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La rappresentanza politica esiste dove gli elettori hanno potere @DomaniGiornale
Invece di ricorrere a improbabili non divertenti e assolutamente insignificanti parole latine per definire la bozza della prossima legge elettorale, sarebbe molto più utile che i commentatori ne spiegassero e valutassero le caratteristiche. Dire che in Commissione Affari Istituzionali si discute del Brescellum (perché il cognome del Presidente della Commissione è Brescia), ma si intrattiene anche l’idea del Germanicum o, peggio, del Tedeschellum poiché la legge potrebbe avere una soglia d’accesso al Parlamento del 5 per cento (attendo lo Svedesellum se la soglia sarà del 4 per cento come in Svezia), non serve a informare correttamente nessuno. Annunciare che “ritorniamo” alla proporzionale (con grande scandalo di coloro che temono che l’Italia s’incammini verso una Weimar da loro immaginata) senza ricordare che l’attuale legge Rosato è già 2/3 proporzionale e 1/3 maggioritaria, è una manipolazione. Non spiegare che il non precisato maggioritario che vorrebbe il leader di Italia Viva non ha niente a che vedere con le leggi maggioritarie inglese e francese, entrambe in collegi uninominali, la prima a turno unico, la seconda a doppio turno, è un’altra brutta manipolazione. Infatti, almeno a parole Renzi vorrebbe qualcosa di simile al suo amato Italicum: un premio di maggioranza innestato su una legge proporzionale che gli consentirebbe trattative a tutto campo.
Fintantoché nessuno dirà con chiarezza, e sosterrà con coerenza, che le leggi elettorali si scrivono non per salvare i partiti e per garantire i seggi dei loro dirigenti, ma per dare buona rappresentanza politica agli elettori, non sarà possibile scrivere una legge elettorale decente. Quando leggo nel titolo di grande rilievo dell’intervista rilasciata da Sabino Cassese al “Domani” che : “l’attuale classe politica non è all’altezza di governare”, mi sorgono spontanee (sic) tre domande: 1. come è stata reclutata l’attuale classe politica? Che c’entri qualcosa anche la legge elettorale? 2. dove e come troverebbe l’astuto professor Cassese una classe politica migliore, all’altezza? 3. che sia necessaria una legge elettorale diversa per porre le premesse del miglioramento della classe politica? Poi mi vengono in mente tutti coloro che, saputelli e arrogantelli, dicono che non esiste una legge elettorale perfetta, magari mentre vanno in giro criticando il bicameralismo italiano proprio perché “perfetto” (non lo è).
La classe politica migliore verrà, da un lato, dalla competizione vera fra partiti e fra candidati, proprio quello che la legge Rosato non può offrire, e dalla possibilità per gli elettori scegliere davvero fra partiti, ma anche fra candidati/e non nominati non paracadutati. Se il collegio è uninominale (e la legge maggioritaria), no problem: gli elettori valuteranno anche i candidati, la loro personalità, la loro esperienza, la loro competenza. Se la legge è proporzionale, la lista delle candidature non deve essere bloccata e agli elettori bisogna assolutamente garantire la possibilità di esprimere un voto di preferenza (perché non due lo spiegherò un’altra volta). Trovo, da un lato, risibili, dall’altro, prova sicura di ignoranza profonda, dall’altro, ancora, offensiva per la grande maggioranza degli elettori italiani, sostenere, come viene spesso fatto, che il voto di preferenza apre la strada alla mafia e alla corruzione. Oggi esiste una Commissione parlamentare che serve a individuare preventivamente quali sono le candidature impresentabili e c’è una Legge Severino che punisce severamente la corruzione. La mafia e la corruzione non si combattono, e meno che mai si vincono, sottraendo agli elettori la possibilità di scegliere il loro candidato/a e non consentendo ai candidati/e di andare a cercarsi quei voti, interloquendo con gli elettori per farsi eleggere, e di tornare da quegli elettori per ottenere la rielezione spiegando il fatto, il non fatto, il malfatto. Dunque, le leggi elettorali si valutano in base alla possibilità di stabilire e mantenere un legame di rappresentanza politica fra elettori e candidati attraverso il collegio uninominale oppure il voto di preferenza e dando per l’appunto agli elettori il potere di scegliere. Non mi pare proprio che queste esigenze siano tenute in conto in Commissione alla Camera. Credo che almeno i commentatori (e qualche professore di Scienza politica non servo del suo partito di riferimento) dovrebbero farne tesoro o, quantomeno, tenerle presenti e discuterne.
