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Ripresa e rilancio della burocrazia

Adesso, sembra che si siano accorti tutti, meglio, quasi tutti, il problema è: “che cosa fare con/della burocrazia italiana?” La risposta condizionerà in maniera molto significativa tanto le possibilità dell’Italia di ottenere gli ingenti fondi europei quanto la capacità di questo governo e dei successivi di utilizzarli il più efficacemente possibile. I ministeri, guidati dai tecnici, ma anche dai politici, dovrebbero avere già svolto parte del lavoro. Altrimenti, inevitabile sarebbe la preoccupazione di essere già in ritardo. Se, invece, il lavoro è in stadio avanzato, una parte almeno della burocrazia ministeriale è già stata coinvolta ed è quindi già valutabile dai rispettivi ministri. Dunque, l’alternativa che qualcuno troppo disinvoltamente suggerisce di seguire, ovvero assumere 5-6 mila uomini e donne capaci, comporterebbe il ritornare sul già fatto e demoralizzare i burocrati che si sono finora impegnati. Escluderli è sbagliato. Potenziare i vari gruppi di burocrati con innesti chiave sarebbe la soluzione migliore. Naturalmente, gli innesti dovranno provenire da quei settori specialistici, aziende private, università, centri di ricerca, disponibili a collaborare con la burocrazia statale per un preciso periodo di tempo e a condizioni chiaramente delineate.

   L’altra strada di cui si parla, vale a dire, un reclutamento rapido di giovani burocrati pare asperrima. Vero è che almeno due settori nei quali stagionati e sperimentati burocrati dovrebbero impegnarsi, digitalizzazione e transizione ecologica, richiedono competenze “fresche” e giovanili, ma altrettanto vero è che nel campo delle infrastrutture e della scuola, le competenze ci sono. Debbono, però, essere ri-orientate ai nuovi più esigenti compiti. Il reclutamento di personale giovane e diversamente preparato è comunque assolutamente necessario. Servirà soprattutto nella seconda fase quando, ottenuti sperabilmente tutti i fondi assegnati all’Italia, bisognerà metterli all’opera. Ė impensabile che la fase di attuazione venga affidata a coloro che non hanno minimamente partecipato alla fase di formulazione dei progetti. Almeno una parte dei burocrati già coinvolti sarà in grado di meglio interpretare quello che hanno formulato, conoscendone i punti forti e le eventuali debolezze alle quali sopperire.

   Il senso profondo di tutto questo discorso e del relativo dibattito, finora non sufficientemente esplicitato (da questo punto di vista il silenzio del Presidente del Consiglio non è da lodare), è che la riforma della burocrazia italiana deve essere iniziata e condotta sul campo, adesso, subito, come pare intenzionato il Ministro Brunetta. Non è questione di fare piazza pulita che renderebbe i Ministeri più deboli e più penetrabili da interessi particolaristici. Invece, le riforme, sicuramente indispensabili, debbono essere mirate, chirurgiche. Sulla qualità e l’efficacia di quelle riforme poi si valuterà anche la competenza dei ministri (e dell’intero governo).

Pubblicato AGL 11 marzo 2021

Con lo sciopero, oltre lo sciopero #Università

Lo sciopero dei professori universitari è praticamente e rapidamente sparito dall’attenzione dei sistemi informativi italiani. È terminato, e come? Con quali risultati? È servito specificamente a cosa? Riflettendo anche su quanto ho chiesto ai collaboratori del fascicolo di “Paradoxa” (Aprile/Giugno 2017) dedicato a Le società incivili e su quanto ha scritto Stefano Semplici (Libertà e autonomia come dovere e come tentazione. I professori universitari dalla Costituzione alla VQR), ho deciso di chiedermi: se fossi ancora stato in ruolo avrei partecipato? Sicuramente no, per una ragione di ordine generale e una di ordine specifico (credo che entrambe sarebbero state condivise dai molti professori che affollarono le scarne file del Partito d’Azione). In generale, ritengo che gli scioperi che danneggiano non la controparte, ovvero i ‘proprietari dei mezzi di produzione’, ma gli utenti, in questo caso, gli studenti, siano un’arma sbagliata. Naturalmente, questa considerazione vale per tutto il settore pubblico, luogo di grande ‘corporativismo amorale’, quando gli utenti sono i cittadini che subiscono conseguenze negative, talvolta disagi di notevoli proporzioni. Temo che non siano stati affatto pochi gli studenti incorsi in una molteplicità di disagi che non derivano da nessuna loro responsabilità. Esiste un’alternativa allo sciopero in casi simili? Bisogna cercarla e trovarla, compito che i sindacalisti dovrebbero avere cominciato a svolgere tempo fa e non continuare imperterriti a usare una “forma di lotta” vecchia più di centocinquant’anni e logora assai. Per esempio, avrei suggerito ai miei colleghi di continuare a lavorare, fare esami, seguire le tesi, tenere puntualmente le ore di ricevimento (cose che, lo so per esperienza, non proprio tutti fanno con regolarità e senza eccezioni: gli studenti ne hanno di ‘aneddoti’ da raccontare, e dovrebbero farlo se non temessero di subire ‘rappresaglie’ senza ottenere benefici né per loro né per gli studenti che seguiranno) e stabilire, nobilissimo gesto di bridging per ricorrere a uno dei termini che uso nella mia presentazione del fascicolo della rivista, che la parte del loro stipendio derivante dalle giornate scioperate confluisse in un fondo di dipartimento, di Facoltà, di Ateneo al quale attingere variamente. Si potrebbero dare borse ai meritevoli; si potrebbero comprare attrezzature per laboratori e libri per le biblioteche (mettendo l’etichetta “comprata grazie allo sciopero del settembre 2017”); si potrebbe fare una migliore opera di pubblicizzazione di quella Facoltà; si potrebbe invitare qualche personalità prestigiosa (non con il solo classico obiettivo di reciprocità: farsi invitare come restituzione di favore). Non esaurisco tutta la casistica possibile poiché sono assolutamente sicuro che un sano confronto fra docenti e studenti farebbe emergere molte altre proposte aggiuntive degne di nota, di interesse, di attuazione. Naturalmente, i professori scioperanti avranno ancora tempo e modo di prendere spunto da quello che ho scritto per le loro prossime ‘agitazioni’.

