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Le inafferrabili condizioni per la fine del conflitto @DomaniGiornale

Ascolto e leggo con perplessità e grande preoccupazione tutto quello che viene detto e scritto in maniera non prevenuta e faziosa su come può/deve finire l’aggressione russa all’Ucraina. Nessuno, neppure Xi Jinping, sembra avere abbastanza potere per influenzare le decisioni di Putin, ma, forse, non abbiamo conoscenze sufficienti per sapere e capire che cosa pensa e dice il suo entourage, chi la pensa come lui chi ha dubbi e preferenze diverse. Anche se è certamente più facile analizzare le informazioni disponibili su quel che pensano e vorrebbero gli Europei e gli USA, ho l’impressione che in molti non sia ancora stata raggiunta la consapevolezza che in Ucraina, sull’Ucraina si sta “giocando” non solo la più che legittima, inviolabile sovranità di una democrazia, ma il futuro dell’ordine mondiale internazionale.

   Sicuramente, all’inizio Putin voleva dare una lezione sulla potenza di fuoco della Russia, sul suo status e per il riconoscimento di un ruolo di assoluto rilievo. Oggi, proprio in seguito alle difficoltà incontrate, si è accorto che una sua eventuale vittoria, i cui criteri sono difficili da definire, potrebbe produrre frutti molto più copiosi. Non si tratta solo di ampliare il Lebensraum russo, esito temutissimo da tutti i paesi confinanti, ma di scardinare l’Unione Europea e, mostrando che gli USA non saprebbero come difenderla, rendere più largo l’Atlantico. A quel punto, indirettamente, Putin darebbe ancor più sostegno (im)morale alle mire cinesi su Taiwan.

   La consapevolezza che, in effetti, gli scopi della guerra di Putin sono diventati più ambiziosi e devastanti sta lentamente diffondendosi nelle elite politiche e militari occidentali, appena ritardata dalle loro preferenze contrarie: vorrebbero che non fosse così. La partenza di qualsiasi negoziato è pertanto diventata ancora più improponibile poiché nessuno all’Ovest può accettare un nuovo ordine mondiale che certificherebbe una sconfitta, ideale prima che militare, e che ne esporrebbe tutta la vulnerabilità a qualsiasi richiesta futura della Russia di Putin. In assenza di canali negoziali, non resta che la via di una esposizione trasparente di quanto l’Occidente è, da un lato, impossibilitato a cedere, ovvero, la vita e la terra degli ucraini, e dall’altro, può garantire a Putin, non scrivo russi poiché delle loro preferenze non ho informazioni. Interpreto benevolmente, forse fin troppo, la richiesta personalistica di Macron di salvare la faccia dell’autocrate del Cremlino, purché quella faccia si mostri disponibile ad una tregua negoziale il prima possibile, nell’anniversario dell’inizio dell’operazione speciale militare. Ho già scritto, senza particolare originalità, che chi perde la guerra deve andarsene, ma, nella limitata misura del possibile, saranno i russi a decidere, meglio dopo una cessazione negoziata e definitiva del conflitto.  

Pubblicato il 22 febbraio 2023 su Domani

Le “interferenze” straniere sono un omaggio all’importanza dell’Italia

Sarebbe assolutamente sorprendente se i miei amici che vivono in Inghilterra e hanno apprezzato il cordoglio manifestato dagli italiani per la morte della Regina Elisabetta, che vivono negli USA e si ricordano delle mie preoccupazioni per il tentato colpo di Stato di Trump, che stanno in Germania e a suo tempo ricevettero le mie congratulazioni per la vittoria dei socialdemocratici di Olaf Scholz, non fossero interessati alle elezioni italiane. Con loro, anche in molti altri paesi dell’Unione Europea, in Ucraina e in Russia, i governanti e l’opinione pubblica avvertita stanno riflettendo sulla campagna elettorale italiana e sul grado di attendibilità dei sondaggi, ponendosi più di un interrogativo sulle conseguenze prossime del voto italiano e, naturalmente, sulle caratteristiche politiche e personali di chi andrà al governo in Italia. Tutto questo è inevitabile poiché nell’Unione Europea e nelle organizzazioni internazionali quel governo avrà regolarmente la possibilità di orientare le discussioni e di influenzare le decisioni.