Pubblicato il 8 dicembre 2020 su Domani
Il dopo referendum – E ora il potere torni agli elettori
Quali sono le conseguenze del referendum costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari? Abbiamo chiesto a Gianfranco Pasquino*, docente di Scienza politica, una riflessione intorno alle decisioni politico-istituzionali necessarie per riconsegnare ai cittadini il potere di scelta dei rappresentanti.
da LiberEtà novembre 2020 (pp. 24-27)
Il risultato del referendum del 20 e 21 settembre segna una tappa, a mio parere, non gloriosa, dell’antiparlamentarismo strisciante italiano la cui bandiera è stata sventolata dal Movimento 5 Stelle. Al tempo stesso, potrebbe diventare l’inizio di un processo riformatore indefinito nella quantità di riforme elettorali e istituzionali e nella sua qualità. Tuttavia, non è affatto scontato che quello che si prospetta di fare sia preferibile a quello che già sta scritto nella Costituzione e che condurrà a migliorare il funzionamento del sistema politico italiano e della qualità della democrazia. Significativamente ridimensionati, i parlamentari italiani avranno certamente delle difficoltà sui due versanti nei quali esplicano i loro compiti essenziali che, in una democrazia parlamentare, sono due: dare rappresentanza politica ai cittadini e controllare l’operato del governo.
Sul primo versante, il Movimento 5 Stelle e, soprattutto, il Partito Democratico hanno annunciato il loro impegno alla formulazione di una nuova legge elettorale di tipo proporzionale. Poiché di leggi proporzionali ne esistono numerose varianti, sarebbe opportuno porre, come direbbero i poco fantasiosi politici, dei paletti. Al di là della formula prescelta, la nuova legge dovrebbe consentire l’espressione di un voto di preferenza e non dovrebbe contenere la possibilità di candidature multiple. Il criterio ispiratore deve essere quello del potere degli elettori. La vigente legge elettorale tedesca, se presa nella sua integrità, risponde a questi requisiti. Quanto al controllo che i parlamentari ridotti di un terzo riusciranno ad esercitare sul governo, non per paralizzarlo, ma per evitarne eccessi e errori, sembra che i revisionisti costituzionale si siano messi sulla strada, anch’essa tedesca, del voto di sfiducia costruttivo. Bene, ma bisognerebbe evitare la eccessiva emanazione di decreti legge sui quali il governo pone la fiducia rendendo impossibile in questo modo non soltanto all’opposizione, ma alla sua stessa maggioranza, qualsiasi miglioramento dei contenuti del decreto.
L’inevitabile tecnicismo delle revisioni costituzionali (e dei regolamenti parlamentari) non deve fare passare in secondo piano i problemi politici contemporanei che inevitabilmente incideranno sulle soluzioni di cui si discute e sull’evoluzione a breve e a lungo termine della vita politica italiana. Insieme alla vittoria referendaria, il Movimento Cinque Stelle ha dovuto registrare un suo serio declino elettorale in tutte le regioni nelle quali si è votato. Continuo a pensare che il voto “politico” delle Cinque Stelle potrà comunque essere superiore al 10 per cento, ma la caduta attuale è preoccupante per il loro futuro e, in una (in)certa misura, per il futuro del governo e del sistema politico. Infatti, anche se il Partito Democratico ha ottenuto buoni risultati in tre importanti regioni, le sue percentuali, poco sopra il 20 percento, continuano ad essere insufficienti a garantire qualsiasi vittoria nazionale prossima ventura. Il PD avrà sempre bisogno di alleati anche qualora riuscisse a delineare un suo “campo largo”. Di qui la proposta di un’alleanza organica con le Cinque Stelle che, però, primo, potrebbe non essere affatto numericamente sufficiente; secondo, al momento non sembra politicamente accettabile ad una parte consistente, peraltro non maggioritaria, degli aderenti pentastellati.
In verità, il governo Conte trae la sua forza dalla popolarità del Presidente del Consiglio il cui operato è apprezzato giustamente da più del 60 per cento degli elettori, per quanto criticato, a mio parere con incomprensibile faziosità e pochezza di argomenti, da “Repubblica” e dal “Corriere della Sera” nonché, ovviamente, dalla stampa di destra. È soprattutto grazie alla intransigenza e alla credibilità di Conte e, in misura leggermente inferiore, del Ministro Gualtieri e del Commissario Gentiloni che l’Italia ha ottenuto dalla Commissione Europea un pacchetto di prestiti e di sussidi di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri paesi. Adesso, come giustamente dichiarato da Conte stesso, bisognerà riuscire e spenderli presto e bene su progetti nel solco delle direttive europee per digitalizzare l’Italia, farne un’economia verde, con trasformazioni strutturali nella sanità, nella scuola e nella amministrazione della giustizia. I rapporti con l’Unione Europea sono e possono rimanere il punto di forza di Conte e del suo governo al tempo stesso che sono il vero tallone d’Achille dell’opposizione di centro-destra.
