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Le sfide della Presidenza Biden. Gli Stati Uniti, l’Europa, il mondo #webinar #27gennaio ore 21


introduce Francesco Ruscelli
interventi:
Marina Sereni
Gianfranco Pasquino
L’incontro si terrà in conference call sulla piattaforma LIFESIZE

Cose che so sugli USA e la loro democrazia

La prima cosa che so è che, da tempo, prima di Trump, con frequenza e costanza, non pochi studiosi americani, storici, sociologi, politologi hanno criticato, anche severamente, lo stato della democrazia negli USA. So anche, però, che la critica al razzismo non è mai stata centrale ovvero tanto centrale quanto avrebbe dovuto e dovrebbe ancor di più essere in questi anni. Non voglio fare graduatorie, ma trovo assolutamente meritorio il lavoro fatto nell’ultimo decennio da Jill Lepore (These Truths. A History of the United States, 2018). Suggerirei anche di tornare alla ricerca coordinata e curata dall’economista svedese Premio Nobel Gunnar Myrdal, An American Dilemma. The Negro Problem and Modern Democracy (1944). Però, il problema non è “il negro”, ma sono i suprematisti bianchi. Nella folla degli assaltatori al Congresso, sovraeccitati da un uomo bianco supersuprematista alla Casa Bianca, non ho visto neppure una persona di colore. Nelle carceri USA i detenuti di colore sono il 60 per cento del totale. I neri rappresentano poco meno del 13 per cento della popolazione.

La seconda cosa che so è che non è vero, come molti hanno scritto, che la democrazia USA è la più grande, la più importante, implicitamente la migliore democrazia al mondo. Non lo è probabilmente mai stata. Quasi sicuramente, ma qualche inglese obietterebbe, è stata la prima democrazia, ma da tempo non è la più grande (con riferimento ai numeri ben più grande è l’India) e, se importante, vuol dire migliore, i dati di Freedom House e quelli della Intelligence Unit dell’Economist dicono che nelle rispettive graduatorie, gli USA si collocano rispettivamente al 30esimo e al 25 posto. Nella classifica dell’Economist l’Italia è 35esima.

La terza cosa che so è che proprio nell’ambito dei diritti la democrazia USA è sempre stata piuttosto carente, a partire, come ho già detto, dalla condizione dei neri. Mi limito a segnalare che l’uscita formale dalla segregazione è del 1954. Il Civil Rights Act è del 1964 e il Voting Rights Act è del 1965, ma quantomeno da una ventina d’anni un po’ dappertutto a partire dagli stati del Sud e, più in generale, dove governano i Repubblicani intensa e incessante è la pratica nota come voter suppression che ha sostanzialmente di mira i non-bianchi, ma soprattutto i neri e, in parte, i latinos, per impedirne l’esercizio del diritto di voto.

La quarta cosa che so è che il diritto di voto è il più importante diritto politico, un vero spartiacque. Quindi, coloro che non riescono a votare perdono la opportunità/capacità di scegliere chi viene eletto e di influenzare le sue politiche. Mentre dappertutto nell’Unione Europea e in altri stati democratici del Vecchio Continente sono riconosciuti, rispettati e messi all’opera i diritti sociali, negli USA persino una riforma importante, ma non “universale”, come l’ObamaCare, continua ad essere oggetto di scontri durissimi con i Repubblicani che hanno tentato pervicacemente di sabotarla e persino di abolirla. Qui si innesta la quinta cosa che so.