Quanto alla ragione particolare per la quale non avrei scioperato, è in realtà un gomitolo di motivazioni. Esordisco in maniera rischiosa affermando che, tutto sommato, gli stipendi dei professori universitari sono buoni. Mi cautelo subito aggiungendo che il blocco degli stipendi è, da qualche tempo, ingiustificato e ingiusto. Dunque, condivido che il governo dovrebbe procedere alla sua abolizione. Tuttavia, non sta lì il problema dell’Università italiana, forse, meglio al plurale, degli Atenei italiani. Uscire dal corporativismo salariale significherebbe, da parte dei professori, non tanto riflettere, poiché alcune problematiche sono talmente evidenti, ma indicare soluzioni. Immagino che il richiamo ai doveri costitutivi, già accennato sopra, sarebbe respinto con fastidio, ma se nessuno dei docenti sgarrasse sarebbe più facile chiedere agli studenti di osservare a loro volta le regole per lo studio, per la frequenza, per gli esami (rendendo improbabile quel che successe vent’anni fa a una giovane studentessa la quale, di fronte alla bacheca che conteneva le date degli appelli, mi chiese se, per caso, conoscessi il prof di Scienza politica), persino per l’inevitabile selezione. Questo sciopero, fondamentalmente, ma, in parte, anche comprensibilmente, corporativo, avrebbe potuto essere ri-orientato cogliendo l’occasione non certo per riformare hic et nunc le università italiane, ma per evidenziarne coram populo i problemi culturali, non quelli burocratici, e cominciare a proporre qualche soluzione passibile di rapida attuazione. Qui, concludo, sta il linking: migliore sarebbe, e più fecondo, il rapporto fra docenti e studenti se né gli uni né gli altri si sentissero e trattassero come controparti, ma se entrambi, senza evitare i conflitti, agissero per migliorare il funzionamento delle istituzioni universitarie facendone una priorità.

Pubblicato il 28 settembre 2017 su PARADOXAforum


 

Solo i governi autoritari controllano gli atenei

Intervista raccolta da Francesco Borgonovo per La Verità, pubblicata il 21 ottobre 2016

(clicca sulle immagini per facilitare la lettura)

 

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Addio a Bernabei, con la TV unì gli italiani

Non so se la televisione pubblica è la più grande azienda culturale italiana. Non sono neanche sicuro che sia un’azienda propriamente culturale, vale a dire produttrice di cultura. Qualche volta penso che l’Università pubblica dovrebbe essere la principale azienda culturale del paese. Poi, rapidamente, rinsavisco e le fredde cifre, a cominciare dalla distanza abissale fra il numero di coloro che frequentano le università e i molti milioni di telespettatori, mi riportano alla realtà. Mi ricordo anche che la televisione è per telespettatori di tutte le condizioni sociali e di tutte le età e l’università, in Italia più che altrove, continua ad avere squilibri di classe e, naturalmente, tocca soltanto una specifica fascia d’età.

Ecco, Ettore Bernabei, Direttore generale della RAI-TV dal 1961 al 1974, fanfaniano di ferro, tutte queste cose le sapeva benissimo. Fin da subito comprese il potenziale culturale della TV, utilizzando l’aggettivo “culturale” nel senso più ampio possibile, non soltanto la cultura “alta” delle élite, ma soprattutto le conoscenze di base, qui direi delle masse, ma Bernabei mi correggerebbe ricorrendo sia alla parola “pubblico” sia, più semplicemente, al più comprensivo “italiani”. Quello che Bernabei voleva e, costruendolo in una molteplicità di modi, ottenne, fu propria la formazione di una cultura “popolare” diffusa, abbastanza omogenea, di qualità non eccelsa, ma accettabile. D’altronde, se avesse mirato all’eccelso sicuramente non avrebbe raggiunto un pubblico molto ampio. Rilutto ad usare l’espressione “di massa” poiché sembra contenere qualcosa di negativo, di inferiore.