Nessuno può immaginare neppure per un momento che un governo sovranista Salvini-Meloni, o viceversa, sarebbe stato e sarà in grado di negoziare efficacemente con gli europeisti. Al contrario. Naturalmente, se il governo Conte riuscirà a trasformare l’Italia è possibile che il futuro politico-elettorale del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle riservi sorprese positive. Al momento, però, anche se è possibile vedere non pochi scricchiolii in quella che sembrava la potente macchina da guerra di Salvini e della Lega, è indubbio che il centro-destra continua ad essere numericamente e percentualmente più forte del centro-sinistra nelle sue varie articolazioni.
Né le revisioni costituzionali né le alleanze fra partiti possono fare dimenticare quello che, a mio parere, è il vero problema italiano a partire dal crollo del muro di Berlino: la debolezza dei partiti e la disgregazione del sistema dei partiti. Partiti nascono, si trasformano, s’indeboliscono, illudono gli elettori, diventano irrilevanti. Non consentono progetti e azioni di governo di un qualche respiro. Inevitabilmente, gli elettori cambiano i loro comportamenti di voto contribuendo a vittorie improvvis/ate e a declini bruschi. C’è un senso di precarietà nella politica italiana alla quale, per fortuna, anche per la dura della loro carica, si sono contrapposti i Presidenti della Repubblica: Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Ecco perché l’elezione del successore di Mattarella all’inizio del 2022 sarà particolarmente importante. Ecco perché i Cinque Stelle e il PD non debbono bruciare la grande opportunità che si offre loro.
*Gianfranco Pasquino è Professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna. Il suo volume più recente è Minima Politica. Sei lezioni di democrazia (UTET 2020).
Le virtù della legge elettorale francese @HuffPostItalia
Una buona rappresentanza politica discende da una buona legge elettorale. Ridotti i parlamentari è imperativo intervenire ed è auspicabile si passi a un sistema uninominale a doppio turno
Ridotti i parlamentari è imperativo (ri)pensare la rappresentanza politica e le modalità di controllo del Parlamento sul governo. La rappresentanza politica non è mai solo, ma anche, questione di numeri. Dipende dalle modalità di selezione dei rappresentanti e dai premi e dalle punizioni che i rappresentanti si meritano e ricevono per i loro comportamenti.
Dunque, comprensibilmente, una buona rappresentanza politica discende da una buona legge elettorale. Non è necessariamente la legge proporzionale che, sembra, Nicola Zingaretti, tutt’altro che solo, desidera. Non è affatto vero che più proporzionalità consegue più rappresentatività. Anzi, aumentare il tasso di proporzionalità di una legge elettorale significa incentivare la frammentazione. In parte, mi pare di capire, questa è la preoccupazione di Zingaretti che lo spinge ad affermare che la clausola di esclusione del 5 per cento non è negoziabile.
Neanche per un momento mi pongo il problema lancinante della non-rappresentanza parlamentare di Italia Viva, Azione e Leu. Fra l’altro, da molti di loro ho spesso ascoltato una frase celebre (e impegnativa): “si può fare politica anche fuori del Parlamento”. La clausola del 5 per cento offre loro questa grande opportunità. Sarò lieto se vorranno e sapranno sfruttarla.
Che sia chiaro, però, che se la clausola pone un argine, non insormontabile, alla frammentazione partitica, non migliora in alcun modo la rappresentanza politica. Delega il compito di scegliere buoni rappresentanti, non agli elettori, che dovrebbero esserne i protagonisti in decisiva, istanza, ma ai partiti, ai capi dei partiti e ai capi delle correnti (ah, già, debbo scrivere “sensibilità”).
Stando così, non da oggi, le cose, esprimo il mio profondo dissenso. Potrei limitarmi a sostenere che, insieme a molti, alcuni un po’ tardivamente, è necessario che a elettori e elettrici sia consentito di esprimere un voto di preferenza [in altra occasione spiegherò perché un unico voto di preferenza e perché questo voto non è automaticamente qualcosa che sarà utilizzato dalla criminalità più o meno organizzata e dagli adepti della corruzione].
Continuo a ritenere che le primarie sono uno strumento utile e democratico per scegliere le candidature, ma non ho mai chiuso gli occhi di fronte alla manipolazione delle primarie, soprattutto a livello locale: Bologna insegna.
