Non c’è solo folclore, spesso elegante e bello, nella cerimonia di incoronazione. C’è sana tradizione, storia ben vissuta, legittimazione anche politica della rappresentanza e dell’equilibrio che la monarchia britannica offre e garantisce da almeno più di due secoli. Quella monarchia non soltanto sopravvive, ma dimostra di essere vitale e capace di rinnovarsi. Nel Regno Unito molto più che nelle altre otto monarchie tuttora esistenti in Europa occidentale, la monarchia incarna e esprime una visione fatta di emozioni, sentimenti, obiettivi di un popolo che mantiene la sua grandezza. Sottolineare che è un’istituzione datata che non ha più senso nel mondo del XXI secolo significa avere capito poco di quella istituzione e addirittura meno di cos’è la politica. Rilevare compiaciuti che il 38 per cento dei giovani pensano che il tempo della monarchia sia finito implica sottovalutare malamente che il 62 per cento dei britannici hanno un’opinione favorevole della monarchia e che i giovani cambieranno idea, come hanno già fatto i loro padri, con il passare del tempo. D’altronde, già adesso, il 70 percento degli intervistati ritiene che Re Carlo III farà un buon lavoro.
Il Regno Unito ha da tempo perso l’Impero, ma i discendenti di moltissimi di quelle donne e quegli uomini “colonizzati” dagli inglesi si sentono tuttora attratti da quello stile di vita, da quella cultura, dalle opportunità offerte, dai diritti di cui possono godere. Crescono i rimpianti degli inglesi per la Brexit così come, sul continente, è diffusa la consapevolezza che l’Unione Europea ha perso un protagonista significativo per la sua economia e per la sua democrazia. Rimane la speranza di un non troppo lontano ripensamento inglese e di un ritorno.
Sbagliato limitarsi a sostenere in maniera saputella che la monarchia inglese regna, ma non governa e che, dunque, nella politica è sostanzialmente irrilevante. La politica è fatta anche di simboli e di sentimenti. La monarchia è il simbolo più alto del Regno Unito, ne rappresenta appunto l’unità e, in non piccola misura, la coesione al disopra dei conflitti fra i partiti. Salvo frange eccentriche e marginali, nessuno dei tre grandi partiti inglesi pone come obiettivo l’abolizione della monarchia. Nessuno ha dimenticato il contributo importantissimo in termini di ideali e di attaccamento alla patria dato da Re Giorgio VI, il nonno di Carlo, alla guerra contro il nazismo. Infine, l’ereditarietà del monarca-capo dello stato significa anche che il sistema politico non deve affrontare gli inevitabili conflitti che si produrrebbero nell’eventualità dell’elezione di un Presidente. Di più, nessuno dubita dell’imparzialità del monarca e della sua volontà di garantire gli equilibri politici rispettando la volontà del Parlamento nell’interesse del popolo. L’ombra di preoccupazione visibile sul volto di Re Carlo indica che è consapevole dell’importanza del ruolo che dovrà svolgere. God save the king.
Le opposizioni del centro, trattino, sinistra non sembrano avere ancora capito che le probabilità che il governo Meloni 1 duri tutta la legislatura sono molto elevate. Certo, il governo non cadrà per qualche voto parlamentare più o meno casualmente perduto. Questo non significa che le vittorie parlamentari delle opposizioni siano irrilevanti se obbligano il governo a confrontarsi con le loro idee, le loro preferenze, le loro proposte. All’università ho regolarmente insegnato che la qualità del governo dipende, spesso, anche dalla qualità dell’opposizione. Purtroppo, in questi sei mesi di governo Meloni, le opposizioni hanno preferito combattersi fra di loro, da un lato, con l’obiettivo di strapparsi qualche voto, dall’altro, di dimostrare di essere più intelligenti e più progressisti dei competitors, definiti come quelli che agiscono nello stretto asfittico recinto dei votanti del 25 settembre 2022. Vale a dire che non si sono neanche posti il compito prioritario di cercare, trovare, motivare almeno parte degli astensionisti, circa il 40 per cento dell’elettorato. Per riuscirvi non sarà mai sufficiente gonfiare e esibire pubblicitariamente i propri ego e neppure vantare qualche piccola particolaristica vittoria parlamentare. Come asseriscono alcuni politici senza grande fantasia, sarà indispensabile avere lo sguardo lungo, dal canto mio direi una visione. Per ciascuna battaglia parlamentare importante: lavoro, scuola, diritti, immigrazione, Europa, invece di rincorrersi e scavalcarsi più o meno furbescamente, le opposizioni dovrebbero procedere ad un coordinamento di emendamenti, di mozioni, di voto. Ciascuna, poi, con i suoi parlamentari e dirigenti spiegherà agli elettori le sue motivazioni contrapponendole non a quelle delle altre opposizioni, ma a quelle dei governanti approfondendone le differenze di opinione (che sappiamo essere molte e di non poco conto). Una buona opposizione parlamentare è consapevole che deve andare sul territorio e rimanervi operativa per interloquire il più frequentemente e il più visibilmente possibile con le associazioni economiche e culturali attive nei diversi territori e con le istituzioni locali. Spesso, è proprio a livello locale che è più facile, anche grazie a rapporti personali e a migliore conoscenza dell’ambiente, maturare condivisioni e giungere a proposte comuni. Dal basso può effettivamente venire la spinta, non all’impossibile e neppure utile unità, ma alla convergenza politica e culturale. Per vincere e poi governare senza tensioni interne, le opposizioni debbono mirare a formulare una cultura politica ampiamente condivisa che, inevitabilmente, va costruita intorno al rapporto imprescindibile fra Italia e Unione Europea. In cinque anni ben spesi è possibile fare molta strada in questa direzione, cambiando profondamente in meglio la politica della “nazione” e tornando al governo.