   Gli USA sono gradualmente diventati la democrazia che ha (e che tollera) le più grandi diseguaglianze economiche e sociali al mondo. Sono diseguaglianze cresciute in maniera clamorosa negli ultimi trent’anni. Sono diseguaglianze che molti americani ritengono non soltanto inevitabili, ma collegate in qualche modo al merito, al duro lavoro, all’impegno personale e, di converso, attribuite all’indolenza e carenza di capacità per chi sta in fondo alla scala sociale. Troppo spesso gli osservatori non colgono il nesso fra ricchezza personale e influenza politica e fra povertà e non-partecipazione, nesso che, naturalmente, perpetua e addirittura accresce le diseguaglianze. Tutte le cose che so convergono su una considerazione importante. L’assalto del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill è stato sconfitto. Seppure a fatica, le istituzioni USA hanno retto (e, prima, i procedimenti elettorali si sono rivelati free and fair). La Corte Suprema, pure imbottita di giudici nominati da Trump, non ha dato nessun ascolto agli eversori. Il Congresso ha ratificato l’esito del voto dopo un dibattito svoltosi secondo le regole. Insomma, la democrazia non si è piegata, non è affatto scivolata all’indietro. Ritengo che sia profondamente sbagliato affermare che la democrazia USA è in crisi. C’è stata una sfida gravissima proveniente dall’interno della democrazia. È stata respinta e sconfitta. Certo, però, la società e la politica USA hanno molto da lavorare per migliorare l’attualmente non buona qualità della democrazia. Da tempo, la democrazia americana non abita più in “una città scintillante sulla collina”, ma democrazia rimane, in grado di apprendere, resistere, cambiare.

Pubblicato il 11 gennaio 2021 su PARADOXAforum.com

Davvero c’è una crisi della democrazia? Solo le democrazie dimostrano capacità di adattamento e di risposta alle sfide, solo le democrazie sanno riformarsi

Troppo occupati a parlare della crisi “epocale” della democrazia, gli analisti non hanno dedicato abbastanza attenzione a quello che succede nelle democrazie realmente esistenti. Dal 21 febbraio a oggi nessuna protesta significativa (tranne in Francia ma era il seguito di qualcosa), nessun tumultuoso cambio di governo, libere elezioni con la meritata sconfitta di Trump. Le democrazie reali si informano, imparano si riformano.

Contare i voti, salvare l’anima degli USA

Almeno una previsione pre-elettorale è risultata corretta: il conteggio dei voti per l’elezione presidenziale USA è in effetti già molto lungo e angosciante. Entrambi i candidati si sono frettolosamente dichiarati vincitori. Trump ha addirittura sottolineato di avere vinto “alla grande” aggiungendo che stanno cercando di rubargli la vittoria e preannunciando un ricorso alla Corte Suprema dove, grazie ai tre giudici da lui stesso nominati, gode di una maggioranza confortevole. La situazione è delicatissima poiché riguarda le condizioni della democrazia negli Stati Uniti e, da non dimenticare, le sue possibili conseguenze sul resto del mondo.

   Sarebbe sbagliato attribuire all’intero sistema istituzionale della Repubblica presidenziale gli inconvenienti elettorali e i problemi politici ai quali stiamo assistendo con grande preoccupazione. Le modalità con le quali votare, ad esempio, il voto postale, e i tempi e i modi del conteggio sono determinati dagli Stati. Questa è una delle implicazioni del federalismo che consente una varietà di soluzioni fino a quando non sarà una legge federale a stabilire l’uniformità. Qui sta il problema politico poiché i repubblicani dispongono tuttora di maggioranze nelle assemblee rappresentative di trentacinque stati su cinquanta. Quindi, si opporranno a qualsiasi richiesta di uniformità nella legislazione elettorale.

   Vinca oppure no Trump non avrà comunque ottenuto, come nel 2016, una maggioranza del voto popolare. Continueranno ad essere i Grandi Elettori designati in ciascuno degli Stati a decidere il vincitore. Anche questa è una conseguenza del federalismo. Per rassicurare gli Stati piccoli in termini di popolazione che non sarebbero stati schiacciati dagli Stati grandi i Costituenti sancirono che vincere la Presidenza avrebbe richiesto una convergenza fra più Stati e che i piccoli non sarebbero risultati emarginati. Soltanto con un emendamento alla Costituzione si potrebbe stabilire l’elezione popolare diretta del Presidente, ma qualsiasi emendamento costituzionale richiede l’approvazione ad opera di tre quarti delle assemblee statali, un quorum irraggiungibile per i democratici.