Credo che sia possibile offrire una sana alternativa complessiva: la legge elettorale francese doppio turno in collegi uninominali. Quanto alla selezione delle candidature il primo turno è ampiamente assimilabile ad un’elezione primaria. Gli elettori scelgono. Al secondo turno eleggono. Naturalmente, conta molto la clausola (o meno) con la quale si acquisisce la facoltà, non l’obbligo, di passare al secondo turno. Anche se pochi lo ricordano (o non lo sanno) il doppio turno, mai ballottaggio, può essere aperto, vale a dire consentire il passaggio al secondo turno a tutti coloro che si sono candidati/e al primo turno.
Il primo turno ha, comunque, la capacità di fornire informazioni: ai partiti, ai loro candidati/e oltre che, soprattutto, agli elettori. La clausola percentuale di passaggio al secondo turno può essere variamente definita. Nel 1958 in Francia fu fissata proprio al 5 per cento con l’intesa che nel corso del tempo sarebbe cresciuta. È arrivata fino al 12,5 per cento degli aventi diritto. A bocce ferme, con quella clausola entrerebbero alla Camera dei deputati i rappresentanti di quattro soli partiti.
Per evitare che i dirigenti di partito si oppongano al doppio turno sulla base di loro calcoli particolaristici si potrebbe, come suggerito tempo fa da Giovanni Sartori, consentire il passaggio in ciascun collegio ai primi quattro candidati. Poi decideranno loro e i loro partiti se “insistere” o desistere, certo anche dopo qualche accordo reciproco che, comunque, sarebbe visibile agli elettori.
Da ultimo, quali conseguenze sulla rappresentanza politica? Vox populi(sti) vuole che “il maggioritario” restringa la rappresentanza. Sbagliato. In qualsiasi collegio uninominale il rappresentante eletto/a sa che deve rappresentare il collegio, vale a dire, le preferenze, gli interessi, gli ideali dei loro elettori, ma anche spingersi fino a tenere in grande considerazione le preferenze degli elettori che quella volta non l’hanno votato/a. Aggiungo che nei collegi, proprio attraverso gli accordi e le desistenze, si pongono le basi delle coalizioni che andranno al governo o si metteranno all’opposizione.
Insomma, c’è davvero molto di buono nella legge elettorale francese doppio turno in collegi uninominali, compresa la flessibilità. Se ricordo bene, tempo fa nel Partito Democratico si votò a grande maggioranza per il doppio turno. O no?
Pubblicato il 2 ottobre 2020 su huffingtonpost.it
Va bene il proporzionale, ma con preferenza unica @fattoquotidiano
La legge elettorale prossima (av)ventura. Premessa: se sarà una legge elettorale proporzionale non dovrà avere pluricandidature e dovrà consentire a elettrici e elettori di esprimere un voto di preferenza. Non due voti poiché non è vero che favoriscono le donne. Al contrario, subordinano le elette all’uomo che abbia fatto scambi con loro. Non tre o quattro preferenze poiché sono propedeutiche, come qualsiasi parlamentare democristiano eletto tra il 1948 e il 1987 potrebbe confermare, alla formazione di correnti. Infine, se si desidera evitare la frammentazione del sistema dei partiti, certamente non produttiva di buona rappresentanza politica, ma di potenziali poteri di ricatto per piccoli gruppi, dovrà contenere una clausola di accesso al Parlamento.
Di leggi elettorali proporzionali ne esistono molte varietà. Due elementi importanti le caratterizzano: la ampiezza della circoscrizione, misurata con riferimento al numero dei parlamentari che vi sono eletti e la formula di assegnazione dei seggi (le tre più utilizzate sono d’Hondt, Hare e Sainte-Lagüe, elemento molto tecnico, ma tutt’altro che irrilevante nel favorire i partiti o i partiti grandi). Ipotizzando che vengano ritagliate quaranta circoscrizioni con dieci deputati da eleggere in ciascuna, non ci sarebbe neppure bisogno di una clausola di accesso. Per vincere un seggio sarà indispensabile ottenere almeno l’8-9 per cento dei voti in ciascuna circoscrizione. Per un senato di 200 componenti eletti in 20 circoscrizioni il discorso sarebbe esattamente lo stesso, ma è complicato dalla statuizione costituzionale che ne impone l’elezione su base regionale.