   Non serve a nulla lamentarsi del sostegno dato a Enrico Letta dal socialdemocratico tedesco Scholz e, par condicio, degli auguri fatti da Marine Le Pen a Matteo Salvini che, a suo tempo, si espresse a favore di una sua vittoria nelle elezioni presidenziali francesi. Invece, piuttosto importanti sono altri fenomeni. Da un lato, se provate, stanno le interferenze russe forse anche con finanziamenti a qualche partito italiano. Poiché esistono dei precedenti, quando i russi agirono con successo contro Hillary Clinton, di queste interferenze gli organi preposti e gli stessi partiti, a cominciare da chi ripete “prima gli italiani” dovrebbero preoccuparsi e respingerle. Dall’altro, i rapporti fra leader e partiti, stranieri e italiani, segnalano qualcosa di cui tenere conto per gli elettori interessati che si apprestano a scegliere.     “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” non è soltanto la saggezza in pillole di un proverbio. È anche un invito a valutare con chi i partiti e i dirigenti italiani si rapportano su scala europea (e mondiale). Aggiungo che è altresì la prospettiva alla quale la Commissione Europea non potrà non ricorrere quando si saranno contati i voti e si sarà formato il nuovo governo italiano. Nel Consiglio dei capi di governo europei che deve confermare le sanzioni contro l’Ungheria decise dall’80 per cento degli europarlamentari si troverà Giorgia Meloni, amica del Primo Ministro ungherese Viktor Orbán? Il nuovo Ministro degli Esteri italiano sarà Matteo Salvini le cui posizioni nei confronti della Russia sono quantomeno ambigue? Altri esempi, per esempio, riguardo al Ministro dell’Economia, si potrebbero fare per chiarire quanto significative sono le elezioni italiane per il futuro dell’Europa e dell’Italia in Europa. In un certo senso, la grande attenzione riservata all’Italia può essere considerata un gradevole, gradito omaggio all’importanza del nostro paese. Spetta agli elettori non sciupare questo omaggio.

Pubblicato AGL il 22 settembre 2022

Per un nuovo ordine internazionale liberale #imessagginidipasquino

Neppure “tutti gli uomini del re tutti i cavalli del re” (Alice nel paese delle meraviglie) riusciranno a restaurare il crollato ordine internazionale liberale. L’aggressione russa all’Ucraina gli ha, al tempo stesso, dato il colpo di grazia e costretto l’Unione Europea a venire allo scoperto. Il prossimo ordine internazionale su molto rinnovati valori liberali dovrà fare leva non solo sugli USA, ma anche sull’Europa che trovi modo di coinvolgere l’Africa continente nei confronti del quale ha grandi responsabilità. La Cina, nella sua ascesa diventata più lenta e faticosa, dovrà scegliere: inserirsi e consolidare oppure minacciosamente destabilizzare?

Cosa non si dice sul possibile presidenzialismo. La lezione di Pasquino @formichenews

Presidenzialismo? Per lo più i suoi imperterriti proponenti non sanno di cosa parlano. Comunque, non dicono che cosa vogliono tranne un punto: l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica, che, sia subito chiaro, non è l’elezione del governo, ma, nel migliore dei casi, del capo del governo. Se l’esempio sono gli USA, allora non è neppure vero che si tratta di elezione popolare diretta, fra il voto degli elettori e il Presidente si frappongono i Grandi Elettori. Può succedere che chi vince il voto popolare non conquisti la Presidenza: il democratico Al Gore nel 2000 ebbe 500 mila voti in più di George W. Bush; nel 2016 Hillary Clinton ottenne 3 milioni di voti in più rispetto a Trump. Succede anche che il Presidente eletto non abbia la maggioranza del suo partito in una o in entrambe le camere del Congresso: governo diviso (non “anatra zoppa”). Nella nomina dei suoi ministri (segretari), dunque, nient’affatto eletti/legittimati dal voto popolare, il Presidente USA deve sempre tenere conto delle preferenze dei Senatori che possono confermarli o respingerli.