Ho imparato, non immediatamente, da Giovanni Sartori che bisogna sapere “scrivere contro”. Vale a dire che, molto di frequente, la tematica che riteniamo rilevante è stata affrontata da altri in maniera che non pare convincente, che le spiegazioni, ma talvolta la stessa impostazione, sono inadeguate e fuorvianti, che la conclusione, per quanto molto sbandierata e diventata popolare, è sostanzialmente sbagliata. Allora, per chi fa lavoro intellettuale corre l’obbligo scientifico di scrivere, non trascurando, ma prendendo le mosse dall’esistente, sfidandolo, andando oltre perseguendo una spiegazione migliore. Però, nessuna spiegazione sarà migliore se si riferisce ad un unico caso. Per quanto approfonditi, esaustivi, persino brillanti gli studi di un unico caso poco o nulla sono in grado di dire su quello che è “normale” e su quello che, al contrario, è “eccezionale”. Neppure quando quegli studi si accumulano potranno portare a conclusioni valide. Sapranno, certo, sollevare interrogativi e suggerire conseguenze. Problematizzeranno, ma nessuna spiegazione riuscirà ad emergere da descrizioni, anche numerose e eccellenti (sì, se ne trovano, anche se non sono numerose), ma “singolari”. Se, parole di Sartori, “chi conosce un solo caso non conosce neppure quel caso”, colgono il punto, a mio modo di vedere sicuramente sì, nelle scienze sociali diventa imperativo procedere a studi comparati con l’apposito metodo comparato. L’operazione è tutt’altro che facile, ma, se eseguita con impegno e applicazione, promette grandi ricompense conoscitive.
Questa premessa, tanto indispensabile quanto comprensibilmente sintetica, deve concludersi con altre definitive, ma molto controverse parole di Sartori: “la politica si spiega con la politica”. Non sarà il capitalismo a spiegare le forme di governo, la loro esistenza, funzionamento, trasformazione. Non basterà la psicologia a chiarire i comportamenti delle leadership politiche. Non servirà mettere all’opera la demografia per individuare come cambia un sistema politico. Economia, psicologia, demografia hanno le loro innegabilmente utili specificità. Contribuiscono conoscenze anche di grande interesse, ma la politica, quello che è, come funziona, le modalità del suo cambiamento, dipende da elementi e fattori politici, da regole e da istituzioni. Naturalmente chi non condivide questa impostazione politica e comparata è invitato a criticarla “scrivendo contro”, proponendo le alternative praticabili punto per punto, evidenziando i loro costi e i loro vantaggi esplicativi, formulando una interpretazione più convincente. Sartori aggiungerebbe “capace di viaggiare” nello spazio e nel tempo. Dal canto mio, in questo breve scritto nella misura del possibile e delle mie capacità farò tesoro di e ricorso a ciascuno degli insegnamenti di Sartori.
Scrivere contro.
Da un lato, è impossibile procedere ad una ricognizione approfondita degli articoli e dei libri dedicati alla crisi dell’Occidente in particolare sotto forma di declino e di tramonto (non ho visto le parole tonfo e crollo, ma il senso è spesso anche quello); dall’altro, è persino inutile farlo poiché quasi nessuno di quegli scritti contiene elementi di originalità. Qui mi limito a due titoli recenti dello stesso quotidiano: “Paura e nostalgia. L’autunno dell’Occidente” e “Occidente in crisi”. Il primo, pubblicato il 13 novembre 2022 (pp. 36-37), è una intervista a Andrea Graziosi in occasione della pubblicazione di un suo libro L’Ucraina e Putin, nel quale forse la discussione avrebbe potuto opportunamente essere indirizzata anche sul possibile tramonto della Russia. Il secondo è il resoconto della Lettura del Mulino affidata allo stesso studioso e pubblicato il 27 novembre dal Corriere di Bologna (p. 13) nella quale si preannuncia l’uscita di un libro in materia. Non sintetizzo poiché intendo leggere il libro (e, eventualmente, recensirlo, forse addirittura per “Paradoxa”!). Al momento, due osservazioni mi paiono assolutamente necessarie. La prima è la mancanza di una definizione sufficientemente operativa di che cosa si intende quando si parla di Occidente. La seconda è l’incrocio latente e/o manifesto fra tre presunte crisi: quella, principale, dell’Occidente, quelle, non saprei se secondarie o derivate, della Unione Europea e quella, presunta, delle democrazie.
Quanto alla definizione di Occidente non sarei soddisfatto dalla soluzione talvolta “generosamente” proposta: “ognuno ha la sua definizione”, certamente tutto meno che scientifica e inadeguata a stabilire feconde interazioni intersoggettive. Concedete a ognuno la sua definizione e vi troverete nel caos lessicale e concettuale. Vero è che spesso le definizioni indirizzano l’analisi, ma sono anche per questo criticabili e migliorabili, pertanto utili. Personalmente, mi sono fatto l’opinione che la maggior parte degli autori ritenga che Occidente è Europa più USA, qualche volta dicendo America, quindi aggiungendovi anche il Canada e i paesi dell’America latina. I più colti non si dimenticano che, facendo uno strappo alla geografia, Australia e Nuova Zelanda debbono certamente trovare posto nell’Occidente. Questa è anche la tesi di Huntington: “L’Occidente comprende l’Europa, il Nord America, più altri paesi a forte colonizzazione europea quali l’Australia e la Nuova Zelanda”, mentre l’America latina è definita “una civiltà a sé stante strettamente associata all’Occidente e divisa in merito alla sua appartenenza o meno ad esso (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997, p. 53). Probabilmente, i molti latino-americani che sono anti-USA accetterebbero questa loro collocazione ambigua: un po’ democratico/occidentale e un po’ no, e ne farebbero un vanto. In sostanza, mi attesto su una definizione che ritengo elegante e parsimoniosa: Occidente è la combinazione giudiziosa di geografia e storia, politica democratica, valore della persona.