Fuoruscendo dall’ormai stucchevole ricorso al latino che, al contrario del Mattarellum e del Porcellum, non apporta nulla in termini di conoscenza, chi volesse adottare la legge elettorale tedesca (non Germanicum, non Tedeskellum), dovrebbe farlo nella sua interezza. La clausola del 5 per cento è, ovviamente, importante, ma molto più importante è che l’elettore/rice tedesco/a dispone di due voti. Con il primo sceglie fra i candidati in collegi uninominali su base dei Länder; con il secondo vota una lista di partito. Non soltanto il doppio voto conferisce più potere all’elettore/trice, ma ha spesso consentito loro di incoraggiare e approvare la formazione di coalizioni indicate dai dirigenti di partito (Democristiani-Liberali; Socialdemocratici-Liberali; Socialdemocratici-Verdi).
Ė persino banale affermare che non esiste una legge elettorale perfetta. Certamente, no, ma altrettanto certamente esistono leggi elettorali buone e leggi elettorali cattive. Grazie all’Italicum e alla legge Rosato è oramai accertato e acclarato che esistono leggi elettorali pessime. La legge proporzionale usata in Italia dal 1946 al 1987 era accettabile e funzionò in maniera (più che) soddisfacente. L’alternanza mancò soprattutto poiché l’alternando, il PCI, non ebbe mai voti sufficienti a renderla inevitabile. La legge Mattarella, l’unica della seconda fase della Repubblica ad essere in qualche modo il prodotto di un referendum popolare, ebbe più pregi che difetti e alcuni dei difetti (il cosiddetto “scorporo” e la possibilità di liste civetta) sarebbero oggi facilmente eliminabili.
Sento ripetere da qualche politico che lui/lei preferirebbero il maggioritario, magari con l’aggiunta “il sindaco d’Italia”. Al di là dei problemi di scala: eleggere il sindaco, anche di città grandi come Roma, Milano, Napoli, Torino, non è la stessa cosa dell’elezione del capo del governo, la legge per l’elezione dei consigli comunali è proporzionale. L’elezione diretta del sindaco/a è altra cosa e configura una forma di governo presidenziale con l’eletto/a che non può essere sostituito/a proprio come i presidenti “presidenziali”. Maggioritarie sono le leggi elettorali delle democrazie anglosassoni: vince il seggio in collegi uninominali chi ottiene anche un solo voto in più degli altri candidati. Maggioritaria è la legge elettorale a doppio turno (non ballottaggio) in collegi uninominali utilizzata in Francia. Sono purtroppo consapevole che, al momento, non esiste una proposta a sostegno della legge francese e neppure una maggioranza disposta a votarla. So, però, che una proposta articolata in tal senso sarebbe la vera “mossa del cavallo”. Aprirebbe un campo elettorale inusitato impedendo giochi di partito. Conferirebbe all’elettorato grandi responsabilità incentivandolo a informarsi e a ridefinire con maggiore attenzione le sue preferenze. Obbligherebbe i partiti a selezionare meglio le loro candidature, che è proprio uno dei più importanti obiettivi vantati dai sostenitori della riduzione del numero dei parlamentari: “meno, ma meglio”. Vorrei che l’opzione francese rimanesse viva. Comunque, almeno potrò affermare: “ve l’avevo detto” et salvavi animam meam.
Pubblicata il 29 settembre 2020 su Il Fatto Quotidiano
Rappresentanza è il quesito. Non il numero dei parlamentari @fattoquotidiano #tagliodeiparlamentari #iovotoNo #Referendum2020
Non mi colloco fra coloro che ritengono che la rappresentanza politica sia essenzialmente una faccenda di numeri. Portato all’estremo questo discorso significherebbe più parlamentari più rappresentanza. Non credo neppure che i numeri, alti o bassi, abbiano una relazione stretta, meno che mai decisiva, con la rappresentatività. Non dipende certo dal numero dei parlamentari se gli operai non sono presenti in Parlamento e se i loro interessi sono più o meno (poco, pochissimo) rappresentati. La rappresentatività sociologica è argomento interessante, ma il suo collegamento con la rappresentanza politica richiede qualche serio approfondimento. Partirò da quanto scrisse quarant’anni fa Giovanni Sartori: “la rappresentanza politica è elettiva”. Senza elezioni non può esistere nessuna rappresentanza politica. Leggi elettorali che non consentano agli elettori di scegliere davvero i rappresentanti incidono sulla qualità della rappresentanza, in qualche caso sulla stessa possibilità della sua sussistenza. Ridurre il numero dei parlamentari italiani e poi utilizzare una legge elettorale proporzionale che permetta le pluricandidature e non offra all’elettore la possibilità di scegliere fra i candidati disponendo di un voto di preferenza significa creare una situazione di cattiva rappresentanza. Cattiva è non soltanto dal punto di vista degli elettori che non avranno potuto scegliere il parlamentare, e quindi non gli/le si potranno rivolgere durante il mandato parlamentare. Lo è anche dal punto di vista del parlamentare che sa che la sua elezione non dipende dagli elettori, ma da chi lo ha candidato e, in larga misura, fatto eleggere. In caso di dissenso con quei dirigenti di partito e di corrente responsabili per la sua elezione e, presumibilmente, anche per la sua ricandidatura e rielezione, il parlamentare sarà posto di fronte ad una alternativa lancinante.