E’ stato spesso scritto che la TV, tra quiz, come “Lascia o raddoppia?”, sceneggiati, spettacoli di varietà, teleromanzi, ha “fatto” gli italiani, vale a dire che ha dato la risposta che Massimo D’Azeglio aveva auspicato subito dopo l’unificazione italiana. Cent’anni dopo la Destra Storica, un democristiano sia per mai nascoste preferenze politiche sia per atteggiamenti e comportamenti che evitavano qualsiasi scontro, conseguiva l’obiettivo di “fare” di un popolo attraversato da differenze di tutti i tipi, a cominciare da quelle regionali, rivelatisi incancellabili, una comunità che dalle Alpi ad Agrigento riusciva, se non a parlare la stessa lingua, almeno a comprenderla.
Quando qualcuno farà un bilancio complessivo, accurato e approfondito, un esercizio sicuramente utile, della TV di Bernabei scoprirà non soltanto la varietà dei programmi che seppe incoraggiare e valorizzare, ma anche la grande apertura ad apporti culturali molto diversi, anche di sinistra, la libertà lasciata a registi ai quali nessuno chiedeva tessere di partito, la possibilità di carriere aziendali non determinate dalla vicinanza a leader politici, nemmeno, esclusivamente a favore di democristiani osservanti (che, però, ovviamente, ci furono, eccome) . In molti modi, il pluralismo culturale e politico era nei fatti e non poteva certamente essere smentito dalle calze imposte alle lunghe e conturbanti gambe delle sorelle Kessler la cui presenza, se posso scherzare, segnalò l’apertura all’Europa, ma fu anche, comunque, parte dello svecchiamento culturale.

Non so se Bernabei si fosse posto come obiettivo anche l’egemonia davvero “nazional-popolare” della Democrazia Cristiana. Fatto sta che proprio nell’anno in cui lasciò la sua carica, la Democrazia Cristiana subì una decisiva sconfitta, politica e culturale, nel referendum sul divorzio. Come dimostrarono altresì le elezioni amministrative del 1975 e le elezioni politiche del 1976, l’Italia era cambiata. Era diventata più moderna, persino più pluralista. Tutti coloro che denunciano l’impatto ottundente della TV, soprattutto quando non riescono a mandare i loro favoriti a dirigere i telegiornali, a elaborare i palinsesti e, da qualche tempo, a condurre i talk show, dovrebbero riflettere sul potenziale autonomo del “mezzo” televisivo e dovrebbero rivalutare, pur nei suoi innegabili limiti, il pluralismo moderato della TV di Stato diretta da Ettore Bernabei.

Pubblicato AGL il 15 agosto 2015

Il consiglio comunale si apra al confronto con i cittadini

Corriere di Bologna

La città soffre di un gravissimo deficit di circolazione di idee, di confronti, di proposte e di soluzioni. Nonostante la presenza della più antica Università del mondo, tuttora a buoni livelli, l’esistenza largamente sottoutilizzata e sottovalutata della Johns Hopkins, la rete di biblioteche di ottimo livello, un effettivo, rumoroso, arricchente dibattito di idee è da tempo quasi inesistente.

La mia proposta è fatta da un insieme di strade da perseguire, un reticolato nel quale a ogni punto sia possibile intervenire. Fare del consiglio comunale un luogo nel quale i cittadini non andranno soltanto in quanto spettatori o disturbatori, ma in quanto proponenti di idee che tutte, a seconda della loro rilevanza, verranno, seppur brevemente, discusse. I Quartieri dovranno darsi strutture non solo di discussione, ma di proposta e di decisione, anche di confronto dialettico con il consiglio comunale. Invece di trattare in maniera più o meno riservata con assessori e sindaco, a tutte le associazioni sarà offerto uno spazio per formulare e argomentare le loro richieste e le loro proposte, per suggerire le loro soluzioni preferite, accompagnate dai costi e dai vantaggi.

Sindaci e rettori non hanno mai saputo, forse neanche voluto, coordinarsi per fare più intensa, più dinamica, più efficace la vita culturale della città. La proposta è che il sindaco solleciti il rettore a fissare ogni anno alcune tematiche e alcune date (il festival della scienza di Flavio Fusi Pecci è stato regolarmente un grande successo).

Insomma, la mia idea è che Bologna dovrà diventare, anche con l’apporto di Isabella Seragnoli, Marino Golinelli e di quel grande imprenditore che è Fabio Roversi Monaco, un punto di riferimento della cultura italiana e Europa. I nomi contano, perché la cultura cammina davvero sulle gambe delle donne e degli uomini.

Pubblicato il 27 Maggio 2016