Giorgia Meloni sembra essersi espressa per il semipresidenzialismo francese, presidente eletto con il 50 per cento più uno oppure dopo un ballottaggio. Se il partito del Presidente oppure la sua coalizione hanno la maggioranza assoluta nell’Assemblea Nazionale, il Presidente nomina il Primo ministro e i ministri, non tutti parlamentari quindi non eletti dal popolo. Se nell’Assemblea nazionale esiste una maggioranza diversa da quella presidenziale, il Presidente dovrà accettare come Primo ministro colui/colei indicato/a da quella maggioranza e i ministri da loro prescelti. È la situazione nota come coabitazione nella quale chi governa è il Primo ministro sicuramente non eletto da popolo. In entrambi i “presidenzialismi”, l’uomo/la donna sola al comando potrebbero essere costretti a fare i conti con Congresso/Parlamento. Sono sicuramente stabili, ma politicamente possono risultare deboli e inefficaci.

    Lascio da parte qualsiasi discussione sui freni e contrappesi, molto differenti fra USA e V Repubblica francese, ma segnalo che nessuna proposta di presidenzialismo merita di essere discussa se non è debitamente accompagnata dalla indicazione del sistema elettorale con il quale verrà eletto il Parlamento. Al momento, ma non da oggi, tutte le vaghe e confuse proposte “presidenzialiste” che sono state avanzate (formulate sarebbe un complimento immeritato) appaiono come terribili scorciatoie miranti ad attribuire e accrescere il potere decisionale del Presidente della Repubblica/capo del governo. Finirebbero fuori strada lasciando pesanti macerie istituzionali.

   Una volta approvata la riforma presidenzialista, Mattarella sarebbe obbligato a dimettersi? Non necessariamente anche perché la riforma potrebbe contenere la clausola che la sua applicabilità inizierebbe al termine del mandato di Mattarella. Ciò detto, da un lato, sono convinto che per ammirevole sensibilità costituzionale, Mattarella annuncerebbe le sue irrevocabili dimissioni un minuto dopo l’approvazione della riforma. Dall’altro, credo che chi fra i sedicenti riformatori presidenzialisti pone il problema del mandare a casa Mattarella segnala di essere personaggio costituzionalmente incolto e screanzato nei confronti del quale è doveroso avere il massimo di diffidenza. Buon Ferragosto parlamentare.

P.S. Dal punto di vista istituzionale e politico, il più forte e autorevole capo di governo al mondo è il Primo Ministro inglese, Margaret Thatcher (1979-1990) e Tony Blair (1997-2007) docent. Eletti in un collegio uninominale, ma leader del partito che ha conquistato la maggioranza assoluta in Parlamento, i Primi ministri del Regno Unito godono di un potere decisionale senza paragoni.     

