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Gianfranco Pasquino “Torino ha imbalsamato Bobbio. Università e Comune si impegnino di più” #intervista @LaStampa

Intervista raccolta da Francesco Rigatelli

Il professore e allievo: “Per tenerlo vivo un ciclo di lezioni sui suoi temi, dalla pace alla disobbedienza”

«Lo hanno imbalsamato». Gianfranco Pasquino, 81 anni, torinese, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, difende la memoria del suo maestro Norberto Bobbio. «Il suo pensiero non è morto. Una volta mi disse che lo avevano idealizzato e non riuscivano a confrontarsi con lui. Il suo lascito è al Centro Gobetti, ma servirebbe un ciclo di lezioni a partire dalle sue tematiche, dalla pace alla disobbedienza civile, per tenerlo vivo. L’Università e il Comune dovrebbero impegnarsi di più e prendere iniziative di questo genere. L’unico tentativo in questo senso è quello di Biennale democrazia».

Che ricordi ha del suo maestro?

«Era il 1965. Mi laureai con lui come relatore con una tesi di Scienza politica. Il corso era stato attivato da poco. Io lo ebbi come docente anche di Filosofia del diritto. Teneva grandi lezioni con poche note, rari richiami all’attualità e provocando poche domande perché non ce n’era bisogna tanto era esauriente. Era il classico torinese riservato, serio senza essere severo, ironico senza esagerare».

Come scattò la scintilla tra voi?

«La mia tesi non fu eccezionale, ma ci fece incontrare diverse volte perché gli piaceva l’argomento: l’opposizione dei piccoli partiti al fascismo. Dopo andai all’estero e di ritorno mi disse che Giovanni Sartori, con cui si stimavano, cercava un assistente a Firenze. Mi spiegò che di solito non faceva raccomandazioni, ma che lo avrebbe informato della mia domanda se l’avessi presentata. Tempo dopo mi chiamò per affidarmi la redazione del dizionario Utet di politica e questo riaccese il nostro rapporto. Vinsi il concorso da professore a Bologna e tornavo a Torino per vedere mia mamma e Bobbio».

Com’erano i vostri incontri?

«All’inizio ruotavano attorno alla redazione del dizionario. Quando da parte di alcuni collaboratori arrivavano delle voci che non andavano bene lui faceva rispondere a me. Il rapporto divenne più personale e dal 1976 al 2004 anche la domenica mattina andavo in via Sacchi 66.Lui lavorava sempre e aveva quella che definiva “la rottura di palle”delle interviste che spesso lamentava non rappresentassero bene il suo pensiero. Ne ricordava in particolare una a L’Espresso che riteneva di non aver concesso».

Quali erano i suoi temi di conversazione preferiti?

«La politica, ma anche i romanzi di Pavese e Calvino o i sudamericani, e il cinema. Era un socialista di matrice azionista, dunque di grande etica, come i suoi amici tra cui su tutti Vittorio Foa. Non riuscì a fare politica perché nel 1946 non venne eletto alla Costituente e non ci riprovò. Ammirava Nenni e De Martino, mentre non condivideva i modi di Craxi, che lo definì “filosofo che aveva perso il senno”».

Qual era il suo pensiero politico?

«Riteneva che i comunisti potessero essere ricondotti alla democrazie e sostanzialmente aveva ragione. Il dialogo con loro, oltre che la sua oratoria e i suoi scritti su La Stampa, lo rese una figura centrale. Sperava in un grande partito laburista che combinasse socialisti e comunisti. Pertini lo nominò senatore a vita nel 1984. Nel 1992 circolò il suo nome per il Quirinale, ma rinunciò per non finire nel calderone come gli suggerii. Tutto cambiò quando Berlusconi vinse le elezioni. Era antropologicamente l’opposto di Bobbio, che si amareggiò profondamente. Da ultimo i leader del centrosinistra andavano a trovarlo per legittimarsi, ma lui era scettico. L’unico che stimava come persona era Prodi. Bobbio però non si sentiva un ulivista: la sinistra per lui aveva una storia e una prospettiva inestinguibili».

E il Bobbio filosofo?

«Rivaluterei Maestri e compagni, i profili dei personaggi da lui conosciuti. Non è tecnicamente filosofia, ma sono ritratti straordinari. Per il resto lui aveva due obiettivi: confrontarsi con i temi della vita e del mondo, dunque una filosofia di chiarimento concettuale. E pensare le azioni possibili e le loro conseguenze, dunque a cosa serve la filosofia e cosa può fare. In questo senso era il filosofo dell’Italia civile. Scrisse molto di pace e di ciò che è irrinunciabile a livello di valori, dal riconoscimento reciproco al rifiuto della guerra. Non era un filosofo mite, ma giusto».

Chi era il suo filosofo preferito? «Hobbes perché metteva ordine, era realista e aveva posizioni nette che lo affascinavano».

