Home » Posts tagged 'Bettino Craxi' (Pagina 2)
Tag Archives: Bettino Craxi
Lelio Basso, passioni e contraddizioni
Articolo pubblicato in
FILOSOFIA E SPAZIO PUBBLICO
viaBorgogna3 il magazine della Casa della Cultura, anno II n 5
Non nutro nessun dubbio sulla grandezza della figura di Lelio Basso nella storia del socialismo italiano e nella politica. Mi rallegro, pertanto, della pubblicazione di due importanti libri (Chiara Giorgi, Un socialista del Novecento. Uguaglianza, libertà e diritti nel percorso di Lelio Basso, e Giancarlo Monina, Lelio Basso, leader globale. Un socialista nel secondo Novecento, entrambi pubblicati da Carocci, rispettivamente, 2015, pp. 276, Euro 30,00 e 2016, pp. 439, Euro 39,00) che ricostruiscono in maniera approfondita e simpatetica tutto il lungo, complicato, fecondo percorso personale, culturale, politico di Basso. Rimando i lettori ai dettagli e alla visione d’insieme che troveranno nei due densi testi. Qui, vorrei svolgere un’opera più ristretta e più focalizzata dedicandomi a enucleare quello che ho imparato da Basso facendo riferimento non soltanto ai suoi successi, ma anche alle sue sconfitte, che neppure lui avrebbe trascurato e che sono ricche di insegnamenti, fra contraddizioni e discriminazioni. Lo farò, in maniera irrituale, ripercorrendo i miei incontri, una sola volta di persona, con i suoi scritti e le sue molteplici attività, e collegandoli a quanto ho letto e imparato nella biografia dedicatagli.
La prima volta che mi sono imbattuto in Lelio Basso risale all’inizio della mia vita di studente universitario. Fu nel 1962 all’Istituto di Scienze politiche di Torino la cui piccola biblioteca aveva appena acquistato una copia del grosso volume Le riviste di Piero Gobetti, a cura di Lelio Basso e Luigi Anderlini, Milano, Feltrinelli 1961. Mi fu concesso in prestito limitato a pochi giorni. Ne divorai l’introduzione che mi incoraggiò anche a leggere La rivoluzione liberale di Gobetti, fra l’altro, uno degli autori preferiti da Norberto Bobbio, il cui corso di Scienza politica stavo seguendo. A quelle letture e a quell’insegnamento, certo rafforzato anche da altri docenti in quello che, allora, era soltanto il Corso di laurea in Scienze Politiche, scaturì gran parte della mia ammirazione per il Partito d’Azione (che ebbe anche Basso). Sono molto d’accordo con quanto scrive Giorgi: “l’attenzione e l’amicizia di Basso nei confronti di Gobetti rappresentano un aspetto molto importante della biografia bassiana, è lo stesso Basso a riprendere e sottolineare in modo diretto molte delle pagine gobettiane, così come a far propri, ma perché comuni, alcuni dei precetti, ma anche degli aspetti umani di Gobetti ” …: “un atteggiamento ‘eroico’ nei confronti della vita, una tensione etica, un’intransigenza morale … l’impegno per la costruzione di ‘una nuova cultura politica’” (Giorgi, p. 33). Tutti questi tratti si ritrovano nella attività culturale e nella vita politica di Lelio Basso e sono messi a durissima prova nelle moltissime difficoltà che Basso incontrò.