Pubblicato il 12 agosto 2022 su Formiche.net

Lo strapotere della minoranza che minaccia la democrazia @DomaniGiornale

Pensavo che fosse soprattutto espressione di provincialismo mista con il vanto dell’eccezionalismo (positivo) la mole di articoli e libri su Trump pubblicati dagli studiosi USA. Che la loro fosse una preoccupazione temporanea, agitata ad arte per potere affermare con grande fanfara: “la democrazia della più grande potenza che il mondo abbia mai conosciuto USA ha superato anche la sfida del trumpismo”. Alcune altre democrazie si ripiegano su se stesse, declinano, muoiono. La democrazia americana rimbalza e si rinnova. Seppur uomo bianco anziano il Presidente Biden aprirà una nuova fase. Invece, no. La cancel culture ha mostrato tutti i suoi limiti di cultura e di carenza di elaborazione, il trumpismo ha lasciato un’eredità pesantissima, ma soprattutto sta dimostrando di rappresentare qualcosa di molto profondo nella società americana e le istituzioni scricchiolano. Mai pienamente una democrazia maggioritaria, che Madison non volle, gli USA sono diventati una democrazia minoritaria. Grazie ad alcuni meccanismi, a cominciare dal collegio elettorale per l’elezione del Presidente, i repubblicani, da tempo partito di minoranza fra gli elettori, controllano, anche attraverso masse di denaro dei loro sostenitori, una enorme quantità di potere politico. Per un complesso fortuito di circostanze e per la spregiudicata compattezza dei Senatori repubblicani, il Presidente Trump ha cambiato per almeno un’intera generazione, più di trent’anni, la composizione della Corte Suprema, rendendola non solo la più conservatrice di sempre, ma anche palesemente reazionaria, vale a dire predisposta a fare tornare la società e la cultura indietro di almeno cinquant’anni. Negli Stati che controllano, anche grazie al sostegno degli evangelici e di potentissime lobby, i repubblicani stanno aggredendo il diritto fondamentale e fondante di una democrazia: il voto. Rendere molto più difficile, talvolta quasi impossibile la sua espressione: meno seggi meno ore meno iscritti nelle liste, e metterne sempre, anche preventivamente, in discussione l’esito. Non pochi stati degli USA non soddisferebbero, e non solo perché vi si pratica la pena di morte, i requisiti base di adesione all’Unione Europea, ma per carenza di democrazia elettorale e, talvolta, per eccesso di corruzione politica. L’abolizione della possibilità giuridicamente riconosciuta, garantita e tutelata di ricorrere all’interruzione di gravidanza, non meno grave perché anticipata da indiscrezioni, è il culmine dell’attacco ai settori sociali più deboli, le donne delle classi popolari, le latinas, le donne di colore alle quali mancheranno le reti di sostegno e le risorse e alle quali in buona misura viene negato anche il diritto di voto. La leggendaria città che splende sulla collina sta perdendo la capacità di illuminare e attrarre coloro che nel mondo amano la libertà.

Pubblicato il 26giug2022 su Domani

Lo zar piace a una destra che non capisce la democrazia @DomaniGiornale

La triste delusione nei confronti di Putin dei due principali esponenti del centro-destra italiano è facilmente spiegabile. Pur continuando a controllare e punire la stampa e le giornaliste, avendo chiaramente ottenuto la sottomissione della magistratura che ha regolarmente fatto il suo “dovere” (sic), di recente condannando Alexei Navalny, l’aggressione del leader russo all’Ucraina non è riuscito a fornire la prova cruciale che il suo è un governo/regime di successo. Adesso Salvini spera di evitare ulteriori delusioni chiedendo la fine dell’invio di armi agli ucraini che si difendono. Invece, Berlusconi non riesce a nascondere la sua amarezza. L’amico Putin gli era apparso “un uomo di grande buonsenso, di democrazia, di pace. Forse, ma questa è una mia aggiunta personale che, però, spero condivisa, Putin non ha mai neppure voluto, come Berlusconi, lanciare una grande rivoluzione liberale. Che errore!

   L’incantamento per Putin dei due alleati del centro-destra italiano si accompagna alle critiche agli USA, alla Nato, all’Unione Europea, che provengono da alcuni, minori, ma non troppo, settori della sinistra. Queste critiche sono facilmente spiegabili: un irreprimibile anti-americanismo che sta nelle loro viscere profonde e al quale non riescono ad opporre nessun ragionamento e, magari, lo dirò da professore, nessuna lettura di storia, di relazioni internazionali, di scienza politica. Senza esagerare con la retorica, quello che manca ai Berlusconi e ai Salvini, ma anche ad alcuni esponenti di sinistra e delle Cinque Stelle, è una concezione decente della democrazia. Qui sta la radice dell’illusione berlusconiana (e salviniana) con Putin.

   Nessun “sincero” democratico avrebbe mai espresso apprezzamento e addirittura amicizia per un capo di Stato e di governo autoritario, repressivo, persecutore del dissenso, silenziatore dell’opposizione. Su questo terreno, più precisamente, il funzionamento di un sistema politico e lo spazio della società civile, Berlusconi (con Salvini) dovrebbero interrogarsi. Non basterà loro chiamare come testimoni a discarico quei filosofi e storici di sinistra per i quali le democrazie hanno fallito. Alcuni di costoro riescono addirittura a esercitarsi con concetti screditati da molti decenni, come democrazia autoritaria, e fatti rivivere da dirigenti politici di dubbia democraticità nell’esercizio del potere con modalità e strumenti di natura illiberale.