Pubblicato il 8 gennaio 2024 su La Stampa

Quel disgusto per le regole spacciato per libertà @DomaniGiornale

Recuperando quel che Piero Gobetti scrisse del fascismo: “autobiografia della nazione”, credo sia giusto considerare Silvio Berlusconi parte integrale, nei vizi e negli effetti, della autobiografia dell’Italia. Però, c’è qualcosa di più, rinvenibile nei commenti alla sua morte sul suo ruolo, più in politica che negli affari, anche se spesso la linea divisoria fra i due è pallida e continuamente attraversata. Nei sistemi politici che apprezzo e fra i commentatori politici che sanno essere imparziali senza cedere a una presunta neutralità, la domanda sarebbe (anzi, sicuramente sarà): la politica di Berlusconi dal 1994 al 2023 ha migliorato l’Italia? E se sì sotto quali rispetti e con quali misure? Molti libri, alcuni di notevole qualità (quelli di Giuseppe Fiori e di James Newell), hanno analizzato la parabola di Berlusconi giungendo a valutazioni negative. La libertà tanto vantata da Berlusconi consisteva quasi esclusivamente nell’assenza di regole, comunque, nell’evitare i controlli. Lo Stato, poiché l’Italia non è solo una emozione, è fatto da cittadini che, anche se non si identificano pienamente nella Costituzione, sanno che la loro vita si svolge in quei confini e che deve tenere conto delle relazioni con gli altri cittadini e con lo stesso Stato. Al grido di no taxation without representation i coloni americani diedero il via alla guerra che li liberò dal dominio della Gran Bretagna. Da allora, il good citizen è colui che paga le tasse e i cui rappresentanti eletti decidono quante tasse e come. Non è necessariamente bello pagare le tasse, ma è il segnale di un convivenza politica che consente allo Stato di provvedere a esigenze collettive che nessun privato vorrebbe e saprebbe soddisfare. Non riesco a capire come una persona condannata per frode fiscale, appunto ai danni dello Stato, possa essere onorata con funerali di Stato. Nell’autobiografia di questa nazione stanno certamente i molti, troppi evasori fiscali. Altrove, invece, la grandezza delle personalità politiche si misura con il loro rispetto delle regole, con la loro consapevolezza che il privilegio di guidare una nazione si accompagna alla necessità assoluta di liberarsi dei propri interessi economici (e familiari) per perseguire il bene pubblico. Anche il familismo e la commistione privato/pubblico occupano un posto notevole nella autobiografia della nazione. Si può essere e rimanere ricchi al governo di un paese senza necessariamente accudire i propri interessi. Oggi non conta tanto, anche se è importante, sapere quale sarà il futuro di Forza Italia, partito personalista inevitabilmente senza “delfino”, ma quanto i cambiamenti in senso lato culturali che Silvio Berlusconi, il suo modo di fare politica, le sue televisioni, i suoi collaboratori hanno inscritto nella storia d’Italia. Troppi e, understatement, non positivi.

Pubblicato il 14 giugno 2023 su Domani

Quella discesa in campo sulle macerie della Repubblica @DomaniGiornale

Tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, Silvio Berlusconi ha cambiato la politica italiana in maniera irreversibile. Sfruttando le opportunità aperte dal crollo del sistema dei partiti e dall’inchiesta Mani Pulite, e utilizzando al meglio le sue competenze e conoscenze, Berlusconi ha effettuato un’irruzione immediatamente vittoriosa sulla scena politica italiana come non era mai riuscito a nessun partito europeo nel secondo dopoguerra. Il non improponibile paragone con il Generale de Gaulle deve tenere conto che associazioni golliste erano a lungo state operative prime del 1958. Vale anche per dichiarare subito che Berlusconi non riuscì nella impresa della Grande Riforma che, invece, de Gaulle, più e meglio preparato, tradusse molto brillantemente nella Quinta Repubblica francese.

   Il Movimento Politico “Forza Italia” è stato il primo partito personale e personalizzato. Totalmente dipendente dalle risorse del suo fondatore, per qualche tempo, Forza Italia poté utilizzare il carisma di Silvio Berlusconi. Da Max Weber abbiamo imparato che Berlusconi scese in campo nel momento giusto, in una situazione di ansietà collettiva, con numerosi ceti italiani rimasti privi di rappresentanza politica per la scomparsa dei loro logori referenti partitici, e assolutamente impauriti dalla prospettiva di una vittoria delle sinistre, cioè, lo dirò, berlusconianamente, dei comunisti, degli ex-comunisti, dei post-comunisti. A questi ceti Berlusconi ricordò di avere avuto successo in tutti i settori nei quali si era cimentato: edilizia, televisione, calcio, e che non esisteva nessuna ragione per la quale non avrebbe dovuto avere successo anche in politica. D’altronde, lui era “l’unto del Signore”. La prova del carisma consiste nell’effettuare miracoli. Sicuramente, la vittoria elettorale del marzo 1994, conquistata a due mesi dalla nascita di Forza Italia, costituì un vero e proprio miracolo politico. Fu anche la conseguenza di un altro cambiamento molto significativo: lo “sdoganamento”, come si scrisse con terminologia che rimane brutta, da lui effettuato del Movimento Sociale Italiano. La legittimazione dell’estrema destra neo-fascista e il suo coinvolgimento nel governo del paese sono elementi di cui i vertici del gruppo dirigente dell’allora MSI, poi promossi a molte cariche, ancora godono. Tecnicamente, con modalità diverse, i due partiti anti-sistema della prima fase della Repubblica italiana, furono costretti a trasformarsi più o meno profondamente, con maggiore o minore successo.

Fin da subito, anche in questo approfittando della situazione completamente nuova prodotta dalla Legge elettorale Mattarella, Berlusconi comprese i vincoli e le opportunità che quella legge imponeva e comportava. Non fu lui a inventare il bipolarismo, ma la sua capacità/necessità di costruire coalizioni che si candidavano al governo obbligò gli esponenti del centro-sinistra a fare altrettanto, a costruire l’altro polo. Un misto di sopravvalutazione del proprio rimanente consenso e di sottovalutazione delle nuove clausole elettorali portò gli ex-democristiani a non cercare alleanze prima del voto e agevolò decisivamente la vittoria del Polo della Libertà e del Polo del Buongoverno.