Nel prosieguo della maggior parte delle analisi, l’Unione Europea e gli Stati Uniti fanno la parte del leone. E anche degli USA, in effetti, si riscontrano gli elementi che ne segnalano il declino assoluto oppure relativo, facendo il confronto con la Cina. Dal Presidente francese François Mitterrand (1981-1995) ho imparato dove arrivava ovvero, meglio, finiva la sua Europa: (dall’Atlantico) agli Urali. Grazie al grande professore di Government a Harvard, Samuel P. Huntington so che le civiltà possono riguardare paesi contigui, ma anche no, e che “la sopravvivenza dell’Occidente dipende dalla volontà degli Stati Uniti di confermare la propria identità occidentale e dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare, ma non di universale, e di unire le proprie forze per rinnovarla e proteggerla dalle sfide provenienti dalle società non occidentali” (Ibidem, p. 15 c.vi miei). Di protezione ha grande necessità e urgenza poiché “sono la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping a guidare l’assalto all’Occidente” sostiene senza mezzi termini Maurizio Molinari (Assedio all’Occidente, Milano, La nave di Teseo, 2019, p. 13).
Quanto agli incroci, gli acuti studiosi che vedono crisi dappertutto (curiosamente non nei regimi autoritari), in particolare nell’Unione Europea e nelle (liberal)democrazie, sono inevitabilmente costretti a denunciare l’impatto di queste crisi sull’Occidente. Altrove, spesso, ho criticato, rimanendo nel solco del “pensare contro”, gli analisti delle crisi e gli esiti delle loro riflessioni. Qui drasticamente affermo che non esiste nessuna crisi nel sistema politico dell’Unione Europea e che nessuna democrazia occidentale, ad eccezione, se si vuole, del Venezuela, è crollata negli ultimi trent’anni. Manteniamo pure le giuste e opportune riserve nei confronti del funzionamento dei regimi democratici in Polonia e, soprattutto, in Ungheria, ma nessun crollo è alle viste. Anzi, potrebbe presto manifestarsi quello che intendo chiamare “rimbalzo democratico”.
Comunque, chi voglia parlare e scrivere di “crisi dell’Occidente/di Occidente in crisi” ha l’obbligo preliminare di definire con ragionevole precisione che cosa significa “crisi” e che cosa è l’Occidente. Del “mio” Occidente, che non è una semplice categoria geografica, ma attiene a una cultura/civiltà condivisa, ho già detto sopra. Per quanto riguarda la definizione di crisi, personalmente ritengo ci si debba riferire a una rottura profonda del modello esistente, rottura non rimediabile con qualche rammendo, ma che richiede una vera e proprio ristrutturazione. Sia il tipo di rottura sia le modalità della ristrutturazione appaiono fortemente problematiche tanto dal punto di vista concettuale quanto dal punto di vista dell’individuazione nella storia di rotture e ristrutturazioni. Il libro di Edward H. Carr, The Twenty Years’ Crisis, 1919-1939 (1939), coglie l’elemento centrale e cruciale. In quel fatidico ventennio, crisi fu la rottura irrisolta e non ricomposta nel sistema di relazioni internazionali fra gli Stati europei. La seconda guerra mondiale produsse una ristrutturazione totale dei rapporti fra gli Stati che portò all’instaurazione di un ordine internazionale liberale da qualche tempo in visibili difficoltà (crisi?), ma senza che se ne intravveda un sostituto funzionale egualmente accettabile (sul punto Vittorio Emanuele Parsi, Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, Bologna, il Mulino, 2022). Ovvero, una ristrutturazione dell’occidente e dell’ordine internazionale dovrà fare seguito alla fine dell’aggressione russa all’Ucraina, ma le sue, al momento imprevedibili, modalità dipenderanno dagli esiti della guerra.
Per chi accetta, com’ è il mio caso, questa accezione di crisi e il suo riferimento agli Stati e ai loro rapporti, riesce molto difficoltoso e nient’affatto utile attribuire la crisi dell’Occidente e il suo declino a fattori come la paura, la nostalgia, l’ansia collettiva, l’invecchiamento della popolazione. Citerò per esteso dall’articolo del “Corriere di Bologna”: “attese di crescita sfumate, disomogeneità culturale, religiosa e etnica, formazione di uno scontento livido e reazionario … rancore generato nei giovani dalla loro oggettiva emarginazione e da aspettative decrescenti, solitudine montante nella parte più anziana della popolazione, irritata contro mutamenti troppo veloci”. Su tutto si colloca, nelle parole di Graziosi riportate nell’articolo, “l’incapacità delle élite di garantire la realizzazione delle aspettative della popolazione, con conseguente sfiducia nei loro confronti”. Di tutte le élite? Di tutte le aspettative? Di quale popolazione? Con quanta sfiducia? Espressa con quali modalità? Non concluderò affermando che sembra fin troppo facile scrivere contro l’affermazione citata. Certamente, è doveroso chiederne le indispensabili precisazioni esplicitando anche alcune essenziali confutazioni. Magari confrontandosi anche con la tesi originale dell’Occidente come “una figura drammaticamente incompiuta” dove “incompiutezza … non vuol dire tramonto. Significa piuttosto sospensione e incertezza” (Aldo Schiavone, L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria, Bologna, il Mulino, 2022, p. 22 e p. 23). A suo tempo.