   Magari un giorno ascolteremo gli amici del capo del Cremlino sostenere che Putin ha fatto anche qualcosa di buono. Vorrà soltanto dire che troppi non avranno ancora capito quale grande conquista è la democrazia anche con le sue inevitabili, ma superabili, inadeguatezze. In nessun modo significherà che è accettabile essere amici e estimatori di coloro che la democrazia la ignorano e mirano a calpestarla.

Pubblicato il 18 maggio 2022 su Domani

Gli ignoranti e le truppe per battere i terroristi @fattoquotidiano

L’exit dall’Afghanistan è stato un disastro, se non addirittura un “crimine” viste le conseguenze su vita e morte di centinaia di migliaia di persone. Ricostruire le motivazioni della entry in Afghanistan del Presidente Bush e dei suoi consiglieri, neo-con e falchi, serve a capire il fallimento. Terribili semplificatori pensarono, da un lato, che era possibile fare la “guerra al terrorismo” con truppe sul territorio, boots on the ground, dell’Afghanistan. Dall’altro, che la loro vittoria avrebbe addirittura portato la democrazia in Iraq, ma anche in Afghanistan. Solo qualche voce isolata si levò negli USA a mettere in questione entrambe le motivazioni-obiettivi. In Europa, ci furono, da un lato, l’anti-americanismo di maniera, dall’altro, in mancanza della capacità di elaborazione politica e strategica l’accettazione del disegno USA. Quanto alla guerra al terrorismo, pochi segnalarono che nessuna guerra ha senso contro un nemico evanescente e imprendibile che si annida dappertutto ed è praticamente impossibile da colpire. I nemici sono più propriamente i terroristi in carne, ossa e cintura di esplosivi intorno alla vita, e, naturalmente le loro organizzazioni. Diventano un obiettivo più facile quando si installano in un territorio. La guerra ai terroristi non richiede dispiegamenti di truppe, ma intensa ed estesa attività di intelligence e capacità di mira quando il terrorista viene individuato. Il successo più grande di questa strategia fu l’eliminazione di Osama Bin Laden nel 2011 in territorio pakistano con un costo molto basso e nessuna perdita USA. In Afghanistan di successi del genere praticamente non se ne sono avuti, mentre le perdite di soldati USA, uno stillicidio, sono state numerosissime. L’attività mirata ad eliminare i capi dei terroristi appare oggi l’unica disponibile e praticabile, quella più promettente di risultati. La guerra al terrore può al massimo continuare ad essere una frase propagandistica ad effetto, ma priva di sostanza e di effetti positivi.

   Al Dipartimento di Stato e altrove nell’Amministrazione Bush, quasi nessuno era sufficientemente preparato ai compiti di State-building e di Nation-building. Molti parlavano di esportazione della democrazia senza sufficienti conoscenze in materia. I riferimenti ai successi in Germania post-nazismo e nel Giappone imperiale erano fondamentalmente sbagliati. In Germania c’erano sinceri democratici sopravvissuti in patria o in esilio che avevano la capacità di dare un apporto decisivo sia alla stesura della Costituzione sia ai comportamenti politici che una democrazia richiede. In Giappone ci furono dieci anni, ripeto dieci, di occupazione militare USA che portarono ad un regime democratico alla legittimità della cui instaurazione contribuì significativamente la figura dell’imperatore. Niente di tutto questo né in Afghanistan né in Iraq.

   Rotti tutti i rapporti con i suoi colleghi al Dipartimento di Stato dove aveva lavorato per circa vent’anni, Fukuyama scrisse che era necessario porsi un obiettivo meno ambizioso della costruzione della democrazia. Bisognava costruire l’ossatura di uno Stato e creare sentimenti di appartenenza alla comunità. Invece, i policy-makers USA preferirono, per ottenere consenso nell’elettorato, definire le loro azioni come democratizzazione che, ovviamente, comincia con le elezioni e si basa su quelle procedure. In verità, qualche attenzione fu indirizzata anche alla costruzione dello Stato: addestramento delle forze di polizia e dei militari, la formazione di una burocrazia, forme di assistenza sanitaria, creazione di scuole. Ma ospedali e scuole spesso erano fatti funzionare da organizzazioni non governative con pochi effetti positivi sulla preparazione di personale afghano all’altezza delle sfide. Lo “Stato” avrebbe anche potuto consolidarsi se non fosse stato per il massiccio ricorso alla corruzione in primis politica, ma anche sociale. Il fenomeno era riconosciuto dagli americani, ma poco combattuto per non indebolire i politici al governo. Errore gravissimo che rese il consenso popolare fragile e dipendente dai privilegi che parte dei cittadini traevano da clientelismo e corruzione. Purtuttavia, qualcosa di positivo è rimasto.