   Quella vittoria fu dovuta, in parte molto consistente, non in maniera assoluta, come sostennero consolatoriamente troppi esponenti del centro-sinistra alla televisione che, pure, ovviamente, ebbe un ruolo. Nel dibattito con Achille Occhetto, convinto del prevalere delle sue competenze politiche, Berlusconi emerse sostanzialmente vittorioso proprio perché seppe usare il “mezzo” meglio del suo oppositore. Altri strumenti Berlusconi introdusse innovativamente nelle campagne elettorali e nella politica italiana: il ricorso periodico e sistematico ai sondaggi, ma, soprattutto, l’uso di focus groups per capire meglio le preferenze di specifici settori dell’elettorato, a cominciare dalle casalinghe e dai ceti medi e le “partite IVA”. Il partito personale diventò in questo modo anche, come alcuni politologi avevano per tempo previsto, un partito elettorale-professionale che si dotava di tutti gli strumenti disponibili per il marketing, non soltanto politico e li utilizzava con maestria. Partiti che non avevano saputo rinnovare e aggiornare le loro fatiscenti ideologie non potevano trovare elettori abbastanza sensibili alle loro pretese di fare politica con valori. Tanti erano stati plasmati dai programmi dell’entertainment berlusconiano penetrato in profondità nella (in)cultura di massa.

La straordinariamente efficace forma di comunicazione della discesa in campo dell’imprenditore di successo con una video-cassetta è stata in seguito oggetto di imitazione, ma non di non altrettanta incidenza. Addirittura, l’incipit berlusconiano “L’Italia è il paese che amo” si trova replicato quasi verbatim nel Manifesto dei Valori del Partito Democratico nel 2007: “Noi, democratici, amiamo l’Italia”. Questa solenne affermazione contiene evidentemente elementi nazionalistici facilmente traducibili in slogan come “Prima gli Italiani” che nessun uomo politico repubblicano aveva mai fatto suoi prima del 1994. Tentare la combinazione di un sano patriottismo con un europeismo virtuoso non fu mai un obiettivo prioritario per Berlusconi. Anzi, la decrescita del grado di appoggio e di approvazione delle istituzioni europee fra gli elettori italiani comincia proprio con Berlusconi, dal suo euroscetticismo e dalle sue critiche all’Europa rea di fare valere regole comuni agli Stati-membri. Oggi che Forza Italia è europeista, sono Meloni e Salvini con i loro elettorati a essere beneficiati da quegli atteggiamenti e comportamenti di tempo fa. 

   La persona di Berlusconi ha a lungo incarnato il conflitto di interessi che intercorre fra i molti interessi privati dell’imprenditore e le decisioni pubbliche che deve prendere l’uomo di governo. Qui non interessa tanto la blandissima regolamentazione introdotta dalle legge Frattini quanto il rapporto fra il conflitto di interessi e la tanto sbandierata e spesso rimpianta rivoluzione liberale che molti commentatori del Corriere della Sera sostennero essere un obiettivo, forse il massimo, perseguito da Berlusconi. Come un duopolista, nel settore della comunicazione televisiva, proprietario di grandi aziende potesse “liberalizzare” il sistema economico italiano è un mistero non glorioso che non c’è bisogno di rivelare. D’altronde, i pochi parlamentari definibili come liberali che Berlusconi fece eleggere in Parlamento non furono rondini che annunciassero l’avvento di una primavera di bellezza nel sistema sociale, economico e politico italiano.    Da ultimo, aspetto totalmente trascurato dai commentatori e dagli studiosi, Berlusconi fu per necessità, ma anche per scelta, l’inventore dei governi che non chiamo tecnici, ma “non-politici”. Nessuna elezione trasforma un imprenditore in un politico, né Berlusconi, giustamente, accettò mai questa qualifica. Il primo governo formato da Berlusconi è una compagine nella quale i non-politici si stagliano sui pochi politici per di più non collocati nei ministeri più importanti. Non provenivano dal mondo della politica Antonio Martino Ministro degli Esteri, Giulio Tremonti alle Finanze, Lamberto Dini al Tesoro, Cesare Previti alla Difesa, Stefano Podestà all’Università e Istruzione, Domenico Fisichella ai Beni Culturali e Giuliano Urbani alla Funzione Pubblica. Nessuno di loro aveva mai avuto prima d’allora cariche politiche. In qualche modo, tutti i governi non politici che seguirono da Dini a Monti e a Draghi sono debitori alla filosofia “non politica” che stava a fondamento del primo governo Berlusconi: la società civile ne sa molto più dei politici “di professione”. Questa filosofia politica ha avuto enorme successo, come dimostra la polemica anti-Casta alimentata, forse non del tutto deliberatamente dal Corriere della Sera, e cavalcata da molti giornalisti. Qui, sta l’ultimo lascito berlusconiano nella politica italiana: incomprimibili tratti di populismo secondo i quali chi ha i voti ha acquisito il diritto di comandare travolgendo la separazione dei poteri e l’autonomia del Parlamento e del sistema giudiziario.

Pubblicato il 13 giugno 2023 su Domani

Non esistono despoti che fanno anche cose buone @DomaniGiornale

Nell’aprile del 1917 per ottenere l’approvazione del Congresso ad entrare in guerra contro la Germania il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson dichiarò memorabilmente che l’obiettivo era “make the world safe for democracy”. Parecchi anni dopo i Padri Fondatori dell’Unione Europea si posero un obiettivo simile, ma più limitato: rendere il continente europeo un posto sicuro per le democrazie, dove non si facessero più guerre. Dopo il crollo del comunismo e dell’Unione Sovietica, questo obiettivo, già messo al sicuro dentro il perimetro delle democrazie occidentali, è apparso conseguibile. L’ascesa di Putin e la sua aggressione all’Ucraina ritardano qualsiasi ulteriore sviluppo democratico e rendono necessari opportuni ripensamenti che, però, non possono nemmeno per un momento mettere sullo stesso piano le democrazie occidentali e il regime autoritario russo. In parte comprensibile anche se, forse, non proprio giustificabile, fu la valutazione del ruolo “positivo” svolto dall’URSS sulla scena internazionale come contrappeso degli Stati Uniti. Ma polacchi, ungheresi, cecoslovacchi, i cittadini degli Stati baltici hanno tutto il diritto di pensarla molto diversamente. Invece, non si capisce proprio quale merito possa essere riconosciuto a Putin.

