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Le ambizioni di due ego non portano alla pace @DomaniGiornale

Con l’aggressore russo bisogna certamente parlare. Senza illusioni. Le più o meno velate minacce reciproche e negozialmente propedeutiche Trump e Putin se le sono già scambiate. Per ciascuno di loro l’incontro in Alaska serve anche obiettivi che sono congiuntamente personali e politici. Almeno per il momento, Putin ha ottenuto il riconoscimento di interlocutore privilegiato del Presidente degli USA. Da parte sua, perseguendo il Premio Nobel per la pace, Trump vuole porre fine all’operazione militare [molto] speciale che da più di tre anni il governo autoritario russo conduce contro la democratica Ucraina. Entrambi sono largamente consapevoli che, riuscissero a raggiungere un accordo, non soltanto la loro leadership rifulgerebbe, ma ne conseguirebbero anche due effetti collaterali di enorme importanza.

   Il primo effetto sarebbe quello di dimostrare l’impotenza dell’Unione Europea, apparentemente nano militare e diplomatico, comunque finora incapace di porre fine ad un gravissimo conflitto sul suo territorio. Ad entrambi molto sgradita, l’UE si è, peraltro, è opportuno ricordarlo e sottolinearlo, dimostrata capace di contribuire in maniera decisiva allo sforzo bellico degli ucraini.  Il secondo effetto, inevitabile, se l’aggressione venisse premiata con la cessione di territorio ucraino, uno, forse il principale e più sbandierato, degli obiettivi russi, si configurerebbe come l’accettazione a non troppo futura memoria di un esito simile per Taiwan insistentemente rivendicata da Xi Jinping come parte integrante della sua Cina. Il compiaciuto amichevole silenzio della Cina sulla guerra contro l’Ucraina è molto eloquente.

Premiare le ambizioni e le azioni russe creerebbe un precedente pesantissimo a tutto scapito della sovranità e della democrazia di Taiwan. In qualche modo, però, è necessario non sottovalutare le preoccupazioni russe e tenerle in grande conto per aprire qualsiasi negoziato. Siamo ancora ai preliminari che non possono non consistere prioritariamente nel cessate il fuoco accompagnato da uno scambio di prigionieri e, soprattutto, dalla restituzione dei bambini rapiti agli ucraini. A questo punto, lo sapremo prestissimo, si porrà il problema di una vera propria conferenza di pace.

   Forse, Trump si renderà conto che senza la partecipazione, in particolare di Zelensky, ma anche dell’Unione Europea, qualsiasi pace “giusta e duratura” è semplicemente impensabile. Se l’operazione militare speciale russa è stata davvero motivata dalla inquietudine dell’autocrate del Cremlino che sentiva la Nato “abbaiare” ai suoi confini, la rinuncia ufficiale di Zelensky a entrare nell’Alleanza Atlantica è cruciale. Appena meno essenziale è che l’Unione Europea affermi, senza specificarne i tempi, che non esistono le condizioni per l’adesione dell’Ucraina all’UE. Meglio non addentrarsi nel complicatissimo e conflittuale discorso sulla neutralità dell’Ucraina. Inevitabile, invece, è affrontare l’argomento delle terre rare abbondantemente presenti sul territorio controllato dal governo ucraino e fortemente concupite da Trump e da Putin. Saranno necessari impegni ucraini di garantire l’accesso e la commercializzazione senza pregiudizi e senza discriminazioni di quelle preziosissime risorse.

Al momento queste considerazioni possono tutte sembrare premature, ma è indubbio che fanno parte del bagaglio di aspettative e aspirazioni con il quale Trump e Putin si apprestano al loro incontro in Alaska. Quanto più problematico e meno produttivo risulterà l’incontro tanto più probabile diventerà il ritaglio di un ruolo importante per il Presidente ucraino e per chi, Ursula von der Leyen e/o Kaja Kallas verrà designata a rappresentare l’Unione europea. L’esito peggiore dell’incontro sarebbe la continuazione del conflitto, se non addirittura una congiunta, più o meno sottile, ma vergognosa e irricevibile richiesta di capitolazione a Zelensky. Estote parati.