   Quanto alla costruzione della nazione: “fatto l’Afghanistan bisogna fare gli afghanistani”, vale a dire suscitare e valorizzare il sentimento di appartenenza alla stessa comunità e la consapevolezza che stare insieme richiede compromessi e accettazione delle diversità, la presenza di gruppi etnici e religiosi in competizione fra di loro ha reso questo compito praticamente impossibile. Si sarebbe dovuto pensare fin dall’inizio a modalità di power-sharing, di condivisione del potere politico, di governo e di rappresentanza. La majority rule, il governo della maggioranza richiede un grado di omogeneità sociale impensabile in Afghanistan e in Iraq. I talebani si sono imposti con la violenza. Non è affatto detto che finisca qui.

Pubblicato il 2 settembre 2021 su il Fatto Quotidiano

L’occupazione ha fatto emergere anche una società civile afghana @DomaniGiornale

In Afghanistan c’erano le truppe americane, ma anche quelle della NATO nonché i soldati italiani che, notoriamente, svolgono solo missioni umanitarie (sic). Prima, con nessun successo ci furono anche i sovietici, sonoramente costretti a ritirarsi dopo alcuni anni di guerra perdente. In Afghanistan gli USA non andarono per esportare la democrazia (il tentativo fu abbozzato in Iraq un paio d’anni dopo), ma per colpire i terroristi di Al Quaeda e distruggerne i santuari. Ci sono riusciti. La maggior parte del tempo e la maggior parte delle risorse, certo, inopinatamente ingenti, furono destinate a compiti definibili di nation-building, di costruzione di strutture in grado di produrre e mantenere l’ordine politico e sociale. Pur avendo rotto i rapporti (o forse proprio per questo) con i suoi colleghi al Dipartimento di Stato, Fukuyama indicò chiaramente gli obiettivi nel libro da lui curato Nation-Building. Beyond Afghanistan and Iraq (2006): addestrare e equipaggiare le Forze Armate, dotare le principali città di forze di polizia efficienti, dare vita a una burocrazia statale capace di fornire i servizi essenziali e di attuare le decisioni del potere politico, costruire ospedali e scuole, garantire il diritto a libere elezioni. Ma, come ha tanto intelligentemente quanto sarcasticamente scritto uno studioso argentino, Fabián Calle, “il potere del voto non potrà mai essere alla stessa altezza del potere dei messaggeri della volontà di Dio”.

   Quella americana non era, dunque, una “semplice” e criticabile, in effetti talvolta criticata (da chi?), occupazione militare. Non aveva inspiegabili obiettivi territoriali quanto, piuttosto, l’obiettivo, idealistico (proprio così) di fare emergere una società civile, a cominciare dalla libertà per le donne e da un loro ruolo, in uno dei luoghi più impervi al mondo. Parte di questi obiettivi, come rivelano le molti voci di donne terrorizzate dalla prospettiva di ripiombare nella sottomissione violenta ai talebani, erano stati conseguiti. Certo, è giusto andare alla ricerca di una spiegazione del collasso degli apparati statali afghani. Non so se tutta la risposta sta nella enorme corruzione soprattutto dei vertici, ma credo che una nazione e i suoi apparati non siano mai facilmente costruibili laddove i gruppi etnici, a cominciare dai Pashtun ai quali appartengono i talebani, non abbiano nessuna intenzione di giungere a compromessi.