   Come si sia formata e esternata l’amicizia fra il liberale, cristiano, garantista e europeista Berlusconi e lo zar del Cremlino è un mistero non glorioso. Certo l’argent di Putin può essere stato utile a Salvini e alla Lega, ma quale futuro radioso poteva nascere dall’esibizione compiaciuta di una t-shirt con l’effigie di un tiranno? Last but not least, ultimo, ma tutt’altro che irrilevante, l’attuale Ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato, meglio tardi che mai, di avere esagerato nel criticare le manovre Nato sul confine russo e di avere sottovalutato le mire espansioniste di Putin. Ben venuto il ravvedimento di Crosetto (quanto a Berlusconi e Salvini sono personalmente incerto, ma anche loro…), rimane, tuttavia, il problema/obiettivo generale evocato dalla frase di Wilson. Se è auspicabile rendere il mondo un posto sicuro per le democrazie, come possono coloro che vivono nei regimi democratici ritenere possibile quell’esito collocandosi dalla parte degli autocrati, dei despoti, dei tiranni? Costoro vogliono ridurre il numero delle democrazie, per esempio, altrove, piegando quel che c’era di democrazia a Hong Kong e apprestandosi a soffocarla a Taiwan. Riscuotono aiuti da altri regimi autoritari, come la teocrazia iraniana e non solo. Si spalleggiano a vicenda.

   Quando leggo libri che raccontano come muoiono le democrazie, mi chiedo se non sia il caso che gli autori esplorino chi uccide le democrazie, cambino il titolo e offrano una spiegazione basata sulle sfide che i non-democratici lanciano dall’interno alle loro democrazie vigenti, magari lodando e esaltando alcuni dei molti modelli antidemocratici esistenti nel mondo e i loro “attraenti” protagonisti. La democrazia bisogna praticarla e insegnarla (anche viceversa). Bisogna anche dire a chiarissime lettere che esiste un linea divisoria netta fra democrazie e non-democrazie. Che soprattutto i liberali dovrebbero essere i primi a respingere l’idea che possano esistere democrazie “illiberali”. Lasciamo che siano gli oppositori degli autoritarismi, quando sperabilmente sono riusciti a sopravvivere, a testimoniare che quei leader autoritari hanno fatto anche qualcosa di buono.  

Pubblicato il 1 febbraio 2023 su Domani

La scoperta delle fatiche di un governo di coalizione @DomaniGiornale

Sembra che per la prima volta al mondo si vada in Italia alla formazione di un governo di coalizione superando le intemperanze fuggite (?) dal sen di Berlusconi. Peraltro, in Svezia nelle tre settimane dalle elezioni il centro ha dovuto addirittura chiedere il sostegno esterno dei Democratici Svedesi, destra populista sovranista. Nei governi di coalizione spesso “impazza” anche il toto ministri e bisogna esercitarsi nel gioco delle caselle. Infatti, esistono ministeri più importanti di altri e ministeri preferiti dai capi dei partiti che compongono la coalizione poiché, più che avere soluzioni a quei problemi, pensano che portino voti. Anche questo accade dappertutto e, comprensibilmente, richiede tempo. In Germania, il governo guidato dal socialdemocratico Scholz e sostenuto da Verdi e Liberali ha avuto bisogno di più di due mesi dalle elezioni prima di entrare in carica. Tedesco è sicuramente il proverbio “i partiti frettolosi fanno governi ciechi”.

   A tutti i governi di coalizione, le associazioni di vario tipo, a meno che non siano state disintermediate, i commentatori politici, i partiti di opposizione chiedono ministri di alto profilo, politici, ma, insomma, anche tecnici (il Presidente della Coldiretti Ministro dell’Agricoltura?). Sempre il capo del governo e i suoi collaboratori promettono il meglio del meglio, accentuando la qualità della competenza, indicando come elemento qualificante l’esperienza, spingendosi a affermare indispensabile il riconoscimento esplicito della preminenza del capo di governo. Anche altrove e, per usare il politichese, “non da oggi”, quando si produce un cambio sostanziale nella compagine di governo (non è, con buona pace di commentatori superficiali, un’alternanza totale poiché due dei tre partiti hanno avuto responsabilità rilevanti nel precedente governo), fra i “nuovi” governanti serpeggia il timore che la burocrazia e affini, ovvero il deep State, si preparino ad ostacolare, sabotare le attività del governo, le sue politiche specialmente se innovative. Di qui la richiesta di lealtà istituzionale.

    A questo punto, dovrei scrivere “tanta roba”, ma il moralista che è in me afferma al contrario che la richiesta dev’essere fatta e che la lealtà deve valere come criterio per il reclutamento e la valutazione delle prestazioni anche dei ministri pena l’immediata estromissione. Sappiamo quanto difficile all’occorrenza è stato in Italia licenziare ministri sleali. Giusta, quindi, e apprezzabile la cautela di Giorgia Meloni. Sottotraccia c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico. In qualche ministero s’annidano tuttora enormi occasioni di conflitti di interessi. E, allora, si facciano avanti ministri competenti, esperti, leali, che non rappresentino gli interessi giudiziari e imprenditoriali di qualche capo partito. In materia, nelle democrazie europee non trovo paragoni appropriati.