Pubblicato il 13 agosto 2025 su Domani

“Polli” e leader nel disordine mondiale @DomaniGiornale

Dopo il 1989 per qualche tempo sembrò che gli Stati Uniti d’America fossero l’unica superpotenza rimasta, in grado di garantire da sola il nuovo ordine internazionale. Alcuni politici Democratici parlarono degli USA come nazione indispensabile. Criticamente, il grande politologo Samuel Huntington scrisse, invece, di superpotenza, non egemone, ma, lonely, solitaria, senza (capacità/desiderio di crearsi) amici. Nel giro di un decennio, eroso da comportamenti picconatori, l’ordine (politico, economico, sociale) internazionale è venuto meno. Nessuno cerca di ricostruirne uno diverso, più rappresentativo delle mutate realtà, più equo, capace di durare. Proliferano conflitti, non solo locali, e vere e proprie guerre. La guerra dei dazi, erraticamente (no, non c’è nessun metodo in questa follia) lanciata dal Presidente Trump è parecchio più pericolosa di quel che ne pensano non pochi commentatori beneauguranti. Più in generale, si affacciano interpretazioni complessive malamente fantasiose che si rifanno qualche tesi in voga tempo fa negli USA, e più di quattro secoli prima di Cristo ad Atene.

Nei giorni scorsi sulle pagine del “Corriere della Sera” e de “La Stampa” è stata proposta una tesi erroneamente definita del “pollo”, poi corretta in “coniglio”, secondo la quale dovremmo temere che gli errori delle autorità di governo le quali, stupide come polli, si sfidano, conducano a esiti fortemente distruttivi. Giustamente, il giornalista Danilo Taino richiamava, però, senza citarla la sfida, resa molto famosa dal film Gioventù bruciata (1955), protagonista James Dean, fra due auto che si lanciano l’una contro l’altra ad altissima velocità. Chi devia per primo viene bollato, ma non come pollo, cioè, stupido, bensì come fifone che, in questo caso, è la traduzione corretta della parola chicken.

   Quando lo scontro possibile coinvolge grandi potenze, ovviamente, la sua deflagrazione ha imprevedibili, tanto temibili quanto terribili, conseguenze sistemiche. Nessuno dei leader politici può permettersi di fermare la sua corsa né di deviarla. Quasi certamente chi si dimostra chicken, vale a dire, fifone, sarà costretto a lasciare la guida di quel sistema politico, a maggior ragione se l’aveva conquistata promettendo il ritorno della grandezza del passato. Quanto vale per Trump e per Xi Jinping, vale a maggior ragione per Vladimir Putin che ha affidato il recupero della grandezza imperiale russa alla “operazione militare speciale” condotta contro l’Ucraina. Non può assolutamente permettersi passi indietro. Venisse mai percepito come fifone sarebbe immediatamente defenestrato. I sovranismi, grandi, medi e piccoli, si reggono su dimostrazioni, grandi, medie, piccole, di sovranità, anche, comprensibilmente, espressa con il ricorso e l’uso delle armi.

Nessuno di questi sovranismi armati e intenzionati a fare affidamento sulle loro armi e sulla asserita indisponibilità a mostrarsi fifoni, cedendo al primo cenno di sfida, sarà mai sensibile alle richieste di chi, capovolgendo il detto latino, dichiari si vis pacem para pacem. Per quanto apparentemente gratificante per i molti che l’hanno fatto proprio e che lo pronunciano nelle manifestazioni di piazza, questo slogan non è mai accompagnato da suggerimenti operativi. Sappiamo che cosa implica il dettame para bellum, anche se prepararsi alla guerra non significa affatto volerla fare. Spesso significa più precisamente e pregnantemente la disponibilità a combattere per la propria indipendenza e sopravvivenza. 

Vedo nel triangolo USA, Cina, Russia la presenza di diversamente fortissimi e deprecabilissimi elementi, congiunturali e strutturali, di autoritarismo. Credo che la conclusione adeguata del come reagire se vogliamo la pace consista nel suggerire, richiedere, cercare di introdurre elementi di democrazia, di diritti e doveri e loro osservanza, nella pratica interna e nel sistema/ordine internazionale. Si vis pacem para democratiam. 