Comparazione.
“Chi conosce un solo Occidente non conosce neppure quell’Occidente”. Epperò, qualcuno sosterrebbe che non siamo in grado di moltiplicare gli Occidente al puro scopo di procedere a comparazioni che amplino e/o rafforzino le nostre conoscenze. Quel qualcuno, come scriverò più avanti, sbaglierebbe. Per lo più, sembrerebbero avere partita vinta fin troppo facilmente coloro che affermano che se si vuole procedere ad una comparazione significativa e istruttiva, essa va fatta, ad esempio, con l’Oriente. Però, se si è già rivelato molto problematico individuare l’Occidente e dargli unitarietà, lo sarebbe ancora di più per l’Oriente, a sua volta notevolmente diversificato. Come mettere e tenere insieme la Cina e l’India, il Giappone e l’Indonesia? Dunque, la comparazione Occidente/Oriente è, salvo una molteplicità di accorgimenti e di note di cautela, improponibile, a troppo alto livello di genericità. Fortunatamente esiste una strategia altamente raccomandabile al fine di effettuare una comparazione feconda di apprendimenti. Si traduce in due modalità di comparazione. La pima, comparazione intrasistemica, consiste nell’individuare aggregazioni di sistemi politici, ad esempio, gli Stati scandinavi, i paesi anglosassoni, l’Europa meridionale e paragonarli con riferimento alla variabile desiderata: durata della democrazia, stabilità dei governi, partecipazione elettorale, natura dei sistemi di partiti. L’altra strategia, preferibile per i miei obiettivi in questo sintetico articolo, consiste nel comparare l’Occidente stesso (sì, lo so, con comunque inevitabili variazioni che sono proprio il sale di questa modalità) in tempi diversi. La comparazione intertemporale consente di acquisire numerose importanti conoscenze sull’oggetto di studio. L’Occidente com’era prima della guerra 1914-1918 paragonato all’Occidente del dopoguerra. L’Occidente nel 1945 paragonato con l’Occidente dopo il 1989. Infine, l’Occidente del secondo immediato dopoguerra con l’Occidente del 2022.
Le comparazioni intertemporali al tempo stesso più semplici e più rivelatrici riguardano il numero dei regimi democratici. Grazie a Huntington tutti hanno preso contezza del fenomeno da lui definito democratic wave, che tradurrò con ondate di democrazia. Rimando al suo bel libro La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo (Bologna, il Mulino, 1995) per le prime due ondate limitandomi a segnalare che hanno riguardato essenzialmente i sistemi politici occidentali e mi soffermo brevemente sulla terza ondata. Si tratta di un’ondata particolarmente importante culminata nella caduta del muro Berlino 8/9 novembre 1989 che travolse i regimi comunisti dell’Europa orientale aprendo lo spazio alla loro, peraltro molto complicata e differenziata, democratizzazione
La maggior parte di quei sistemi politici già comunisti tentò di coronare l’instaurazione della democrazia (occidentale) con l’accesso all’Unione Europea, concesso soltanto ai sistemi politici che danno la garanzia di promuovere e proteggere i diritti civili e politici dei cittadini e di operare secondo i criteri della rule of law. Nella prospettiva che qui interessa, il crollo del Muro di Berlino pose fine ad un doloroso distanziamento storico e politico, di mondi vitali, durato quarantacinque anni, fra le democrazie dell’Europa occidentale e i sistemi politici dell’Europa centro-orientale.
In questo importantissimo caso, quel che era Occidente rivelò di avere una enorme capacità di attrazione, mentre i cittadini dei sistemi politici delle cosiddette democrazie popolari espressero limpidamente il loro desiderio di (ri)congiungimento politico e ideale a una storia e a un ambito che sentivano anche loro. Forse, come ha acutamente sottolineato Milan Kundera, Un’Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale (Milano, Adelphi, 2022) gli europei occidentali e i dirigenti dell’Unione Europea, pur aprendo le porte alla adesione, non compresero appieno le aspirazioni degli europei centro-orientali, da non trattare come parvenus, come cittadini di seconda classe, e non si posero il compito di come soddisfarle. L’Occidente rimaneva attraente, ma non si rivelò sempre e per tutti accogliente. Molti europei centro-occidentali nutrivano aspettative troppo elevate; molti non erano preparati; molti divennero prigionieri della nostalgia di regimi che avevano comunque garantito sicurezza senza ansi di competizione, acquisizione, prestazione. ,
In maniera che oscilla tra scetticismo e pessimismo, Huntington si interrogò molto problematicamente anche sull’eventualità di un riflusso non-democratico nei sistemi politici dell’Europa centro-orientale (pp. 303-308), che facesse seguito alla comparsa di una sorta di dittatura elettronica legittimata e resa possibile dalla manipolazione dell’informazione, dei media e di altri sofisticati mezzi di comunicazione (pp. 307-308). Oggi sappiamo che qualcosa di più essenziale è in ballo: la rule of law e i diritti dei cittadini. Non dovremmo, peraltro, parlare di crisi conclamata, ma di sfide da affrontare. Non mi pare questione di lana caprina.