   Ciò detto, l’elemento politico più importante per spiegare il (cattivo) funzionamento della democrazia USA è rappresentato dalla radicalizzazione a destra del Partito repubblicano da più di vent’anni. Consapevoli di essere oramai diventati minoranza nel paese, ma non negli Stati del Sud e, in parte, del Midwest, difendono con le unghie e con i denti le loro posizioni. Disciplinatamente e senza nessuna concessione, approfittando dell’eterogeneità dei Democratici, sono finora riusciti ad esercitare un potere sproporzionato. Conquistata la Corte Suprema per un lungo periodo di tempo poiché i giudici rimangono in carica a vita, i repubblicani potranno cancellare la riforma sanitaria di Obama e rendere praticamente impossibile l’interruzione della gravidanza. La posta in gioco dell’esasperante conteggio di qualche milione di voti già difficoltosamente espressi è l’anima della società americana.

Pubblicato AGL il 5 novembre 2020

USA: Verso elezioni cruciali anche perché si rinnoverà un terzo dei senatori

Molto probabilmente Trump non sarà rieletto il 3 novembre. Quasi sicuramente otterrà molti meno voti di Biden. Già Hillary Clinton conquistò tre milioni di voti più di lui. Cercherà comunque di mettere in questione l’esito del voto con gravi conseguenze per la democrazia USA. Lo farà nella convinzione che, se dovesse essere chiamata in causa, la Corte Suprema troverà il modo di dargli ragione come nel dicembre del 2000 quando con 5 voti a 4 consegnò la Presidenza a George Bush.

Per un insieme di circostanze e di convenienze la Corte Suprema è diventata una protagonista assoluta nella Repubblica presidenziale USA. Trump ha goduto della opportunità inusitata di riuscire a nominare addirittura tre giudici nei suoi quattro anni alla Casa Bianca e, di vederli rapidamente confermati dalla maggioranza repubblicana al Senato. Anticipo il verdetto positivo su Amy Coney Barrett (nella speranza di essere smentito) con la cui conferma la Corte sarà composta da sei giudici nominati dai repubblicani e tre dai progressisti. È interessante sottolineare che cinque di quei giudici sono stati sponsorizzati dalla potente associazione conservatrice The Federalist Society che sostiene un’interpretazione “letterale” della Costituzione come fu scritta senza nessun riguardo per tempi e luoghi notevolmente cambiati.

Poiché I giudici rimangono in carica a vita, Trump ha la garanzia che per i prossimi trent’annni la maggioranza non cambierà. I giudici da lui nominati hanno rispettivamente Gorsuch 53 anni, Kavanaugh 55 e Barrett 48. Possono procedere all’abolizione totale, imperiosa richiesta, finora frustrata, dei repubblicani, della riforma sanitaria di Obama. Potranno anche restringere ulteriormente i criteri per consentire l’interruzione della gravidanza. Certamente, non si occuperanno di garantire il diritto al voto che la maggioranza delle 35 assemblee legislative degli Stati controllati dai repubblicani manipolano e fortemente limitano. Insomma, quello che non ha potuto/saputo fare la politica (di Trump) la Corte Suprema riuscirebbe a conseguire anche in tempi relativamente brevi.

Questa regressione culturale e sociale è molto temuta dai Democratici del tutto consapevoli che al loro eventuale Presidente non spetterà nessuna nomina per molti anni. Fin d’ora hanno pensato e reso pubblica la loro intenzione di aumentare il numero dei giudici portandolo a 11 di modo che potranno nominare due giudici. Vorrebbero anche ridurre la durata della carica a diciotto anni. Tutto questo è giuridicamente accettabile poiché numero dei giudici e loro durata non sono inscritti nella Costituzione, ma si trovano in una legge approvata un secolo fa dal Congresso. Politicamente, però, i Democratici hanno assoluto bisogno di conquistare la maggioranza al Senato. Anche per questa ragione, le elezioni del 3 novembre, nelle quali si rinnoverà un terzo dei senatori (35) sono particolarmente importanti, sostanzialmente cruciali per la qualità della democrazia USA.