Pubblicato il 16 aprile 2025 su Domani

Le democrazie e gli anticorpi per sopravvivere all’illiberalismo @DomaniGiornale

“Una gamba davanti all’altra”. Prendo a prestito le dolenti parole della Sen. Liliana Segre che descrivono la sua marcia per la vita per sottolineare che gradualmente, ma incessantemente i democratici e le loro democrazie sono in grado di imparare e riprendere il cammino della libertà.  La celebrazione del Giorno della Memoria obbliga a riflettere, mi pare non venga fatto adeguatamente, sul regime politico che lanciò il genocidio e sui governi dei paesi, a cominciare dal fascismo italiano, che furono zelanti e attivissimi complici: il totalitarismo nazista coadiuvato da autoritarismi più o meno duri. Certamente, tutti quei sistemi politici privi di qualsiasi elemento democratico mostrarono notevoli capacità decisionali. Però, dovremmo davvero considerare la velocità delle decisioni una caratteristica positiva e intimare alle democrazie contemporanee di apprenderla e farne, s’intende, molto rapidamente, uso?

   Fermo restando che sono oramai più di trent’anni che il numero delle democrazie cresce e che nel tempo una sola, quella già minata dall’interno, del Venezuela è crollata, come si fa a sostenere che il paradigma liberal-democratico è venuto meno? Nella misura in cui una democrazia abbandona il liberalismo, che è diritti politici, civili, anche sociali più il quadro costituzionale di separazione delle istituzioni e loro relativa autonomia, semplicemente non è più tale. Democrazia illiberale non è un ossimoro. Al contrario è un esempio lampante e pregnante di manifestazione di quella neo-lingua che tempestivamente George Orwell denunciò come prodotto dei regimi totalitari e loro imposizione.

Poiché deciderebbero poco quantitativamente e in maniera tardiva, le democrazie non sarebbero in grado né di controllare il potere economico né di fare fronte al potere tecnologico. Le democrazie liberali, nate per fare prevalere le preferenze dei cittadini sugli interessi dei grandi proprietari terrieri e degli imprenditori, sarebbero oggi diventate terra di conquista dei nuovi capitalisti, i re delle finanze e i padroni delle tecnologie comunicative. Laddove, parafrasando Mao tse Tung, il partito (comunista) cinese comanda la tecnologia in tutte le sue varianti artificiali e reali (ma, Covid insegna, non in quelle sanitarie), il Presidente degli USA è attorniato dagli oligarchi della Silicon Valley che, è davvero così?, lo condizionano e ne influenzano le decisioni più importanti, comunque quelle che li riguardano. Muoiono così le democrazie? Comincia da Washington, D.C, l’asfissia della democrazia?

 Il Presidente USA nella misura in cui è forte e veloce, “decidente”, è debitore di queste sue capabilities non all’assetto istituzionale in quanto tale, ma alla mutevole configurazione del potere politico che consente ai “suoi” repubblicani di essere in maggioranza, almeno per i prossimi due anni, sia alla Camera dei Rappresentanti sia al Senato e di avere imbottito la Corte Suprema di giudici di stretta osservanza repubblicana. Trump, contrariamente a Putin e Xi Jinping, non potrà essere rieletto. Gode di grande potere a termine (nessun terzo mandato!). Le sue pulsioni anti-democratiche, di insofferenza per i freni e i contrappesi, i lacci e laccioli posti dalla Costituzione, incontrano ostacoli nella libertà dei mass media, nella opinione pubblica, nel pluralismo che Xi e Putin hanno distrutto e continuano a schiacciare.

Una gamba davanti all’altra le democrazie reagiscono alle sfide, politiche, economiche, tecnologiche, nessuna delle quali ha finora avuto successo, con l’ampio repertorio degli strumenti del pluralismo sociale, culturale, persino religioso, di cui dispongono. Smentiscono anche i profeti di sventure che con i loro tristi allarmismi pensano di appuntarsi i galloni del progressismo popolar democratico. Meglio che meditino più a fondo. L’età delle democrazie continua a essere con noi, davanti a noi.    