Pubblicato il 20 ottobre 2022 su Domani

Il neo Presidente La Russa ha ringraziato apertamente i senatori della minoranza che lo hanno votato.  Vicepresidenze delle Camere e delle Commissioni ci diranno poi chi erano i destinatari di quei ringraziamenti

I ringraziamenti espliciti, quasi plateali rivolti dal neo-eletto Presidente del Senato Ignazio La Russa ai senatori/senatrici che non fanno parte della maggioranza per averlo votato mandano due segnali politicamente molto significativi. Da un lato, comunicano a quei senatori/senatrici che sono benvenuti e che, quando ci sarà l’occasione, saranno adeguatamente ricompensati. Che i loro voti, palesi e segreti, continueranno ad essere più che bene accetti. In estrema sintesi, dietro l’angolo è nata quella che potremmo definire una maggioranza eventuale. Dall’altro, le parole del Presidente La Russa fanno sapere a Berlusconi, che ha imposto la scheda bianca/astensione ai parlamentari di Forza Italia, che i “buchi” da lui/loro lasciati possono essere riempiti rapidamente e in maniera abbondante con appoggi esterni. In un modo da non sottovalutare, i ringraziamenti di La Russa indeboliscono grandemente il potere di ricatto che Berlusconi strenuamente tentava di utilizzare sulla formazione del governo Meloni con la richiesta di un Ministero importante per la sua fedelissima (parola non mia di cui confesso non capire fino in fondo il significato) Licia Ronzulli.

   Per quel che riguarda il centro-destra, il resto, vale a dire altre trame, vantaggi, reazioni, altri ricatti, altre convergenze più o meno inaspettate, lo si vedrà quando (e se) e con quanti voti verrà eletto il Presidente della Camera, che dovrebbe essere un deputato della Lega. Chi siano i senatori/senatrici che più o meno generosamente hanno deciso l’elezione di La Russa precisamente non lo sappiamo. Tuttavia, potremo avere qualche elemento conoscitivo e esplicativo in più, forse persino decisivo, quando verranno eletti gli uffici di Presidenza della Camera e del Senato.

   Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, in quanto rappresentanti i due gruppi più numerosi non hanno nessuna intenzione di cedere le vicepresidenze a Azione. Dunque, se il voto segreto premiasse un candidato/a espressione dell’area Calenda-Renzi diventerà fin troppo facile sostenere che si è prodotto uno scambio. La moralità non è il terreno su cui si fonda la politica né in Italia né, in maniera minore, altrove. Molte altre cariche istituzionali sono disponibili a cominciare dalle prestigiose e potenti Presidenze delle Commissioni. Altri scambi sono possibili e probabili dai quali, però, le opposizioni in ordine sparso risulteranno inevitabilmente e imprevedibilmente indebolite.

Al tempo stesso, però, l’imminente governo del centro-destra avrà al suo interno una componente (Forza Italia) amaramente insoddisfatta, non convinta, a meno di avere ottenuto molto nella formazione del governo, dell’obbligo politico di agire in maniera disciplinata e solidale. Poiché sono note anche le mire di Salvini per un Ministero, gli Interni, per il quale la Presidente del Consiglio in pectore ha già fatto sapere di preferire un’altra, non specificata, personalità, se ne può concludere che sul governo Meloni già si addensano non pochi pesanti nuvoloni.

Pubblicato AGL il 14 ottobre 2022

Pasquino: “Giorgia Meloni ha vinto alla grande. Pd? La sconfitta è dei dirigenti e non di Letta” #intervista @com_notizie

Intervista raccolta da Francesco Spagnolo. Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica, in esclusiva a ‘Notizie.com’: “La storia del Pd è molto triste”.

Professor Pasquino, si aspettava una vittoria così netta di Fratelli d’Italia?

Non mi aspettavo un successo così schiacciante della Meloni, ma una vittoria sì. Ha vinto alla grande e peraltro portando via voti a Salvini e a Berlusconi. Il Centrodestra grossomodo è dove lo davano le previsioni con Fratelli d’Italia più avanti perché ha strappato voti agli altri due partiti“.

Lei ha parlato di voti strappati a Salvini e Berlusconi. Questo potrebbe portare tensioni all’interno della coalizione?

Qualche tensione ci sarà inevitabilmente perché Salvini è irrequieto, molto nervoso e invidioso e rimane con la sua ambizione. Sente che la sua carriera politica è in difficoltà e cercherà di appropriarsi di qualche tematica, essere molto presente mediaticamente. Ma penso che Giorgia Meloni abbia abbastanza larghe per controbattere, ma qualche tensione me l’aspetto. Berlusconi è in declino totale, la sua classe dirigente si sta liquefacendo e quindi non è un grosso problema“.

Possiamo parlate di Salvini e Letta come grandi sconfitti?

Salvini sicuramente sì, secondo me Letta non è un grande sconfitto. Ha perso perché pensava di arrivare sopra il 20%, ma lo ha fatto in maniera elegante. E’ un uomo competente, che conosce la politica e non ha mai esagerato. La sconfitta non è sua ma del Pd perché i dirigenti non fanno quello che dovrebbero fare. Dopodiché Letta ha preso atto della sconfitta ed ha detto che si dimette però continua una brutta storia che si chiama Partito Democratico, che non riesce a radicarsi, trovare delle tematiche, non riesce a darsi una unità e una visione“.

Chi potrebbe essere il nome giusto per rilanciare il Pd?

Non c’è nessun nome giusto. Credo che ci sono molti uomini ambiziosi, ma presumo che faranno un tentativo di trovare una donna. Sembra che questa sembra Elly Schlein sia chissà che cosa, ma io penso di no. Dovrebbero fare delle primarie vere e non contrattate in anticipo. La storia del Partito Democratico è molto triste“.