Le possibilità di comparazione intertemporale si moltiplicano a seconda degli interessi e degli obiettivi di ricerca degli studiosi. Ma, qual è il problema, l’interrogativo di ricerca al quale prestare maggiore attenzione: il declino/la crisi dell’Occidente? In quali termini dovremmo declinare, il bisticcio di parole è del tutto voluto, la crisi e le sue componenti? Escludo fin dall’inizio qualsiasi riferimento esclusivo e decisivo alle variabili economiche. D’altronde, fermo restando che studi di questo genere sarebbero utilissimi, anche, soprattutto per i “declinisti”, è semplicissimo rilevare come la maggioranza dei paesi occidentali siano in cima a tutte le classifiche degli indicatori economici e come nessuno, neppure quelli dalle prestazioni peggiori, si trovi nella seconda metà delle classifiche disponibili. Naturalmente, i “declinisti” buttano subito la palla in tribuna e si dirigono verso l’elementi che, quando non sono impalpabili o quasi, risultano di difficilissima, per quanto non del tutto trascurabile, misurazione: paura, nostalgia, ansia et al., esistenti, ma fluttuanti. Tuttavia, possono essere manipolati e mobilitati a favore di politiche populiste. Non c’è dubbio che esistono relazioni anche abbastanza strette fra declinismo e populismo. Infatti, alcuni degli studi migliori del populismo in Occidente guardano proprio a elementi culturali: Pippa Norris e Ronald Inglehart, Cultural Backlash. Trump, Brexit, and Authoritarian Populism (Cambridge, Cambridge University Press, 2019).
Non volendo evitare del tutto una valutazione comparata sono costretto a fare riferimento a un unico indice composito e assolutamente affidabile: l’Indice di Sviluppo Umano elaborato dalle Nazioni Unite. I tre elementi sui quali si basa sono: il reddito pro capite, il livello di istruzione e le aspettative di vita. Quali sistemi politici hanno garantito ai loro cittadini maggiore benessere economico, migliori scuole e sanità più efficiente? Nei primi trenta posti della graduatoria si trovano soltanto sistemi politici occidentali con sei eccezioni: Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Giappone, Israele, Emirati Arabi. Noto che soltanto due delle eccezioni sono regimi non-democratici anche se la Cina ha forse già posto fine alla democrazia in Hong Kong.
Poiché conosciamo l’obiezione che il benessere non rende necessariamente felici, ho fatto una escursione proprio nel campo della felicità. Grazie al World Happiness Report 2022 sono in grado di comunicare ai lettori che nei primi trenta paesi della graduatoria compaiono praticamente gli stessi paesi occidentali. Gli intrusi, per così dire, nella posizioni oltre la ventesima sono Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Taiwan e Singapore (l’Italia è 31esima; la Francia 20esima). Sono paesi nei quali, evidentemente, il tenore di vita, la ricchezza, anche se molto irregolarmente distribuita, fa una differenza per la felicità. Non c’è niente da aggiungere tranne qualche doverosa riserva sulla distribuzione interna della felicità per i paesi grandi produttori di petrolio.
A questo punto, anche per ragioni disciplinari, ritengo importante affermare che qualsiasi analista dovrebbe porsi il compito di connettere il benessere socio-economico con le regole e le procedure di funzionamento del sistema politico. In special modo, questo compito è imperativo per i declinisti: il cosiddetto Occidente non garantisce più il benessere economico anche perché nel suo seno si manifesta la crisi della democrazia liberale che viene rimpiazzata da altri regimi illiberali e non democratici? Purtroppo, nonostante il gran parlare di crisi, riferita all’Occidente, e della superiorità decisionale dei regimi non-democratici, non esiste nessuna analisi comparata che metta in relazione lo sviluppo economico con il tipo di regime. L’interessante analisi pionieristica del commentatore politico Fareed Zakaria (The rise of illiberal democracy, in “Foreign Affairs”, November/December 1997, pp. 22-43) coglie il manifestarsi del fenomeno delle democrazie illiberali nel loro nascere, ma le sue implicazioni e conseguenze sono appena accennate. Gli studi successivi non hanno finora fatto meglio. A mio modo di vedere rimane anche aperto il problema definitorio vale a dire se si possa appropriatamente parlare di democrazia quando mancano gli elementi liberali. Quasi sicuramente, Sartori sosterebbe di no. Sto agiatamente dalla sua parte.
Più spesso che no, con l’eccezione dell’Ungheria e di alcune tendenze in Polonia, le tendenze illiberali si sono manifestate in sistemi politici (l’elenco è di Zakaria) che sarebbe molto ingiustificatamente generoso definire democrazie: Peru, l’Autorità Palestinese, la Sierra Leone, il Pakistan, le Filippine, tanto è vero altri studiosi hanno ricorso piuttosto alla categoria altrettanto scivolosa “autoritarismi competitivi” (Steven Levitsky e Lucan A. Way, Competitive Authoritarianism. Hybrid Regimes After the Cold War, Cambridge, Cambridge University Press, 2010). Prima, meglio che poi, sarà necessario fare chiarezza, ma il punto rimane. Peraltro, tutte queste etichette, più o meno azzeccate, e le relative esemplificazioni non riguardano che molto marginalmente l’Occidente ovvero due o tre sistemi politici nei quali, per di più, i giochi sono tutt’altro che fatti.
Spiegare (con) la politica. Anche per capire meglio e spiegare le varietà di esperienze e regimi autoritari, appare indispensabile tenere conto del terzo insegnamento di Sartori: fare ricorso fondamentalmente alle variabili politiche. Per quanto implicita, la premessa non potrebbe essere meno importante. Nessun obiettivo esplicativo potrà essere conseguito da chi non sa, non riesce, non vuole separare la politica dalla religione. Non soltanto quanto proposto e effettuato da Machiavelli è assolutamente decisivo per chi fa e per chi analizza la politica. Oserei dire che è il precetto analitico e politico occidentale per eccellenza: l’autonomia della politica. Sappiamo che questo precetto è negato in radice e respinto da tutti i fondamentalismi, in modo particolarmente brutale dall’Islam, come prova ad abundantiam la teocrazia al potere in Iran.