Pubblicato il 29 gennaio 2025 su Domani

Le inafferrabili condizioni per la fine del conflitto @DomaniGiornale

Ascolto e leggo con perplessità e grande preoccupazione tutto quello che viene detto e scritto in maniera non prevenuta e faziosa su come può/deve finire l’aggressione russa all’Ucraina. Nessuno, neppure Xi Jinping, sembra avere abbastanza potere per influenzare le decisioni di Putin, ma, forse, non abbiamo conoscenze sufficienti per sapere e capire che cosa pensa e dice il suo entourage, chi la pensa come lui chi ha dubbi e preferenze diverse. Anche se è certamente più facile analizzare le informazioni disponibili su quel che pensano e vorrebbero gli Europei e gli USA, ho l’impressione che in molti non sia ancora stata raggiunta la consapevolezza che in Ucraina, sull’Ucraina si sta “giocando” non solo la più che legittima, inviolabile sovranità di una democrazia, ma il futuro dell’ordine mondiale internazionale.

   Sicuramente, all’inizio Putin voleva dare una lezione sulla potenza di fuoco della Russia, sul suo status e per il riconoscimento di un ruolo di assoluto rilievo. Oggi, proprio in seguito alle difficoltà incontrate, si è accorto che una sua eventuale vittoria, i cui criteri sono difficili da definire, potrebbe produrre frutti molto più copiosi. Non si tratta solo di ampliare il Lebensraum russo, esito temutissimo da tutti i paesi confinanti, ma di scardinare l’Unione Europea e, mostrando che gli USA non saprebbero come difenderla, rendere più largo l’Atlantico. A quel punto, indirettamente, Putin darebbe ancor più sostegno (im)morale alle mire cinesi su Taiwan.

   La consapevolezza che, in effetti, gli scopi della guerra di Putin sono diventati più ambiziosi e devastanti sta lentamente diffondendosi nelle elite politiche e militari occidentali, appena ritardata dalle loro preferenze contrarie: vorrebbero che non fosse così. La partenza di qualsiasi negoziato è pertanto diventata ancora più improponibile poiché nessuno all’Ovest può accettare un nuovo ordine mondiale che certificherebbe una sconfitta, ideale prima che militare, e che ne esporrebbe tutta la vulnerabilità a qualsiasi richiesta futura della Russia di Putin. In assenza di canali negoziali, non resta che la via di una esposizione trasparente di quanto l’Occidente è, da un lato, impossibilitato a cedere, ovvero, la vita e la terra degli ucraini, e dall’altro, può garantire a Putin, non scrivo russi poiché delle loro preferenze non ho informazioni. Interpreto benevolmente, forse fin troppo, la richiesta personalistica di Macron di salvare la faccia dell’autocrate del Cremlino, purché quella faccia si mostri disponibile ad una tregua negoziale il prima possibile, nell’anniversario dell’inizio dell’operazione speciale militare. Ho già scritto, senza particolare originalità, che chi perde la guerra deve andarsene, ma, nella limitata misura del possibile, saranno i russi a decidere, meglio dopo una cessazione negoziata e definitiva del conflitto.  

Pubblicato il 22 febbraio 2023 su Domani

La gradualità delle sanzioni è la strada su cui continuare @DomaniGiornale

Variamente, ma non del tutto, offuscato è in atto sul territorio dell’Ucraina uno scontro di enorme significato fra le democrazie e i regimi non-democratici. Visibilmente, non affatto al di là delle sue intenzioni, Vladimir Putin, capo del regime autoritario russo, vuole provare che le democrazie liberali non sono in grado di difendersi. Sono giunte alla fine della loro traiettoria storica. Xi Jinping, capo del regime totalitario cinese, non sta semplicemente a guardare. Già da qualche tempo progetta la conquista di Taiwan, sistema politico che con la sua esistenza e il suo funzionamento costituisce la prova provata che i cinesi sono tutt’altro che refrattari a istituzioni e pratiche democratiche. Se Putin vince, non mi pare utile cullarsi nell’illusione che una sua vittoria sia assolutamente da escludere, Xi Jinping e con lui tutto il gruppo dirigente della Cina ne trarranno la conclusione che è possibile sfidare con successo le democrazie, con gli USA già alcuni decenni fa memorabilmente definiti una tigre di carta.