Il M5s ha avuto una crescita importante al Sud. Un risultato inaspettato alla vigilia per i pentastellati.

Il fatto del reddito di cittadinanza è molto importante al Sud e quindi hanno cercato di difenderlo sostenendo Conte, ma questo non basta. Un partito che arriva al 17% può essere contento, ma ricordo che quattro anni fa era al 33% e quindi ha perso il 16% dei suoi elettori. Possono festeggiare di non essere andati malissimo, ma non possono dire di aver ottenuto un grande risultato“.

Delusione invece per il Terzo Polo e Di Maio.

Di Maio evidentemente non si è radicato, ma nella zona di Napoli aveva dei concorrenti molto agguerriti iniziando dal fatto che il presidente della Camera non lo sosteneva. Il Terzo Polo non è mai esistito. Era una riunione degli ego di Calenda e Renzi visto che il vero Terzo Polo sono i pentastellati. Hanno anche utilizzato una caratterizzazione sbagliata e illusoria per cercare di catturare gli elettori“.

Pubblicato il 26 settembre 2022 su Notizie.com

Per chi suona la fisarmonica del Capo dello Stato @formichenews

Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare presidente del Consiglio e ministri. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Il commento di Gianfranco Pasquino Accademico dei Lincei e autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022)

La fisarmonica (del Presidente della Repubblica) non è affatto, come ha perentoriamente scritto Carlo Fusi (28 agosto), un “funambolismo tutto italiano e rappresentazione tra le più eclatanti della crisi di sistema in atto”. Al contrario, è una metafora delle modalità elastiche del funzionamento delle democrazie parlamentari che consentono di analizzare, capire, spiegare al meglio il ruolo del Presidente della Repubblica italiana ieri, oggi e, se non sarà travolto dal pasticciaccio brutto del presidenzialismo diversamente inteso dal trio Meloni-Salvini-Berlusconi, domani.

   In sintesi, definiti dalla Costituzione, dalla quale non è mai lecito prescindere, i poteri del Presidente della Repubblica italiana, l’esercizio di quei poteri dipende dai rapporti di forza fra i partiti in Parlamento e il Presidente, la sua storia, il suo prestigio, la sua competenza. Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare Presidente del Consiglio e ministro. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Se ci saranno i numeri, ovvero una maggioranza assoluta FdI, Lega e FI, dovranno essere Salvini e Berlusconi a fare il nome di Meloni a Mattarella, aggiungendo che non accetteranno nessuna alternativa.

   Certo, il Presidente chiederà qualche garanzia europeista, ma non potrà opporsi al nome. “Crisi di sistema in atto”? O, piuttosto, funzionamento da manuale di una democrazia parlamentare nella quale il governo nasce in Parlamento e viene riconosciuto e battezzato dal Presidente? Verrà anche sostenuto dalla .sua maggioranza parlamentare e sarò operativo quanto il suo programma e i suoi partiti vorranno e i suoi ministri sapranno. Quel che dovrebbe essere eclatante è la constatazione che nessun presidenzialismo di stampo (latino) americano offre flessibilità. Anzi, i rapporti Presidente/Congresso sono rigidi. Il Presidente non ha il potere di sciogliere il Congresso che, a sua volta, non può sfiduciare e sostituire il Presidente. Nel passato, spesso, l’uscita dallo stallo era un golpe militare.

    Nessuna legge elettorale, nemmeno l’apprezzatissima Legge Rosato, può rendere elastico il funzionamento del presidenzialismo che, come abbiamo visto con Trump, ha evidenziato molti degli elementi più eclatanti di una crisi di sistema. Altro sarebbe il discorso sul semipresidenzialismo, da fare appena i proponenti ne chiariranno i termini e accenneranno ad una legge elettorale appropriata. Nel frattempo, sono fiducioso che in vista del post-25 settembre il Presidente Mattarella stia diligentemente raccogliendo tutti gli spartiti disponibili e facendo con impegno e solerzia tutti i solfeggi indispensabili per suonare al meglio la sua fisarmonica. Altri saranno i cacofoni.

Pubblicato il 30 agosto 2022 su Formiche.net

Liste calate dall’alto? Non vale per tutti i partiti #intervista @ilriformista

Il politologo: «Cassese dice che le forze politiche sono diventate oligarchie? Sbagliato generalizzare. Realtà come il Pd hanno scelto i candidati anche in base a competenze importanti. Giudicherà chi vota» Intervista raccolta da Umberto De Giovannangeli

Tra gli scienziati della politica italiani, Gianfranco Pasquino è tra i più accreditati. Professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, dal 2005 socio dell’Accademia dei Lincei. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo la più recente: Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet, 2002).

“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico”. Così Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?

Le liste vengono formate in maniera molto diversa da partito a partito. Non sono in grado di generalizzare e non vado alla ricerca di modalità democratiche, modalità oligarchiche etc. Parlerei piuttosto di modalità funzionali. Ciascun partito decide cos’è meglio per la sua organizzazione, per i suoi militanti che poi dovranno fare anche un po’ di campagna elettorale, per i candidati che deve scegliere. Non possiamo dire che il Partito democratico abbia scelto i suoi candidati allo stesso modo con il quale li ha scelti Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia. E sappiamo da tempo immemorabile che i candidati di Forza Italia vengono scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto che i 5Stelle utilizzano anche le cosiddette “parlamentarie”. Di tanto in tanto il Pd fa anche delle primarie che purtroppo i commentatori sbeffeggiano, sbagliando.

Perché, professor Pasquino?