Se la politica nella sua essenziale autonomia va spiegata con la politica, allora tre insiemi di elementi meritano di essere presi in considerazione e analizzati: le idee/ideali; le regole e le procedure; le istituzioni. Non è questa la sede nella quale andare alla ricerca delle modalità con le quali si sono affermate le tre grandi idee “occidentali” vessillo della Rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, solidarietà (che è la mia traduzione di fraternité). Pur senza svolgere una ricognizione approfondita, credo si possa dire che queste idee/ideali occidentali non hanno trovato accoglienza unanime né elaborazioni ulteriori nel mondo non occidentale. Naturalmente, dobbiamo, da un lato, preoccuparci tutte le volte che quelle idee/ideali vengono trascurate e tradite nello stesso Occidente, ma, dall’altro, rallegrarci, non sono gli unici esempi, quando a Hong Kong gli studenti e a Teheran le donne manifestano a loro sicuro rischio e pericolo esponendo striscioni inneggianti alla libertà, più precisamente, poiché il messaggio è inteso per il mondo, freedom. Il riferimento è alla libertà politica, ma anche alla libertà dalla paura, alla libertà nella scelta degli stili di vita non, come spesso sostengono pensatori e politici occidentali, alla deregolamentazione.
Le regole e le procedure, vale a dire la famosa/famigerata democrazia “formale” senza la quale non riuscirebbe mai ad emergere, a affermarsi, a persistere nessuna democrazia “sostanziale”, stanno nelle Carte costituzionali, altro grande prodotto politico-culturale dell’Occidente. Incidentalmente, il costituzionalismo è inseparabile dal liberalismo e viceversa. Infatti, nel mondo non democratico, non occidentale le Costituzioni non danno nessuno spazio ai precetti liberali e sono, per lo più, carta straccia.
Il discorso sulle istituzioni dell’Occidente richiede un più ampio respiro. Deve partire dalla pietra miliare della separazione delle istituzioni e dei loro rispettivi poteri come delineata da Montesquieu nel saggio De l’esprit des lois (1748). Strappare potere all’esecutivo assegnandolo oculatamente al legislativo e al giudiziario nella consapevolezza che i confini saranno sempre oggetto di conflitti, ma anche che quei conflitti non dovranno mai terminare con la vittoria assoluta, irreversibile di un potere sugli altri. L’Occidente come è evoluto da allora e come lo conosciamo è caratterizzato da una notevole varietà di forme di Stato (monarchie/repubbliche; stati accentrati/stati federali, l’Unione Europea essendo uno Stato federale in the making) e di forme di governo (parlamentari, presidenziali, direttoriali, semipresidenziali) il cui cardine è la democraticità, vale a dire il rapporto di accountability fra rappresentanti e elettori. Il termine migliore per designare questa peculiarità occidentale non è il troppo vago “varietà”, ma pluralismo, anzitutto, weberianamente inteso, come autonomia delle diverse sfere di attività degli uomini e delle donne: cultura, economia, religione, scienze sociali, ciascuna con i suoi specifici criteri razionalità. In Occidente l’autonomia di queste sfere, ciascuna e tutte, è garantita. In secondo luogo, il pluralismo va compreso e riferito alla molteplicità dinamica di esperienze in competizione che nascono, si trasformano, muoiono, si ripresentano sotto mutata forma, ma dentro i canoni democratici. Proprio dentro quei canoni si sviluppa la competizione che, anche se viene esposta al rischio di una conquista egemonica, grazie al pluralismo strutturale e sociale risulta in grado di farvi fronte con successo. La sfida “monista” di Donald Trump, “Make America Great Again”, che mirava a concentrare tutto il potere politico nelle sue mani in quanto vincitore delle elezioni presidenziali, ha costituito il momento della verità per la democrazia USA. La sua sconfitta, anche se non è ancora scontato che sia definitiva, parla di anticorpi democratici diffusi e sufficientemente solidi.
Nel quadro di questo rassicurante pluralismo, non è, però, da sottovalutare il pericolo evidenziato da Vera Zamagni (Occidente, Bologna, il Mulino, 2020, pp. 102-107) consistente nella mancanza nelle democrazie di un principio trascendente. In società caratterizzate da pluralità di credenze religiose e non religiose, probabilmente confortate dalla convinzione che nessuno tenterà di imporre a tutti gli altri la propria credenza, il proprio principio trascendente e esclusivo, non sembra che vi sia spazio per procedere in questo senso. In verità, la battaglia è in corso, in maniera molto esacerbata da qualche decennio negli USA. In Europa, neppure la presenza già vistosa e imponente dell’Islam ha finora suscitato richieste di un fronte comune a sostegno di un unico principio trascendente in grado di contrapporsi all’Islamismo. Questa reductio ad unum non sarebbe comunque coerente con la evoluzione e l’essenza dell’Occidente. Piuttosto dovremmo attenderci conflitti fra ideali, società più coese, individualismi più marcati, tensioni fra spazi di libertà e esigenze di eguaglianza. Il pluralismo dell’Occidente è spesso più che semplicemente competitivo; è anche conflittuale, sanamente tale.
Non finisce qui.
