi culturali appena malamente abbozzati. Soltanto ai, “diciamo”, meglio attrezzati apparirà allora che Renzi sta costruendo un partito di “sinistra liberale”. Gli opposti essendo sicuramente due: un partito di destra liberale (che non può certamente essere quello di Berlusconi in conflitto d’interessi permanente) e un partito di sinistra illiberale (quello del passato, di D’Alema e Bersani?, quello del futuro, nel campo di Pisapia?) Naturalmente, il paese attende di essere istruito sia sul sostantivo “sinistra”, secondo Renzi e non solo secondo Michele Salvati, che è il non-politologo che auspica instancabilmente la vittoria definitiva di Renzi, sia sull’aggettivo liberale per il quale, però, non ritengo che sia Salvati lo studioso meglio in grado di illuminarci. Peccato che nel libro di Renzi e nelle quarantasette anticipazioni non si trovi nulla né relativo alla sinistra né relativo al liberalismo.

Pubblicato il 15 luglio 2017

Alle Primarie è mancata la politica

L’esito percentuale e numerico delle votazioni per l’elezione del segretario del Partito Democratico per i prossimi quattro anni è sufficientemente chiaro. Per capirne di più, anche contro i toni trionfalistici dei sostenitori di Renzi, è opportuno sottolineare che la partecipazione è diminuita di un terzo e i voti del Renzi vincente sono passati da 1 milione e 700 mila del 2013 a circa 1 milione e 300 mila. Non è una buona idea quella dei renziani di sottolineare che la domenica del voto si situava in mezzo a un ponte poiché la data, “rito abbreviato” ha più volte ripetuto il concorrente Michele Emiliano, l’hanno scelta loro. Semmai, si dovrebbero evidenziare due elementi: la vittoria troppo presto parsa praticamente certa di Renzi e, va subito aggiunto, la non eccelsa qualità degli sfidanti e della loro campagna elettorale. In verità, neppure la campagna elettorale di Renzi è stata brillante. Non si sono avute idee nuove da parte di nessuno. Proposte efficaci, intuizioni spettacolari non hanno fatto la loro comparsa: una campagna facilmente dimenticabile.

È giusto recriminare sulle modalità complessive con le quali si è arrivati alle votazioni poiché molti, compresi quasi tutti coloro che se ne sono andati dal PD per dare vita a Articolo 1 Movimento Democratico e Progressista, avrebbero voluto che una Conferenza Programmatica precedesse le votazioni per il segretario. La Conferenza avrebbe potuto essere il luogo della elaborazione sia programmatica sia, soprattutto, culturale del Partito Democratico. Nessuno dei due compiti è stato svolto. Al Partito Democratico che si vantava di avere messo insieme le migliori culture riformiste del paese (ma, in verità, quella socialista non fu mai invitata), manca a tutt’oggi una reale e convincente cultura politica. Questa mancanza si rispecchia sull’assenza di un documento programmatico che indichi problemi e soluzioni, segnalando costi e vantaggi per approdare a una società più giusta con meno diseguaglianze e più opportunità per tutti, ma, ovviamente, soprattutto per gli svantaggiati.

Il paragone del Partito Democratico di Renzi con l’Ulivo di Prodi, per altro mai compiutamente realizzato, è semplicemente improponibile. Nella sua azione di governo, Renzi non ha mai mostrato nessun interesse a sollecitare e coinvolgere la società, nelle sue diverse articolazioni. Al contrario, ha prodotto uno scontro frontale con i sindacati annunciando l’utilità della disintermediazione, ovvero non tenerne più conto, ha criticato i “professoroni”, ha bacchettato i partigiani “cattivi”, ha soffocato la già non proprio vibrante autonomia della Radiotelevisione pubblica. Nel suo discorso della vittoria al Nazareno ha annunciato che farà una Grande Coalizione, non con i partiti(ni) esistenti, peraltro, ad eccezione del Movimento 5 Stelle, piccola cosa e precaria, non con le associazioni, ma con quei cittadini sciolti che sarebbero il popolo vera “alternativa al populismo”. Insomma, anche se ha cercato di passare al “noi” per evitare la critica di stare ricostruendo il Partito di Renzi, ha posto le premesse proprio di quel partito. È l’unico partito che conosce anche se lo frequenta poco e che i suoi sostenitori vorrebbero “normalizzare” sostituendo i segretari non allineati in tutte le aree dove hanno avuto la maggioranza. È un brutto modo di segnalare la disponibilità a praticare la democrazia dentro il partito, vale a dire lasciare spazi alle minoranze e interloquire con loro senza schiacciarle con i numeri.

Adesso, tutti s’interrogano sulle mosse future del leader. Quanto presto desideri (tentare di) tornare a Palazzo Chigi. Proprio perché preoccupato dalla probabile fretta di Renzi, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha, saggiamente, posto un paio di condizioni dirimenti. La prima riguarda la necessità di elaborare due leggi elettorali tali da non condurre a maggioranze prevedibilmente diverse fra Camera e Senato. Sul punto, avendo già prodotto un pessimo Italicum, ed essendosi troppo vantato di una legge in più punti bocciata per incostituzionalità dalla Corte, Renzi è, più che cauto, vago dando spesso l’impressione di non sapere che cosa vuole (tranne vincere). La seconda condizione è quella di fare funzionare il governo fino alla scadenza naturale della legislatura: fine febbraio 2018 con possibilità di svolgere elezioni entro la prima settimana di maggio. Il segretario di un partito dovrebbe appoggiare “senza se e senza ma” il governo guidato da un dirigente del suo partito e con una composizione fotocopia del governo da lui presieduto fino al fatidico 5 dicembre. Invece, perdendo di vista quella che dovrebbe essere la funzione nazionale di un grande partito, vale a dire la governabilità nell’interesse del sistema politico, sembra che la tentazione della spallata sia variamente intrattenuta da Renzi e incoraggiata da molti stretti collaboratori. Insomma, Gentiloni non può proprio stare “sereno”.