Pubblicato AGL il 15 ottobre 2020

Un punto di svolta che potrebbe cambiare la storia degli Stati Uniti

Avevamo sempre pensato che la legittimazione e la funzionalità delle istituzioni anglosassoni nascessero e derivassero da un principio limpido: checks and balances, ovvero freni e contrappesi. Adesso, tutti gli estimatori italiani del presidenzialismo USA dovrebbero essere preoccupatissimi. Con le dimissioni dell’ottantaduenne giudice Anthony Kennedy, al Presidente Trump si offre l’opportunità di dare alla Corte Suprema una maggioranza repubblicana di 6 giudici a 3 destinata a durare per più di una generazione. Presidente quasi repubblicano, Congresso a maggioranza repubblicana, Corte Suprema repubblicanizzata: bye bye, cari rassicuranti freni e contrappesi.

VIDEO Trump e noi. Culture e ideologie a cento giorni dall’insediamento del presidente USA

VIDEO

Lugano, 27 aprile 2017
RSI Rete 2 Svizzera
Moby Dick Edizione speciale

Comparare democrazie e autocrazie: un errore grossolano non una questione di opinione

Chi sta sdraiato su pagine di giornali, su amache, su luoghi comuni, non potrà mai dare lezioni di democrazia. Meno che mai se la sua comparazione va dalla democrazia presidenziale USA alla autocrazia turca. Meglio uscire al più presto dalle comparazioni avventate e qualunquiste. Chi può.

Scegliere il segretario, non destabilizzare il governo

Quello che succede nel Partito Democratico e nei suoi dintorni è oggettivamente importante per due ragioni. Prima ragione: anche se i dirigenti dem, a partire dal suo segretario, fanno di tutto per smembrarlo, il PD è ancora, non si sa per quanto tempo, l’unico partito meritevole di questo nome nel sistema politico italiano. Il suo indebolimento si rifletterebbe/rifletterà negativamente su tutto il sistema. Seconda ragione: il PD è l’asse portante del governo presieduto da un suo esponente. Se le convulsioni del PD diventano gravi la caduta del governo è quasi certa. Dunque, prima il PD in qualche modo si riassesta, anche se ridimensionato, meglio sarà un po’ per tutti. Per l’eventuale riassestamento bisognerà aspettare almeno un paio di mesi. Usando una terminologia sbagliata, che non compare nello Statuto del partito, ma che è stata adottata da tutti gli operatori dei media, le procedure con le quali sarà eletto il prossimo segretario del PD vengono chiamate “primarie”. sbagliato. Grande innovazione politica, le primarie servono a consentire agli elettori di scegliere le candidature alle cariche elettive monocratiche, di governo o di rappresentanza: negli USA il Presidente della Repubblica, i Governatori degli Stati, Senatori e Rappresentanti; in Italia, i sindaci, i Presidenti delle Regioni, il Presidente del Consiglio.

L’elezione del segretario di un partito non è affatto una primaria. È una votazione aperta anche ai non iscritti per la scelta di quella specifica carica che finisce lì, per l’appunto con la vittoria di un candidato. Per quel che riguarda il PD, l’elezione potrebbe addirittura essere decisa, non da chi è andato a votare, ma, se nessuno dei candidati ottiene la maggioranza assoluta, dall’Assemblea dei delegati, con una logica contraria al principio fondamentale delle primarie che consiste nell’attribuire il potere di scelta, senza nessuna mediazione, agli elettori. Allora, perché insistere, da parte anche degli stessi Democratici compresi, in un grave, imperdonabile errore terminologico