Quell’accountability di cui molti parlano senza sufficiente cognizione potrà/potrebbe essere esercitata con profitto soltanto se il parlamentare sa di essere debitore della sua elezione a chi lo ha votato e coloro che lo hanno votato sanno di poterlo ri-votare oppure bocciare. Qui si inserisce il discorso su coloro che “Il Fatto Quotidiano” mette alla berlina chiamandoli voltagabbana. Probabilmente, alcuni la gabbana l’hanno voltata due volte, la prima dicendo sì (nel PD dicendo no) alla riduzione del numero dei parlamentari perché quella era la posizione del loro gruppo parlamentare o del partito. La seconda, adesso, dicendo no oppure, come molti parlamentari del PD, esprimendosi per il sì. Essendo personalmente sostenitore della libertà di mandato, prendo atto delle giravolte di gabbana. Sono legittime. Mi piacerebbe adesso che fossero argomentate così come mi sarebbe piaciuto al momento delle votazioni parlamentari che i dissenzienti si esprimessero. L’inconveniente grave, però, sta nel manico. Sostanzialmente nessun parlamentare aveva interesse a esprimere il suo voto in dissenso poiché non esiste(va) la possibilità di farsi forte del sostegno dei “propri” elettori.
Eppure, sono proprio il dialogo, l’interlocuzione, il confronto e, anche, lo scontro fra il parlamentare e i “suoi” elettori che danno senso e peso alla rappresentanza politica. Potrebbe benissimo essere che quei voltagabbana dal sì al no, ma anche quelli dal no al sì abbiano il sostegno dei loro rispettivi elettorati. Non lo possiamo sapere. Non lo sapremo neanche una volta ridotto il numero dei parlamentari (forse, ci saranno meno voltagabbana, oppure, più probabilmente, saranno grosso modo della stessa percentuale). La rappresentanza politica è una cosa seria che richiede una riflessione approfondita sulla legge elettorale. Non mi pare utile limitarsi a collegarla ai numeri. Anzi, è persino fuorviante. Concluderò drasticamente che se i capipartito e capicorrente mantengono poteri quasi esclusivi di designazione dei parlamentari, nessuna riduzione del numero dei rappresentanti approderà al miglioramento della rappresentanza politica (e quindi della qualità della politica e della democrazia italiana).
Pubblicato il 4 settembre 2020 su Il Fatto Quotidiano
Calderoli e le preferenze infedeli @HuffPostItalia
C’è del vero in quello che dice Calderoli sul doppio voto di genere
È possibile trovare analogie migliori di quella dl leghista sulle infedeltà dei candidati maschi come strumento per la raccolta di preferenze. Il problema da lui sollevato è, però, reale.
È possibile trovare analogie migliori di quella di Calderoli sulle infedeltà dei candidati maschi come strumento per la raccolta di preferenze. Il problema da lui sollevato è, però, reale. Non dovrebbe essere rimosso con un’alzata di spalle e con qualche contestazione gender-correct. Comincerò dai fondamentali. Il 9 giugno 1991, nonostante gli inviti di tutti i leader del pentapartito a fare altro: andare al mare (Craxi), stare a casa con gli “amici” (Gava, ministro degli Interni), giocare a tressette (De Mita) e, da parte di Umberto Bossi (Lega Nord), fare una passeggiata nei boschi padani, il 62,5 per cento degli italiani andò alle urne e il 95,6 per cento approvò il passaggio da tre o quattro preferenze ad una sola da esprimere scrivendo il cognome del candidato/a.
Le elezioni del 1992 furono le meno “pasticciate” della storia elettorale italiana fino ad allora. In seguito, anche grazie alla legge elettorale primo firmatario Roberto Calderoli, meglio nota, su sua stessa valutazione, come Porcellum (approvata nel 2005), fecero la loro comparsa le liste bloccate. Mi paiono una violazione del verdetto referendario del 1991. Per reintrodurre il voto di preferenza si è giunti, su pressione delle donne, a stabilire che, qualora l’elettore/trice voglia esprimere due preferenze una deve andare ad una candidatura femminile. L’obiettivo è chiaro, al limite, persino condivisibile: eleggere un numero più elevato di parlamentari donne.