Pretendere di offrire una sintesi alla visione di Occidente che ho qui delineato sarebbe altrettanto incongruente con il mio tentativo svolto all’insegna del pluralismo e della competizione. Questo Occidente è apparentemente permeabile poiché in effetti è una “società aperta”, proprio come voleva il filosofo e epistemologo austriaco Karl Popper (1902-1994), ma non è conquistabile. Al contrario, l’Occidente dilaga con le sue idee e il suo esempio e le società chiuse reagiscono con risentimento e rancore, con repressione. L’Occidente risulta spesso capace di adattamenti nei limiti che di volta in volta stabilisce lui stesso. Gli occidentali hanno imparato a scegliere fra ragione e coscienza, a combinare, proprio come desidererebbe Max Weber, l’etica della convinzione con l’etica della responsabilità. Più problematicamente, le loro democrazie sono approdate alla consapevolezza che la pax kantiana, quella fra Repubbliche che sanno federarsi, è possibile e duratura, perpetua (che è l’aggettivo usato da Immanuel Kant). Lo hanno imparato a caro prezzo le democrazie del cuore dell’Europa costruendo l’Unione Europea. La lezione è giunta ai sistemi politici dei Balcani che faticosamente agiscono di conseguenza per ottenere di aderirvi. Non è finita.
D’altro canto, più in generale, che tuttora vi siano problemi e sfide, nell’Occidente e contro l’Occidente, non autorizza e non consente a nessuno, meno che mai ai non occidentali, di parlare di crisi dell’Occidente. Al contrario, rifiutando nei fatti e nei comportamenti le tesi dei declinisti, ogni giorno milioni di donne e uomini riconoscono che l’Occidente, si chiami Europa o USA, Svezia o Germania, Texas o California, Australia o Canada, è innegabilmente luogo agognato e preferito di diritti umani, di opportunità e di istituzioni, di pluralismo e di competizione nel quale vivere e fare vivere le proprie famiglie. Anche per chi la pensa così e tutt’altro che soltanto nella mia mente, questo è l’Occidente.
perché vi preoccupate tanto dei miei personali conti con la Storia? Non è mai stata la mia materia preferita. Ho sempre preferito la politica, ma mai trovato il tempo di studiare la Scienza della politica (chi sa poi se di vera scienza si tratta). Comunque, non mi importa tanto la scienza da tavolino. Sono una praticante e gli elettori hanno dimostrato con il loro voto che valutano la mia pratica superiore a quella di tutti gli altri capipartito, compreso quel saccentone di Letta. Il confronto con la Schlein, vedremo. Del 25 aprile avrei fatto volentieri a meno. Non fraintendetemi, però. A grande richiesta ho dovuto mandare una lettera al Corriere della Sera. No, niente abiure. Tecnicamente, fascista non sono mai stata, ma certo l’ambiente in cui sono cresciuta, anche bene, antifascista proprio non potrei definirlo e, comunque, non mi conviene parlarne male. Sono tanti i voti che vengono e verranno (dove vanno altrimenti?) da lì. Davvero volete farmi il test della conoscenza e della valutazione della Resistenza e dell’importanza politica e civile del 25 aprile? Se volete saperne di più, ascoltate e leggete il bellissimo discorso del Presidente Mattarella a Cuneo. Ma, non sono mica in competizione con il Presidente il quale poi saprebbe conquistarseli i voti? Aspettate la mia riforma semi-presidenziale e li vedremo quelli della sinistra a scegliere e fare “correre” il loro candidato. Vero: il vecchio democristiano Mattarella sa come spiegare la storia, connettere i fatti, collegare le date. Superiore. La mia ars politica è differente. So come impastocchiare, saltare di paolo in frasca, mischiare qualche brandello di verità storica con qualche illazione nient’affatto gratuita, anzi redditizia. Anch’io so che devo guardare fuori dai sacri confini della patria. A Bruxelles c’è sempre qualche tecnocrate senza patria che cerca di cogliermi in fallo. Non ho mai scritto antifascismo? Ma ho scritto belle parole sui valori democratici, sulla Costituzione repubblicana (che ha concesso al MSI di fare politica, ma questo non l’ho scritto), sulla democrazia liberale (con i fischi nelle orecchie di Orbán &Co e la loro democrazia illiberale). Non mi costa niente. La linea la do io. Ė persino meglio quando qualche vecchio “amico” (non posso scrivere né camerata né compagno d’armi) si sbizzarrisce, ovvero dice quel che pensa con le viscere perché (quasi) subito lo metto in riga e vengo addirittura elogiata. Adesso, consegnato il compitino, mi metto al lavoro per voi italiani, non tutti, ma non chiedete a me di parlarvi di interpretazione, rispetto e allargamento dei diritti (donne, Lgbt, immigrati). Lasciatemi lavorare. Sono una donna (quasi) sola al comando che sa dove vuole andare e come vuole arrivarci. Oggi a Roma domani a Bruxelles. Appuntamento alle elezioni del Parlamento europeo.
Non può esserci nessuna mielosa pacificazione fra queste due visioni della politica, fascista e democratica, e in buona sostanza, della vita. Sono inconciliabili. Proprio questa inconciliabilità volevano i costituenti: porre argini invalicabili alla ricomparsa di qualsiasi forma, modalità, assetto autoritario. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore Emerito di Scienza politica e Accademico dei Lincei, in libreria con il suo nuovo libro “Il lavoro intellettuale”
Agli affastellatori di date bisogna contrapporre che l’unico collegamento inscindibile è quello fra il 25 aprile e il 2 giugno. Senza la vittoria della Resistenza nessun referendum monarchia/Repubblica e nessuna elezione dell’Assemblea Costituente sarebbero stati possibili. A coloro che negano il carattere antifascista della Costituzione, non basta contrapporre la XII disposizione che vieta la ricostituzione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista che, comunque, si ricostituì e che, forse sarebbe stato subito disciolto da una Corte costituzionale attiva fin dal 1948. Sono tutti gli articoli sui diritti dei cittadini, sul pluralismo dei partiti e sulla separazione e autonomia delle istituzioni: Presidenza, Governo, Parlamento e Magistratura, che rendono la Repubblica italiana strutturalmente antifascista, contro tutto quello che fu istituzionalmente e politicamente il fascismo.