Perché se condotto con metodi decenti, rappresenta un metodo democratico. Quindi non generalizzo, le scelte dei candidati sono state fatte in un certo modo e sono in grado di criticare di volta in volta le modalità e le scelte effettive. Mi chiedo, ad esempio, che senso ha paracadutare Elisabetta Casellati in Basilicata quando era eletta e ambita in Veneto, mentre al suo posto c’è Anna Maria Bernini che notoriamente è una bolognese. Naturalmente ho molto da dire sul fatto che Piero Fassino va a fare il parlamentare del Veneto dopo aver fatto il parlamentare del collegio di Modena e Sassuolo. Questo riguarda anche la forza del candidato. Fassino è un uomo molto forte nel suo partito e sceglie dove andare. Nel caso della Casellati, Berlusconi e Tajani preferiscono candidarla in Basilicata. Però non si può generalizzare. Possiamo dire che il metodo comunque non ci convince, dopodiché affidiamo il resto agli elettori. Saranno loro a valutare se sono buoni candidati oppure no, se fanno campagna elettorale, se rappresentano il territorio, se non sanno solo ascoltare ma come dico io anche interloquire con i loro elettori, oppure se è semplicemente un’operazione nel segno di rieleggetemi e buona fortuna.

Nel dibattito aperto da Il Riformista, Sergio Fabbrini, altro autorevole scienziato della politica e dei sistemi istituzionali, ha sostenuto: “Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico”. Concorda ?

No, anche se ne apprezzo il rigore e la nettezza. Non sono d’accordo perché, di nuovo, occorre differenziare tra i vari partiti. Nel Partito democratico ci sono le carriere. Persone che hanno iniziato a fare politica prima che ci fosse il Partito democratico e che proseguono nella loro carriera. Non sono degli “imprenditori di se stessi”, come li definisce Fabbrini. Secondo me sono semplicemente dei professionisti, qualche volta anche perché hanno acquisito delle competenze vere. Per non restare nel vago. Non si può fare a meno di uno come Franceschini, perché è bravo, ha delle competenze. Ed è sbagliato respingere la candidatura di Casini, perché anche lui è bravo e ha delle competenze. Siamo di fronte a professionisti, a semi professionisti e come una volta mi disse Domenico Fisichella a “gentleman in politics”. Naturalmente si riferiva a se stesso, cioè a persone che hanno una biografia professionale tale da permettere loro di fare un po’ di politica e poi tornare alla loro professione senza nessuna preoccupazione. Questo vale per il Partito democratico come anche, sul versante opposto, per Fratelli d’Italia, perché è l’unico altro partito rimasto vivo. Il Msi era un partito organizzato sul territorio. E non vale invece in altri casi. Come quello di Forza Italia Ha ragione Berlusconi: i suoi candidati vengono effettivamente dalla società civile. Di errato c’è semmai il verbo. I candidati non “vengono” dalla società civile, è lui che li ha “prelevati” dalla società civile ed è lui che li “ricaccia” nella società civile quando non gli servono più. Nessuna generalizzazione è possibile, insisto su questo, ma analizzare caso per caso, e sul singolo caso costruire una spiegazione, soprattutto quando certe scelte suscitano polemiche non sempre pretestuose.

Venendo ai “campi” che si fronteggiano. Cosa teme di più del destra-centro: la leadership Meloni?

Io temo l’inesperienza di una parte non marginale di quella classe dirigente. Temo l’eccessiva gioiosità per aver vinto le elezioni, e l’incapacità di capire che cosa vuole l’Europa da noi. E soprattutto temo gesti eclatanti volti a dimostrare che quello a cui daranno vita è un Governo “nuovo”, che siamo entrati in un’era “nuova”. Tutto questo temo. E ne temo l’insieme. E che Giorgia Meloni si lasci trascinare dall’entusiasmo. Mi è rimasta negli occhi, e in parte anche nelle orecchie, la sua performance al congresso di Vox. Non vorrei mai più vedere una Giorgia Meloni così. Certo è che se lei va in Europa con quella grinta la cacciano subito via.

Passando al centrosinistra. Cosa resta del “campo largo” su cui aveva puntato Enrico Letta?

Purtroppo questi politici non hanno studiato la scienza politica. Ne sono proprio digiuni e non sanno proprio di cosa parlano. Non mi riferisco solo alla legge elettorale, di cui non sanno nulla se non tutelare i propri interessi. Davvero non sanno di cosa parlano. “Campo largo” non c’era proprio bisogno di dirlo. Perché se uno avesse acquisito i rudimenti, non dico di più, della scienza politica, saprebbe che in politica si fanno le coalizioni. Questo è il principio dominante. In tutti i sistemi politico si fanno coalizioni. Persino in Gran Bretagna, dal 2010 al 2015 c’è stata una coalizione tra conservatori e liberali. Hanno addirittura stilato le regole della coalizione. Macchè “campo largo”, parliamo di coalizioni. E le coalizioni – c’è una letteratura splendida in proposito – si fanno fra partiti che sono vicini, geograficamente vicini, ideologicamente compatibili, programmaticamente in grado di convergere su quelle che ritengono essere le priorità del Paese. Letta ci ha provato ma evidentemente non conosce la teoria delle coalizioni. Dopodiché ha fatto del suo meglio, anche perché ha dovuto fare i conti con individui che sono molto ambiziosi, ingiustificatamente ambiziosi, immeritatamente ambiziosi, che hanno, come ho avuto modo di dire e scrivere, il loro ego in perenne erezione. Con quella gente è difficile trattare. Chi riesce a fare meglio le coalizioni meglio riesce ad ottenere il consenso. Giuliano Urbani, che è uno scienziato della politica, disse a suo tempo a Berlusconi “fai due coalizioni: una che si chiama Polo del buongoverno e l’altra Polo delle libertà. E in questo modo riesci a mettere insieme sia gli ex missini sia la Lega”. Questo è quello che è successo nel ’94. È il prodotto delle competenze politiche del professore di Scienza politica Giuliano Urbani. Mi lasci aggiungere un consiglio che non vuol essere “professorale”: si dovrebbe sempre chiedere a chi parla/ scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni. Per non alimentare una confusione già così diffusa e grande sarebbe cosa alquanto opportuna fare pulizia terminologica per riportare il dibattito sui binari solidi e rigorosi della Scienza politica.