La modalità mi pare inadeguata, persino controproducente. Fino ad ora, in pratica, si sono manifestate due fattispecie. La prima è semplicissima. Gli elettori danno una sola preferenza, quindi, eludendo, non gravemente, lo spirito della legge. La seconda è appena appena meno semplice. Gli elettori, in effetti, esprimono entrambe le preferenze possibili, ma non per questo fanno crescere il numero di donne elette in parlamento. Infatti, spesso, il candidato uomo, magari già parlamentare, è in grado di costruirsi numerose piccole cordate (le “infedeltà” delle quali ha parlato Calderoli).
Sapendo di potere disporre di un certo numero di preferenze, l’uomo accetta di smistarne alcuni pacchetti su più candidature femminili in cambio, naturalmente, della seconda preferenza di ciascuna di quelle candidate donne. Il totale delle preferenze dell’uomo in quella circoscrizione risulterà considerevolmente più elevato di quello di ciascuna donna, mentre è probabile che, salvo rari casi di eccezionale popolarità, le donne avranno un quarto/un quinto delle preferenze ottenute dall’uomo.
Se, invece, la preferenza fosse unica, ciascuna delle candidate donne potrebbe, da un lato, fare appello al voto delle donne elettrici, dall’altro, sottolineare al massimo le sue capacità, la sua competenza, la sua esperienza, il suo originale e non mutuabile punto di vista. In questo modo, certo rischioso, non soltanto quella donna candidata non sarebbe debitrice a nessun uomo della sua elezione, ma darebbe un concreto, forte e mobilitante contributo al cambiamento della composizione del Parlamento e della politica italiana.
Caro Zingaretti, di legge elettorale parla quando saprai quanti saranno i parlamentari da eleggere @HuffPostItalia @nzingaretti
Scrivere una qualsiasi legge elettorale senza conoscere con precisione il numero dei rappresentanti da eleggere è un’operazione azzardata. Due punti, però, possono essere decisi subito in prospettiva di una buona rappresentanza politica: nessuna candidatura bloccata, nessuna possibilità di candidature multiple. L’elettore deve potere scegliere il/la suo/a rappresentante. Quindi, o collegi uninominali o almeno un voto di preferenza.
Non impossibili, i collegi uninominali se i deputati e i senatori da eleggere saranno rispettivamente 400 e 200 avranno come minimo, rispettivamente, circa 125 e circa 250 mila elettori. Lieviteranno i costi delle campagne elettorali, conteranno anche altre risorse, sarà molto difficile per gli eletti “conoscere” i loro elettori, preferenze e esigenze. Sarebbe auspicabile che una legge elettorale proporzionale avesse circoscrizioni relativamente piccole: 40 per la Camera e 20 per il Senato con dieci eletti per circoscrizione. La soglia implicita è poco meno del 10 per cento dei voti. Premierebbe quei candidati che nelle rispettive circoscrizioni hanno ottenuto molti voti e dunque rappresentano una parte di elettori/trici anche se il loro partito non avesse superato un’eventuale soglia percentuale nazionale.
Questi relativamente semplici calcoli non dicono nulla sulla qualità della rappresentanza. La riduzione di un terzo del numero dei parlamentari non può essere giustificata soltanto con un risparmio modesto di soldi, quando poi si avrebbero spese potenzialmente “folli” nelle campagne elettorali e negli uffici da mantenere fra una campagna e l’altra. Un buon parlamento e buoni parlamentari debbono svolgere due compiti di assoluta importanza in un democrazia parlamentare: dare rappresentanza ai cittadini, controllare le attività del governo, criticarlo, stimolarlo, eventualmente sostituirlo. I parlamentari saranno tanto più liberi e efficaci in entrambi i compiti se sono debitori della elezione alle loro capacità di ottenere il consenso degli elettori e non alla cooptazione ad opera dei dirigenti dei partiti e delle correnti. È anche probabile che per svolgere soddisfacentemente quei compiti, ad esempio, valutando le leggi e i decreti legge del governo e il loro impatto e l’operato dei ministri e della burocrazia, i parlamentari debbano distribuirsi i compiti.
Un numero ridotto di parlamentari avrebbe molto probabilmente conseguenze negative sul funzionamento del Parlamento spostando potere nelle mani dei governanti. Qui, l’azzardo è palese: meno (parlamentari) non significa meglio (migliore rappresentanza politica e miglior funzionamento del Parlamento e dei rapporti Parlamento/Governo). Anzi, è più probabile che meno significhi peggio, un peggio al quale nessuna legge elettorale potrebbe ovviare, anche se alcune potrebbero ridurre rischi e danni.