Seppure molto criticate dai giornalisti, le primarie, quelle vere, sono comunque uno strumento di democrazia che sposta potere dalle élite partitiche ai cittadini, che potranno compiere una delle operazioni politiche più importanti: selezionare le candidature, eventualmente anche per il Parlamento. Persino Grillo lanciò, seppur malamente, le primarie per le candidature del Movimento Cinque Stelle al parlamento, chiamandole “parlamentarie” e scimmiottando il PD che le aveva fatte in maniera non proprio limpidissima. Dal 2005 a oggi il PD ha tenuto quasi mille primarie, delle quali appena una decina contestate, in quasi tutta Italia. Contrariamente a quel che si dice, i candidati del PD hanno vinto tra il 75 e l’80 per cento dei casi e una percentuale simile ha poi vinto anche la carica in gioco.

L’idea-obiettivo di coinvolgere molte centinaia di migliaia di cittadini nella selezione delle candidature è apprezzabile in special modo in Italia dove i partiti e anche i non-partiti sono tutt’altro che associazioni democratiche, come avrebbero voluto i Costituenti che scrissero l’art. 49. Chiamare primarie l’elezione del segretario del Partito Democratico è un omaggio alle primarie “vere”, ma serve soprattutto a dare maggiore legittimità a un procedimento che, invece, è ancora fortemente controllato dai dirigenti. Aprire le votazioni a tutti coloro che dichiareranno di voler sostenere il programma del PD e verseranno due euro e consentire due mesi di campagna elettorale, indispensabili a Michele Emiliano e Andrea Orlando, gli sfidanti di Renzi, per fare circolare le loro idee, sono decisioni che garantiscono una competizione non troppo squilibrata a favore del segretario dimissionario. Adesso è auspicabile che tutti i candidati, ex-segretario compreso, spieghino come desiderano ristrutturare il Partito Democratico, non le politiche che attuerebbero come capi del governo. Lo faranno dopo lo scioglimento del Parlamento, alla conclusione naturale di questa legislatura. Sarebbe molto grave se il primo atto politico del prossimo segretario del PD fosse quello di dare una fulminea spallata contro il governo del PD per ragioni egoistiche di carriera.

Pubblicato AGL 27 febbraio 2017

La leggenda della crisi della democrazia

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Articolo pubblicato sul n. 118 del mensile “Formiche”, con il titolo Democrazia contro crisi delle democrazie (pp. 62-63).

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Quando si parla di “crisi” con riferimento alle democrazie bisogna effettuare e mantenere fermissima una distinzione preliminare, che è cruciale, fra crisi della democrazia e crisi nelle democrazie. Sarò perentorio: non c’è nessuna crisi della democrazia in quanto regime che offre ai cittadini elezioni libere, eque, competitive con le quali scegliere e sconfiggere rappresentanti e governanti e che protegge, promuove e garantisce i diritti delle persone, da quelli dei bambini a quelli delle donne, da quelli degli anziani a quelli dei disabili, a quelli dei migranti. Certo, queste democrazie, che chiamiamo liberal-costituzionali rappresentano una netta minoranza dei regimi politici esistenti, non più di trentacinque, al massimo, generosamente, quaranta. Però, dappertutto nel mondo, dal Venezuela allo Zimbabwe, ci sono uomini e donne che lottano, vengono malmenati, messi in prigione, rischiano la vita e spesso la perdono proprio in nome di quella democrazia delle regole e dei diritti. Nessuno di loro può permettersi il lusso fra un vernissage e un concerto, fra una sfilata di moda e una gita in barca, di sostenere che la democrazia è in crisi. Il modello democratico di rapporti fra cittadini e autorità, di partecipazione nelle istituzioni e contro di loro, di conquista, di esercizio e di distribuzione del potere, costruito in un paio di secoli e faticosamente perfezionato, è vivo, valido, imitabile. Nessuna crisi della democrazia, anzi, a giudicare dalla sua espansione negli ultimi trent’anni, grande capacità attrattiva.