   Le democrazie dentro e fuori l’Unione Europea sanno che le loro opinioni pubbliche non sono inclini a pensare che la risposta a Putin debba consistere in azioni di guerra. Dunque, comprensibilmente si sono affidati a una vasta gamma a di attività che colpiscano Putin, gli oligarchi, i suoi sostenitori, compreso l’arcivescovo Kirill, patriarca di Mosca e di tutte le Russie e chierichetto (copyright Papa Bergoglio) al servizio di Putin, tanto improvvidamente quanto deliberatamente “salvato” da Orbán. Tutti coloro che hanno letto anche un solo libro sulla guerra sanno che per lo più i contendenti mirano alla proporzionalità delle risposte per evitare qualsiasi pericolosa escalation. La gradualità con la quale l’Unione Europea ha finora provveduto a comminare sanzioni a persone e a cose risponde concretamente al principio della proporzionalità.

   Quanto più il conflitto si allarga, con i russi che continuano le loro attività belliche e le estendono, tanto più diventa necessario e ineludibile individuare e colpire le fonti di quelle attività e le risorse che le rendono possibili. Non può sorprendere che ogni Stato-membro dell’Unione valuti le conseguenze delle sanzioni anche con riferimento all’impatto sulla propria economia e sulla capacità di sopportazione della sua società. Poiché non esiste nessuna bacchetta magica che colpisca l’intero apparato produttivo e tutto il sistema economico russo, la gradualità è la strada, già intrapresa, lungo la quale continuare. Al contempo, ma i primi segnali sono visibili, appare indispensabile che a livello di UE si trovino le modalità più eque per la ripartizione dei costi delle sanzioni e ci si impegni a individuare le trasformazioni strutturali che rendano l’Unione tutta e gli Stati-membri meno vulnerabili. Questa è la strada per la cessazione del conflitto. Il resto verrà.

Pubblicato il 4 giugno 2022 su Domani

Blandire i dittatori non porta mai niente di buono @DomaniGiornale

Può un leader politico democratico, sincero e conseguente, avere un dittatore come amico? Può elogiarlo e additarlo come esempio, seppur soltanto sostenendo che, però, ha anche fatto qualcosa di buono? Fermo restando che nessun leader autoritario intraprenderà mai una rivoluzione liberale e garantista, il problema di come porsi nei confronti dei molti leader autoritari esistenti nel mondo, a cominciare da Putin, Xi Jinping, Erdogan, si pone in maniera lampante e urgente. A lungo, molti politici e la maggioranza degli studiosi hanno sostenuto che il libero commercio costituisce uno strumento importante per ridurre e contenere la conflittualità e persino per fare circolare idee e migliorare i rapporti. Le grandi potenze democratiche, in special modo, gli USA debbono, ha sostenuto l’influente studioso di Relazioni Internazionali, Joseph Nye, limitare il ricorso allo hard power, in sostanza, le armi e le minacce e pressioni politiche che le precedono, e affidarsi al soft power, non solo commercio, ma cultura in senso lato, anche quella, importantissima, pop, con ambasciatori come cantanti, attori, scrittori diventati famosi. Non è ancora stato stilato un bilancio approfondito del grado di successo del soft power, forse non adeguatamente e coerentemente utilizzato dagli USA e molto poco dalle democrazie europee, ma non sembra probabile che la popolarità degli USA e, più, in generale, delle democrazie abbia fatto breccia nella grande maggioranza dei regimi autoritari, in Medio-Oriente e in Africa e neppure in alcune repubbliche ex-sovietiche. Dunque, sembrerebbe opportuno riflettere su cosa è mancato/fallito e cercare altre strade.