Pubblicato il 3 maggio 2017 su La Nuova Sardegna

 

Legge elettorale carsica: bentornato, Mattarellum #leggeElettorale #mattarellum

Dov’è finita l’urgentissima legge elettorale? Sono i gufi a fare melina oppure i renziani che, rattrappiti dopo la botta alla legge più bella d’Europa, boccheggiano? Sono quei renziani a temporeggiare sperando di trarre qualche linfa dalle votazioni per il prossimo segretario? Ma se la legge elettorale è di tutti e per tutti perché attendere l’evento di un partito? Comunque, alla Camera dei deputati quel che ne rimane del Partito Democratico ha la maggioranza assoluta dei seggi. È sufficiente che introduca il Mattarellum, magari come primo atto riformista dell’inopinato Ministro delle Riforme Anna Finocchiaro, e lo faccia votare. Dopo, brevissimo il passo, toccherà al Senato dove il PD finalmente nominerà il Presidente della Commissione Affari Costituzionali, per esempio, un Senatore competente come Federico Fornaro, adesso di Articolo 1, e subito dopo chiederà a uomini e donne di qualche volontà di procedere all’approvazione perché prima o poi si tornerà alle urne e, insomma, è meglio avere una legge votata dal Parlamento piuttosto che un testo scribacchiato (eh, sì, cara Corte Costituzionale, proprio di scribacchio si tratta) da non proprio competentissimi giudici. Le leggi elettorali non sono affare da giuristi, ma richiedono conoscenze politologiche. Periodicamente, è anche giusto ricordare a quelli che parlano di sovranità popolare che il Mattarellum non è caduto dal cielo e neanche dalla Consulta, ma è stato in prima e grandissima misura il prodotto di un referendum popolare approvato il 18 aprile 1993 da quasi il novanta per cento dei votanti. L’esito si applicava direttamente soltanto al Senato cosicché i deputati pensarono soprattutto a salvarsi la pelle, ovvero il seggio, e ne venne fuori il Mattarellum con la scheda di recupero proporzionale, ma anche con la possibilità per gli ornitologi di fare le liste civetta per non perdere neanche un voto del cosiddetto scorporo. Brutto trucchetto che nel 2001 costò, a chi aveva ecceduto nella furbata, cioè la Casa delle Libertà, la bellezza di undici seggi.

In attesa della moral suasion del Presidente Mattarella che, ne sono sicuro, arriverà, arriverà, comincio con il ricordare a Forza Italia e al suo ultraottantenne fondatore e capo che con il Mattarellum furono loro a vincere due volte (1994 e 2001) su tre, sequenza spezzata fortunosamente dall’Ulivo, ma soltanto perché la Lega si chiamò o restò fuori dalla berlusconiana coalizione nel 1996. Quanto al vero obiettivo di Berlusconi: nominare i suoi parlamentari, con il Mattarellum potrà continuare a farlo con grande sollievo di tutti i e le candidabili. Naturalmente, poi, anche quei nominati dovranno trovarsi i voti per l’elezione vera e propria: un bagno di politica. Adesso, mi aspetto che tutti gli adamantini sostenitori di Porcellum e Italicum (due leggi elettorali proporzionali neanche troppo molto distorte dal premio di maggioranza: con il Porcellum i seggi maggioritari nel 2008 ammontarono al 15 per cento; nel 2013 al 30 per cento; con l’Italicum non sarebbero stati meno del 25 per cento), dolorosamente colpiti da quello che, sbagliando, definiscono un ritorno alla proporzionale e contraddicendo il loro capo renziano, quello del non avere paura del futuro, fanno riferimento al terrorizzante spettro di Weimar, convergano sul Mattarellum. Di sistema elettorale maggioritario si tratta, per di più in collegi uninominali dove, almeno qualche volta, la personalità dei candidati e la campagna elettorale possono, come vorremmo noi, ma dovrebbero volere anche loro, fare una differenza re-instaurando una democrazia competitiva. Se sarà anche bipolare lo vedremo a voti contati come si racconta che succede in tutte le democrazie del mondo.

Abbandonando pregiudizi e leggende metropolitane che opinionisti anche di non altissimo livello dovrebbero sottoporre al vaglio della critica e di buone letture, chi vuole una legge elettorale decente ha l’obbligo morale di chiedere quello che si può effettivamente e rapidamente ottenere. Il Mattarellum rivisto sullo stampo di quello esistente per il Senato non richiederebbe né alla Camera né al Senato stesso che piccolissimi ritocchi ai collegi uninominali. Mattarellum 2.0: thank you. Tutto il resto sono manipolazioni riprovevoli di chi pensa soltanto a come fare vincere non il proprio partito, ma la propria fazione. Non ha funzionato il 4 dicembre, non funzionerebbe neppure nel febbraio 2018.

Amenità
È arrivata, scrive il “Corriere della Sera” (29 marzo, p. 10), “la mediazione di Giuliano Pisapia … il Mattarellum con collegi più piccoli sarebbe una legge che avrebbe vantaggi enormi per aggregare le coalizioni”. Poiché i collegi del Mattarellum sono uninominali, vale a dire eleggono UN solo candidato, per diventare più piccoli dovrebbero eleggere mezzo candidato? un quarto di candidato? un decimo di candidato? Tutto questo dopo trent’anni di dibattito elettorale. And the rest is silence (Amleto).

Pubblicato il 30 marzo 2017 su PARADOXAforum