Invece, esistono, eccome, difficoltà, problemi, inconvenienti, sfide che, volendo, possiamo anche chiamare “crisi”, all’interno delle democrazie realmente esistenti. Non sarò così altezzoso, così professorone da lasciare le lancinanti preoccupazioni sul futuro delle nostre democrazie agli attempati nouveaux philosophes, ai tardissimi francofortesi, agli accigliati editorialisti del “Corriere della Sera” e de “la Repubblica, tutti maestri delle aggettivazioni, e neppure agli scettici intellettuali latino-americani, sempre parte del problema, mai disposti a cercare le soluzioni. Indico, qui, quelle che mi paiono le difficoltà più visibili nel funzionamento delle democrazie contemporanee.

La prima mi pare chiarissima. Avendo avuto successo nella loro vita professionale, molti cittadini non pensano di dovere contribuire alla vita pubblica poiché sono convinti che le decisioni politiche incideranno poco sul loro lavoro, sul loro prestigio, sul loro denaro. Sì, l’individualismo egoista è un problema di non poche democrazie contemporanee. Si accompagna al e accompagna il declino, con tutte le differenze dei vari casi e contesti, dei partiti politici e, più in generale, delle associazioni che, come dovremmo tutti ricordare, sono considerate, da Tocqueville in poi, la spina dorsale delle democrazie. Chi va a giocare a bowling da solo difficilmente andrà ad un dibattito politico, svolgerà azione sindacale, parteciperà alla vita di associazioni di volontariato. Calmiererà la sua coscienza facendo donazioni con il sistema PayPal e via con il suo lavoro. Non riuscirà mai ad essere “felice”, come ha notato con grande acume Albert O. Hirschman, ma se non conosce il lato positivo dell’impegno democratico, non sarà neppure troppo infelice, pur nella sua inutilità “democratica”. È in queste persone, cresciute di numero e di influenza sociale in tutte le democrazie consolidate che, più o meno dormienti, si annidano i batteri dell’antipolitica. Anche, ma non solo, de Italia fabula narratur.

So che il lettore mi sta aspettando al varco, vale a dire alle forche caudine del populismo. È la sfida populista la minaccia più grande e più grave alle democrazie realmente esistenti? Sono i populisti che sotterreranno i regimi democratici (a cominciare da una, peraltro sempre più improbabile vittoria di Trump negli USA), ma anche l’Unione Europea? Tutto al futuro poiché il populismo, tranne due o tre eccezioni latino-americane, non ha vinto da nessuna parte. Con Yves Mény e Yves Surel, autori di un bel libro (ndr Par le peuple, pour le peuple. Le populisme et les démocraties), dirò che il populismo non può essere espunto da nessuna democrazia. Se dalle democrazie si toglie il popolo, il demos rimane il kratos che non ha mai propensioni democratiche. Una striscia di populismo sta in tutti i regimi democratici, a cominciare dal governo di Lincoln “dal popolo, del popolo, per il popolo”. Può pericolosamente ingrossarsi laddove, in assenza di associazioni intermedie o per loro debolezza, qualcuno riesca a fare appello ad un popolo disorganizzato, indifferenziato, desideroso di una rappresentanza facile e non esigente.

Non manderò nessun messaggio di redenzione e di salvezza. Chi non ha ancora capito che i populisti offrono soltanto promesse di sollievo temporaneo, che giovano al leader e ai suoi collaboratori/collaboratrici, è politicamente malmesso. Costruendo con pazienza e competenza associazioni e istituzioni, diventa possibile tenere a bada qualsiasi insorgenza populistica. Forse, oggi, l’insorgenza deve trovare una risposta europea anche se i populisti sono sempre leader molto provinciali. Chi non vuole costruire una democrazia europea, a partire dall’Unione, lascia ampi spazi ai populismi nazionali. Per tornare al punto di partenza, la crisi non è, comunque, della democrazia, ma nelle democrazie, nei loro cittadini incolti, pigri, egoisti.