   Blandire i leader autoritari non produce nessuna conseguenza positiva. Bandirli impedisce in partenza qualsiasi interlocuzione e potrebbe addirittura essere controproducente consolidando il loro sostegno interno, credo che non si debba mai parlare di consenso, semmai accettazione, indifferenza, rassegnazione, di cui godono soprattutto fra coloro che da quei leader e da quel modo di governare (e reprimere e opprimere) traggono privilegi e vantaggi. Se colpiscono quei vantaggi e ridimensionano quei privilegi dei gruppi dirigenti, oligarchi et al, che circondano il leader autoritario, le sanzioni possono produrre conseguenze importanti. Molto, però, dipende dalla compattezza dei regimi democratici nell’attuare quelle sanzioni e nel mantenerle senza scappatoie per un periodo di tempo che non può essere breve. I leader autoritari si riconoscono fra loro, non si criticano, non cercano di indebolirsi reciprocamente, ma certamente non sono in grado di fare fronte comune. Non esiste e non può essere costruita una Internazionale degli autoritarismi. Tuttavia, opposizioni tattiche comuni sono frequenti contro, ad esempio, le condanne occidentali e non solo per la violazione dei diritti umani, della libertà di stampa, dell’autonomia della magistratura. Queste condanne sono sacrosante. Coerenza politica e civile implica che le democrazie concordino sulla difese a e anche sulla promozione dei loro principi fondativi. Alzare la voce e ottenere qualche votazione di condanna alle Nazioni Unite e negli organismi europei non sarà mai sufficiente, ma sempre doveroso. Il resto deve essere attivamente affidato ad una interlocuzione con i leader autoritari. Amici, no; ma interlocutori, sì, nella misura del possibile in maniera costante e continua, sempre il più trasparente possibile. Finora, non solo non è stato fatto abbastanza, ma è stato fatto in maniera sparsa, episodica, disgiunta, talvolta persino contraddittoria. Cambiare

Pubblicato il 27 aprile 2022 su Domani

Dopo, non basterà l’autorevolezza di un uomo solo

Ad una gravissima emergenza spesso la risposta politica consiste nella richiesta e nell’imposizione di comportamenti consoni: disciplina, sobrietà, altruismo. Consiste anche nell’accentramento del potere decisionale in poche mani, addirittura una sola. La visibilità e il potere si accompagnano alla responsabilità. In democrazia chi ha acquisito il potere di decidere verrà chiamato a rispondere delle decisioni da lui prese. Può succedere anche in regimi non-democratici che ai decisori venga chiesto conto di quanto fatto, non fatto, fatto male. Non credo che Xi Jinping possa stare del tutto tranquillo. È sperabile che le indecisioni e qualche smargiassata di Donald Trump e Boris Johnson finiscano per pesare sul loro consenso politico.

Un’emergenza di lunga durata accompagnata dalla costante presenza di un solo decisore politico che, per carità di patria, non viene sottoposto a nessun controllo parlamentare e di un’opinione pubblica dispersa, potrebbe costituire un pericolo per la democrazia? Cittadini-elettori abituati al fatidico “uomo solo al comando” potrebbero affidarvisi anche una volta che l’emergenza sia terminata, soprattutto se grazie alle decisioni prese da quell’uomo? Non esistono situazioni comparabili a quanto succede oggi se non, oserei affermare, la rielezione (con procedure assolutamente democratiche) di Franklin D. Roosevelt in tempo di guerra, mentre Churchill, che pure aveva guidato la Gran Bretagna a una vittoria clamorosa, perse le prime elezioni di pace.

Non è, comunque, della caduta della democrazia che stiamo parlando come conseguenza dell’accentramento del potere e dell’accresciuta visibilità del governante. Piuttosto pare giusto interrogarsi se l’opinione pubblica, una volta superata l’emergenza nel silenzio della politica, dei leader di partito, dei rappresentanti, del Parlamento, non diventi disponibile a credere che, per l’appunto, leader di partito, rappresentanti e Parlamento siano non solo inadeguati, ma anche inutili, se non addirittura controproducenti. Un uomo al vertice, non ostacolato da oppositori motivati dalla ricerca di vantaggi per i propri partiti e le proprie personali carriere, non rallentato da dibattiti parlamentari roboanti ma non apportatori di elementi concreti, non ingabbiato da lacci e lacciuoli burocratici, non obbligato a tenere conto di mass media spesso malamente politicizzati, farebbe funzionare il sistema politico meglio delle modalità democratiche finora esperite? Corrono alcune democrazie questo rischio? Lo corre la democrazia italiana?