   Chi critica l’occupazione militare USA non dovrebbe oggi, in maniera assolutamente contraddittoria, lamentare il “tradimento” degli USA che ritirano le loro truppe. Forse il segretario generale della NATO ha preventivamente espresso il suo dissenso rispetto alla decisione di Trump attuata da Biden? Si è levata alta e forte la voce di Macron, di Merkel e di Di Maio/Guerini? Nessuno degli analisti ha pre-visto un crollo tanto rapido e capillare quanto quello che in pochi giorni ha consegnato il paese ai Talebani. A furia di azioni umanitarie, le varie missioni europee non si erano mai preoccupate di quanti e quanto armati fossero i talebani? La delega data agli americani per i colloqui “di pace” ha implicato tappare le orecchie e chiudere gli occhi dei cooperanti, dei dirigenti, degli ambasciatori europei presenti e attivi in Afghanistan? Nessuno può mettere in dubbio che, adesso, salvare le vite e il futuro di chi ha collaborato con gli europei e gli italiani, sia l’obiettivo prioritario da perseguire. Non aggiungerò “senza se e senza ma” perché credo sia opportuno interrogarsi se la fuoruscita di tutti gli Afghani e Afghane che hanno lavorato con gli occidentali per un esito molto diverso non finisca per privare il paese proprio delle energie di cui ha più bisogno: quelle di coloro che vogliono un paese decente per donne e uomini, non schiacciato da un credo religioso e da leggi crudeli.

Pubblicato il 18 agosto 2021 su Domani

Quanto succede in Afghanistan ci riguarda tutti

L’Afghanistan è quasi un caso di scuola. Vent’anni dopo l’intervento militare degli USA, della Nato e del contingente italiano, con la non modica spesa di 900 miliardi di dollari, nessuno degli obiettivi è stato raggiunto. Sembra che i talebani, certo aiutati dai pakistani, arriveranno alla capitale Kabul. “L’Occidente” non ha esportato, non dico la democrazia, ma neppure il principio non negoziabile che le donne e i bambini hanno diritti inalienabili. Bisognerà ricominciare in condizioni più difficili dalle scuole, dagli ospedali, dai centri di assistenza. Una sconfitta non facile da ridimensionare e superare.

Democrazia Futura. Cinque domande sul futuro degli Stati Uniti d’America #DemocraziaFutura @Key4biz

a cura di Bruno Somalvico, storico dei media e funzionario presso la Direzione Relazioni Istituzionali della Rai

Domanda. La crescita del divario fra élite e popolo favorita anche dal ruolo rivestito dalla comunicazione virale nei social media va vista dopo il voto del 3 novembre come una crisi di crescita della democrazia e di partecipazione ai suoi riti anche da parte di chi non appartiene all’establishment tradizionale, o come un mero moltiplicatore delle fratture in atto prodotte anche dalla frammentazione della sfera pubblica e dalle post verità?

Gianfranco Pasquino
Difficile dire con certezza che il divario fra élite e popolo sia cresciuto Certamente sono cresciute le diseguaglianze economiche e si stanno accentuando quelle sociali e culturali. Però, non è una crisi di “crescita” della democrazia. Ė un segnale potentissimo con radici profonde negli Stati Uniti, mai una democrazia orientata all’eguaglianza. Fortemente competitiva, piuttosto meritocratica, non sufficientemente desiderosa né capace di garantire opportunità, gli USA hanno, solo in parte, però, preso atto di problemi che non sanno risolvere. Lo dirò così, seccamente: un Afro-Americano alla Casa Bianca per otto anni e gli Afro-Americani vivono in una delle peggiori fasi della loro storia. Black Lives Do not Matter. C’è moltissimo da fare.

D. Il sistema elettorale statunitense tiene? O il lungo e complesso meccanismo che porta all’elezione (selezione dei candidati nelle primarie, successiva scelta fra i candidati in due tappe: elezione a suffragio universale dei grandi elettori rappresentanti dei singoli stati e infine elezione del presidente da un collegio elettorale ristretto) necessita di qualche modifica? Per evitare lo strappo di Trump che aizza i propri elettori prima contro il simbolo dell’establishment Hillary Clinton poi contro i brogli elettorali va cambiato qualcosa?