Post Scriptum Un minimo di prudenza politica suggerirebbe (anche al segretario del PD Nicola Zingaretti e agli strateghi di riferimento) il silenzio, strategico, sulle indicazioni di fondo relative alla prossima (la legge Rosato è, comunque, da cancellare) legge fintantoché non si sa quanti saranno i parlamentari da eleggere.
Pubblicato il 4 agosto 2020 su huffingtonpost.it
Traditori da punire? #vincolodimandato
Per il vincolo di mandato va cambiata la Costituzione, ma forse converrebbe prima cambiare la legge elettorale
L’assenza del vincolo di mandato è al cuore ed è il cuore delle democrazie parlamentari nelle quali gli eletti debbono offrire rappresentanza politica – delle preferenze e degli interessi, delle aspettative e degli ideali degli elettori, non solo dei loro elettori. Gli eletti debbono anche temere le valutazioni di quegli elettori ai quali torneranno alla fine del loro mandato liberamente svolto per spiegare che cosa hanno fatto, che cosa non hanno fatto, che cosa hanno fatto male. Naturalmente, gli elettori potranno valutare meglio, e con maggiore incisività, nel caso in cui esistano collegi uninominali dei quali l’eletto è l’unico rappresentante, consapevole di dovere rappresentare tutti, non solo chi l’ha votato.
L’assenza di vincolo è intesa anche a prevenire e impedire sia che i dirigenti dei partiti e delle correnti sia eventuali gruppi esterni – che potrebbero avere contribuito all’elezione del rappresentante – lo minaccino e lo coartino. Uomo o donna che sia, il rappresentante è sempre e comunque parzialmente e più debitore della sua elezione anche al partito che lo ha candidato e sostenuto, nella consapevolezza che l’elettore potrebbe averlo votato anche, forse e soprattutto, perché esponente di quel partito. Quando, per qualsiasi ragione, abbandona il partito, provoca reazioni negative in molti elettori che lo vorrebbero disciplinato e che, comunque, non gradiscono che vada a rafforzare i ranghi di altri gruppi parlamentari, magari passando dall’opposizione al governo in cambio di qualcosa. La sanzione elettorale – specie laddove la legge elettorale non è congegnata adeguatamente per comminarla, anzi, addirittura può invece sanarla, come con la Legge Calderoli e la Legge Rosato – non è, agli occhi dei cittadini, sufficiente. L’odioso e odiato trasformismo dev’essere punito il prima possibile e duramente.
La proposta contenuta nel «contratto di governo» tra M5S e Lega, «ispirata» al Portogallo, è drastica. Chi cambia gruppo parlamentare decade dal seggio. Questa normativa richiede ovviamente la modifica dell’articolo 67 della Costituzione italiana.
Il punctum dolens è molto problematico. Sarà il parlamentare a decidere se andarsene dal suo gruppo parlamentare – rinunciando quindi consapevolmente al seggio, ma fino ad allora votando liberamente anche in dissenso dal suo gruppo – oppure, come molto spesso hanno fatto i pentastellati, sarà espulso dal gruppo, per una varietà di ragioni, trovandosi di conseguenza nella condizione prevista e regolamentata per essere privato del seggio? La differenza è abissale. Per di più, non sarebbero gli elettori a stabilire se l’eletto ha “tradito” il loro mandato, ma altri eletti, non sappiamo di fronte a chi responsabili, portando comunque a una grave distorsione della rappresentanza politica.
A mali estremi estremi rimedi? No, altre strade più consone alla democrazia parlamentare sono percorribili, a cominciare dalla re-introduzione di un voto di preferenza, del voto disgiunto, di veri collegi uninominali. La terribile semplificazione della decadenza rischia di fare del Parlamento eletto con la legge Rosato un parco buoi che potrà piacere solo ai mandriani nei quali, avendoli visti all’opera, è lecito non riporre grande fiducia.
Pubblicato il 18 maggio 2018 su larivistaIlMulino
In Parlamento, predestinati più che nominati col #RosatellumBis #leggeElettorale
Dappertutto, tranne gli USA (dove si autonominano e diventano candidati solo se vincono primarie vere vere), i candidati al Parlamento sono “nominati” dai partiti e dai loro dirigenti. Lo scandalo in Italia non è nella nomina pur dalle procedure opache di scambi occulti. È che, in assenza di almeno un voto di preferenza e della possibilità di votare disgiunto, la nomina, in molti collegi accompagnata dalla candidatura plurima, equivale alla quasi certezza della elezione senza le “interferenze” nocive degli elettori. Dunque, candidati nominati e predestinati (all’elezione in Parlamento) rappresenteranno i loro sponsor non i loro sconosciuti elettori.