Fino ad ora non è in questione la probabilità di scomparsa della democrazia. La preoccupazione, soprattutto in un regime democratico mai particolarmente brillante nel dibattito pubblico di idee e proposte, raramente capace di informare l’opinione pubblica e di valorizzare i pareri divergenti, riguarda proprio l’erosione degli spazi, la limitazione delle alternative, la propensione a seguire e accettare poche voci. Ipse dixit. Terminata l’emergenza e sconfitto il coronavirus ci saranno molte scelte difficili da fare. Si dovrà stilare una scala di priorità. Risorse scarse dovranno essere motivatamente assegnate a attività da privilegiare. Non basterà l’autorevolezza di un uomo solo. Soltanto una società che abbia mantenuto l’attenzione alle regole, alle procedure, alla necessità di un confronto potrà agire in maniera soddisfacentemente democratica. Meglio riflettervi già adesso.

Pubblicato il 18 marzo 2020 su huffingtonpost.it

 

La Beltand Road Initiative è un rischio o un’opportunità? #BRI #XiJinping

Si sa da dove viene non è chiaro dove porterà, la Via della Seta. I termini oscuri dell’accordo “infrastrutture/commercio” fra Cina e Italia contengono molti rischi sicuri e pochi vantaggi futuri. Marco Polo, purtroppo non consultato, avrebbe fatto di meglio, molto.

 

 

La scivolosa via della seta

Già è rivelatore che fantasiosi siamo noi italiani che chiamiamo “via della seta” quella che i cinesi hanno da tempo battezzato come Belt and Road Initiative (BRI), vale a dire iniziativa della cintura e della strada. È un ambiziosissimo progetto di infrastrutture, scambi, cooperazione industriale che parte dalla Cina e terminerà in Spagna. Ha già una prima testa di ponte, al momento solitaria, in Germania a Duisburg. Esiste già anche un Rapporto critico firmato nell’aprile 2018 da ventisette ambasciatori dell’Unione Europea su ventotto. Sembra che in occasione della visita di Xi Jinping, segretario del Partito Comunista Cinese e Presidente della Cina, il governo italiano firmerà un memorandum d’intesa su alcuni principi propedeutico ad accordi di più ampio respiro. Sarebbe già stato individuato il porto, Vado Ligure, dove fare sbarcare attrezzature e merci di provenienza cinese.

In linea di massima, qualsiasi modalità di accrescimento del commercio è da ritenere apprezzabile se contribuisce alla crescita economica e al benessere dei contraenti. Al momento, però, le informazioni disponibili non permettono di conoscere con sufficiente approssimazione se l’Italia trarrà vantaggi, quali e quanti da un accresciuto interscambio con la Cina. Rimanendo alla sola tematica degli scambi commerciali è preliminarmente indispensabile ottenere dai cinesi alcune risposte chiare. Primo, accettano la totale reciprocità, ovvero non porranno né ostacoli né dazi sulle merci italiane? Secondo, assicurano di non fare dumping con le loro merci e prodotti, vale a dire vendere a prezzi inferiori a quelli praticati nel loro mercato interno? Terzo, garantiscono tassativamente di osservare tutte le norme in materia di ambiente e di qualità e conformità dei loro prodotti alle regole europee? Alla luce di comportamenti dei cinesi largamente difformi da queste esigenze – per fare un solo esempio, la produzione e commercializzazione di giocattoli tossici – le preoccupazioni espresse da più parti appaiono del tutto lecite.

Tutti coloro che sono favorevoli in via di principio alla libertà del commercio, che, secondo molti, riduce le probabilità di conflitti e incrementa la prosperità, dovrebbero esigere dai cinesi (ma, ovviamente, non solo da loro) il pieno adempimento dei dettami fissati dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Ciò detto, esiste qualcosa di più di cui tenere conto prima di incamminarci sulla via della seta. Sarebbe decisamente più opportuno che prima di qualsiasi accordo con i cinesi il governo italiano discutesse con gli altri governi dell’Unione Europea per giungere ad una posizione comune e condivisa e non si giocasse un altro pezzetto di affidabilità agli occhi dei nostri partner. Davvero l’Italia è tanto forte e solida da procedere da sola senza sdrucciolare nel rapporto con una superpotenza i cui comportamenti, ad esempio, con gli Stati africani, hanno destato molte, severe e argomentate critiche? Benvenuto, Xi Jinping, discutiamone.

Pubblicato il 19 marzo 2019