In Italia c’è ancora chi sostiene che si vince occupando il centro.

La Scienza politica racconta un’altra storia…

Quale?

Il centro è un luogo geografico. Non sappiamo quanti elettori stanno al centro, ma soprattutto sappiamo che vi sono elettori che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra. Non possiamo perderli. Dobbiamo andarli a cercare. Sapendo, innanzitutto, che dobbiamo motivare gli elettori a venirci a votare. In Italia vincerebbero alla grande le elezioni coloro che sapessero motivare gli astensionisti, quantomeno trovando la chiave per raggiungerne alcuni settori. Non c’è un “partito degli astensionisti”. Anche qui, evitiamo dannose, oltreché erronee, generalizzazioni. Quegli astensionisti non sappiamo di dove sono, se sono di centro, di destra, di sinistra. C’è di tutto, coprono l’intero arco politico. Si tratta di andare a cercare gli elettori su tematiche specifiche. La scienza politica indica che ci sono tematiche valoriali che sono politiche: le famose issues. Devi trovare la issue giusta e devi sapere anche quali sono i valori condivisi di quegli elettori che cerchi. Quel valore condiviso potrebbe essere, per esempio, molto semplicemente la democrazia in Europa, o qualcos’altro, magari di segno opposto. Ad esempio, manteniamo un alto livello di diseguaglianze perché noi elettori siamo bravi e quindi riusciremmo a trarne profitto. Operazioni che richiedono intelligenza politica a cui abbinare la capacità di un politico di stare sul territorio. Come può Fassino mobilitare gli elettori del Veneto che non l’hanno visto mai se non in televisione? Casini mobilita gli elettori bolognesi perché qui ci abita da quando è nato, perché ha fatto campagna elettorale, perché è notissimo. Ed è per questo che lui è un valore aggiunto.

Pubblicato il 27 agosto 2022 su Il Riformista

A tutti gli ombrelloni d’Italia

Già li vedo questi italiani e italiane al mare: Dopo avere affrontato la spietata prova costume, si stanno sottoponendo ad una nuova serie di esami, quelli che, scrisse memorabilmente Eduardo De Filippo, non finiscono mai. I vicini di ombrellone, neppure fossero tutti professori di sociologia, scienza politica, economia, addirittura alla LUISS, stanno iniziando l’esame comparato dei programmi dei partiti. È un esercizio al tempo stesso difficilissimo e faticosissimo. Infatti, ci sono ancora partiti che credono che buono è il programma lungo e esaustivo sul quale hanno messo a lavorare i loro benintenzionati intellettuali di riferimento. Però, anche i lungoprogrammisti hanno imparato che, se vogliono avere un impatto e attirare attenzione bisogna che facciano lo sforzo quasi sovrumano per l’intellettuale italiano tradizionale, più o meno organico, della sintesi: uno, tre, massimo cinque tweet con le apposite faccine e gli hashtag più impensabili.

   Di tanto in tanto, chi ascolta gli scambi da un ombrellone all’altro si accorge che, no, quegli italiani e quelle italiane, non leggono indiscriminatamente tutti i programmi. Anzi, alcuni proprio li scartano subito. Altri vanno alla ricerca di qualcosa di originale. Qualcuno di loro dice che sono tutti un po’ eguali e che, purtroppo, nel migliore dei casi espongono il titolo di quello che promettono, ma non dicono come lo faranno, quando, con quali costi, quali obiettivi, quali conseguenze. Qualcun altro dice che tutti i politici promettono e nessuno mantiene. Visto che cosa hanno fatto al governo? Nasce una discussione vera e accanita sul fatto, sul non fatto e sul malfatto. Fa la sua comparsa anche il misfatto: chi è responsabile della caduta del governo Draghi che, “poverino”, faceva del suo meglio ed era molto apprezzato all’estero, nell’Unione Europea e non solo? Ma, allora, sostengono alcuni nuovi arrivati, interessati ad una discussione che si è molto animata, bisogna riprendere l’agenda Draghi o andare oltre?

   Solo Draghi, è l’opinione dei più saggi, saprebbe portare avanti e a compimento la sua agenda con i necessari aggiustamenti. Diventa difficile credere che Draghi possa essere reclutato da Calenda per attuare i dodici punti formulati dall’affannatissimo iperattivo eurodeputato del PD. Sicuro, invece, sottolineano con tono di sufficienza, alcuni elettori del Nord, riconoscibili dal loro accento, che verranno da Berlusconi le proposte più innovative: 1 milione di alberi, 1000 Euro come pensione minima. Le ha sempre sparate grosse e mai mantenuto le promesse. È venuto il tempo di Giorgia, affermano altri bagnanti. Tutto questo alla faccia dei politici che dicono che i programmi vengono prima delle persone. Che, alla fine, per una parte decisiva di elettorato finisca per contare di più la credibilità dei leader e delle candidature piuttosto che proposte programmatiche ripetitive, confuse, irrealistiche?  Buon bagno a tutti/e.

Pubblicato AGL il 27 luglio 2022