G. P.
Il problema si chiama voter suppression e ricomprende sia tutte le modalità usate dalle maggioranze repubblicane negli Stati e nella Corte Suprema per rendere difficile/impossibile agli Afro-Americani e ai Latinos il semplice esercizio del diritto di voto sia le odiose pratiche del gerrymanderingPerò, qui è anche il caso di sottolineare che negli Stati Uniti a differenza di qualsiasi altra democrazia al mondo, il denaro influenza in maniera potentissima tutti i procedimenti elettorali, prima, e tutte le politiche pubbliche, dopo. Grazie alla sentenza della Corte Suprema del 21 gennaio 2010 “Citizens United versus Federal Election Commission” il potere dei grandi ricchi è stato istituzionalizzato in maniera devastante

D. Gli effetti della globalizzazione sul ridisegno del centro e delle periferie degli Stati Uniti d’America. Che responsabilità rivestono le nuove élite tecnologico tecnocratiche che controllano le piattaforme nel favorire la frammentazione dell’opinione pubblica e la reazione sovranista di ceti medi e rurali sempre più emarginati e soggetti a fenomeni di pauperizzazione?

G. P.
L’opinione pubblica si frammenta da sé. Solo le società molto tradizionali sono relativamente coese o forzosamente compattate. Le opinioni pubbliche contemporanee sono “naturalmente” frammentate. Neanche le élite tecnologico tecnocratiche sanno come dominarle e nessuno sa come ricomporle. Qualcuno pensa che le opinioni pubbliche scomposte sono più manipolabili. Non ne sarei sicuro. Quelli che vivono nel Wyoming non si fanno influenzare da quelli che vivono nel Bronx e quelli di Affrico la pensano molto diversamente da quelli di Zagarolo.

D. Vengono meno i principi fondamentali che hanno funto da collante per gli Stati Uniti? E’ finito anche dopo il melting pot anche il salade bowl, ovvero il piatto comune che teneva insieme la società multirazziale in nome dei principi jefferssoniani?. O vengono meno solo i valori politicamente corretti dell’era obamiana?. No, we can’t.

G. P.
Quei principi fondamentali vanno riesaminati, ripensati, ridefiniti. Non saprei più a chi attribuire la lenta sovversione di quei principi, ma certo i Democratici del Sud sono stati molto influenti e alcuni presidenti repubblicani a partire da Reagan hanno fatto del loro peggio. Credo che sia sempre possibile cambiare e migliorare. La questione è quanto tempo e quali costi e soprattutto chi. Yes, some of us will.

D. La “marcetta sul Campidoglio” – come è stata definita in un commento su una testata televisiva nazionale italiana – e il suprematismo bianco sono un fenomeno marginale tragicomico a sostegno di un uomo ridicolo o una tragedia shakesperiana di una società americana che non ha ancora elaborato il lutto dell’11 settembre? E che non accetta di condividere le regole della globalizzazione con le altre grandi potenze?

G. P.
Non penso che protagonista sia il lutto dell’11 settembre. A mio parere la globalizzazione non c’entra quasi niente. Siamo di fronte al vero, grande, irrisolto problema americano. Gli Stati Uniti nascono e prosperano sulla schiavitù. Il suprematismo bianco che, in parte economico e sociale in parte culturale, non è mai venuto meno. Permea ampi settori non soltanto dei bianchi delle classi popolari. Il suo superamento non avverrà abbattendo statue, ma attraverso un profondo ripensamento culturale e soprattutto grazie a cambiamenti demografici che sono già in corso. Quella marcetta sul Campidoglio ad opera delle faccette bianche è qualcosa di tremendamente politico da non dimenticare. Una scena gravissima con radici profonde (e 74 milioni di voti).

Pubblicato in forma integrale il 31 marzo 2021 su key4biz.it

Cinque domande sul futuro degli Stati Uniti d’America rivolte da Bruno Somalvico ad alcuni collaboratori di Democrazia Futura alle quali hanno risposto Massimo de Angelis, Antonio Di Bella, Giampiero Gramaglia, Erik Lambert, Giacomo Mazzone, Andrea Melodia, Gianfranco Pasquino, Carlo Rognoni e il giornalista e massmediologo italo americano Dom Serafini.