Non può esserci nessuna mielosa pacificazione fra queste due visioni della politica, fascista e democratica, e in buona sostanza, della vita. Sono inconciliabili. Proprio questa inconciliabilità volevano i costituenti: porre argini invalicabili alla ricomparsa di qualsiasi forma, modalità, assetto autoritario. Ancora oggi i critici della forma di governo parlamentare istituita con la Costituzione italiana sottolineano che al Presidente del Consiglio furono attribuiti scarsi poteri decisionali poiché i Costituenti agivano sotto “il complesso del tiranno”: mai più troppi poteri ad un uomo (una donna?). Curiosamente e contraddittoriamente, sono gli stessi che sostengono che la Costituzione non è antifascista. Ma, l’eventuale carenza di potere decisionale del Presidente del Consiglio dipende, molto più che dagli articoli che lo riguardano, dalla necessità, in un paese attraversato da molte fratture sociali, di dare vita a governi di coalizione fra più partiti, sicuramente più rappresentativi che richiedono però tempi di accordo e di decisione necessariamente più lunghi.
Anche questo, la disponibilità al confronto e al compromesso, è, forse, da considerarsi un elemento propriamente democratico e antifascista laddove il fascismo esaltava il potere e le capacità personali del Duce. La Costituzione ha anche saputo domare i fascisti, gli ex-fascisti e i post-fascisti proprio con la flessibilità delle sue istituzioni, contrastando le sfide di stampo fascista fino al Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli. In uno slancio di comprensibile retorica democratica che ha molti predecessori certamente più eminenti e più qualificati di me, l’antifascismo della Costituzione sta nel fatto tanto semplice quanto cruciale che la Costituzione tutela e rispetta il dissenso, in qualche modo persino lo ritiene positivo. Di contro, il fascismo si fece vanto di sapere schiacciare qualsiasi modalità di dissenso e punì spesso, anche con la morte, coloro che, lucidamente consapevoli dei rischi, ne erano portatori. La Costituzione italiana ha bandito la pena di morte. Ricordare tutto questo è il modo migliore di celebrare il 25 aprile che lo ha reso pssibile.
Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica e Accademico dei Lincei. Il suo nuovo libro si intitola
C’è chi sostiene che la “la pacificazione” avverrà” quando entrambe le parti condivideranno la tesi che la Resistenza comportò una guerra civile. In verità, la guerra civile cominciò quando le squadre fasciste si avventarono sui lavoratori, sui sindacati e sui partiti e dirigenti di sinistra. Questa sequenza spiega anche, non necessariamente assolve, perché in alcuni contesti poco prima e dopo il 25 aprile, alcuni partigiani procedettero a “punire” i fascisti e i loro fiancheggiatori.
Non so quanti abbiano letto il fondamentale volume di Claudio Pavone, appunto Una guerra civile (Torino, Bollati Boringhieri 1991), ma Pavone scrive di tre guerre nella Resistenza. Oltre alla guerra civile fra partigiani e fascisti, furono combattute due altre guerre: un patriottica e una di classe. Ovvio che i partigiani combattessero anche, in alcuni contesti, soprattutto contro i nazisti, invasori e occupanti. Fu una guerra, in termini moderni, di liberazione nazionale nella quale i fascisti si schierarono con i nazisti, divenendo più che collaborazionisti, veri e propri traditori della patria. In questo senso è accettabile parlare di morte della patria quando i fascisti costituirono lo stato fantoccio noto come Repubblica di Salò. La terza guerra fu una guerra di classe. Molti fra i partigiani, nient’affatto esclusivamente i comunisti, volevano dare una vita uno Stato dei lavoratori, molto diverso da quello che si era inchinato a Mussolini. Molti di loro, ripeto non soltanto fra i comunisti, ritenevano indispensabile cambiare la struttura di classe dello Stato italiano e, in senso più lato, i rapporti sociali per eliminare ogni traccia di fascismo e qualsiasi possibilità di suo ritorno. Senza volere troppo forzare le sue parole, uno dei grandi Costituenti, Piero Calamandrei, giurista esimio del Partito d’Azione, offrì indirettamente sostegno a quelli che erano gli obiettivi di rinnovamento profondo perseguiti dalla guerra di classe, affermando che la Costituzione era “una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata”. A lungo, non solo fra i partigiani si parlò a (s)proposito di Resistenza tradita.
La parola d’ordine “attuare tutta la Costituzione” mirava proprio a dare sostanza a quegli obiettivi di rinnovamento sostanziale della società italiana, obiettivi che sono efficacemente delineati nell’art. 3 della Costituzione. Insistere nel sottolineare che la Resistenza è stata quasi essenzialmente una guerra civile e che è la destra finalmente al governo che generosamente offre la pacificazione manipola la molto più complessa verità storica. Tenta di fare dimenticare i crimini compiuti contro gli italiani dai fascisti solidamente sostenuti dai nazisti. Esclude dalla riflessioni l’obiettivo mancato del profondo rinnovamento di una società e delle organizzazioni: la Chiesa, la burocrazia, le associazioni industriali che con il fascismo erano venute a patti e che del tutto consapevolmente cercarono, anche offrendo rifugio ai fascisti sconfitti, ma non epurati, di mantenere i privilegi acquisiti e di averne fatto pessimo uso con conseguenze che sono tuttora visibili nel dibattito e nell’azione politica. In un certo senso, la necessità di profondi mutamenti sociali e culturali, è vero che la Resistenza deve continuare.