La nuova cultura politica alla cui costruzione Basso si dedicò in maniera indefessa non fu, però, innestata unicamente nel solco del pensiero gobettiano, inevitabilmente appena accennato. Consistette soprattutto nella riflessione sul marxismo, in buona parte riletto con gli occhiali eterodossi di Rosa Luxemburg, certamente la teorica marxista da lui preferita, con l’obiettivo di trovarvi o di pervenire ad una “scienza della rivoluzione”. Il rimando bibliografico è, ovviamente, alla sua curatela e alla lunga introduzione a Gli scritti politici di Rosa Luxemburg (Roma, Editori Riuniti 1967, tradotti in varie lingue). Faccio un salto temporale, proprio per seguire la riflessione concettuale poiché Basso, in uno scambio con Bobbio, “che si ripeterà nel tempo in una rispettosa e amichevole distanza di idee” (Monina, p. 194), avrebbe poi dovuto confrontarsi con l’interrogativo posto nel 1975 dal filosofo torinese, in primis, ai comunisti, ma anche a tutti coloro che si dichiaravano marxisti, sull’esistenza di una teoria marxista dello Stato. Nonostante numerose e, rilette oggi, imbarazzanti capriole dell’intelligentsia comunista italiana che, narcisisticamente, si esibì sul tema, non venne nessuna risposta. Però, neppure il marxismo di Basso, incentrato com’era su trasformazioni sociali, fu in grado di dare una risposta alla domanda di Bobbio. Anzi, scrivendo che “quel che deve interessare il marxista è perciò lo svolgimento del processo [rivoluzionario] e il fatto che in esso si affermino valori e istituti a connotazione socialista” (corrispondenza privata, maggio-giugno 1978, citata da Monina, p. 415), Bassi evadeva alla grande l’interrogativo. Enfaticamente, potrei aggiungere che la risposta l’ha data la storia dei regimi comunisti con il loro tonfo.
Il mio secondo “incontro” con Basso avvenne in occasione del mio debutto quale elettore della Repubblica italiana nel 1963. Telefonai alla Federazione del Partito Socialista Italiano di Torino (Corso Valdocco) per sapere quali erano i candidati “vicini” a Antonio Giolitti e quali i “bassiani” ai quali avrei voluto dare i miei voti di preferenza. Mi fu riposto che non c’erano correnti nel PSI. Ricordo questo avvenimento poiché ripetutamente Monina sottolinea quanto difficile era la vita politica dei sostenitori di Basso dentro il partito, soprattutto, ovviamente, in vista di quelle elezioni che avrebbero aperto la strada al centro-sinistra “organico” il cui primo governo vide la partecipazione di Antonio Giolitti come ministro del Bilancio.
Il terzo incontro avvenne una decina d’anni dopo. Purtroppo, non ne ricordo appieno i particolari. Dopo i sanguinosi colpi di Stato dei militari in America latina (nell’ordine, Brasile, Uruguay e Cile), Basso aveva dato vita al Tribunale Russell II proprio per giudicare, che, in sostanza, significava gettare maggiore luce informativa sulle organizzazioni militari di quei paesi e soprattutto sui crimini commessi e, ovviamente, impuniti dei governi militari. Immediatamente dopo il golpe cileno avevo pubblicato, grazie ai buoni uffici di Giorgio Galli, sulla rivista “Critica Sociale” diretta da Giuseppe Faravelli, due non brevi articoli sul Cile: Militarismo e imperialismo contro Unidad Popular. Inoltre, insegnavo Storia e istituzioni dell’America latina all’Università di Firenze. Qualcuno deve avere suggerito il mio nome a Basso fatto sta che mi venne chiesto di scrivere un testo sul ruolo politico dei militari brasiliani, quasi un position paper, direbbero gli americani, sullo stato delle conoscenze in materia. So che il testo fu pubblicato in qualche forma (mi rammarico di non averne copia) dal Tribunale Russell e che ne fu fatta un’ampia diffusione. In parte lo ripresi per pubblicarlo, con l’autorizzazione del Tribunale, sulla rivista “il Mulino” nel 1974.
Il Tribunale Russell, la cui attività iniziò per giudicare i crimini di guerra degli USA in Vietnam, costituì una delle innumerevoli attività internazionali di Lelio Basso negli anni sessanta e settanta. Monina ne dà un’accurata descrizione dalla quale emergono due elementi degni di nota: primo, l’enorme ampiezza dei contatti di Basso con dirigenti politici e studiosi di sinistra in Europa e in America latina, ma anche la loro disorganizzazione e disomogeneità; secondo, l’apprezzamento e la stima, testimoniata anche dalla miriade di inviti ricevuti,di cui godeva Basso la cui autorità, direi molto più intellettuale che politica, era unanimemente riconosciuta. Non posso trattenermi dall’aggiungere che nessuna di queste attività e nessuno di questi riconoscimenti avevano ricadute positive nella situazione politica italiana.
Al contrario, è la sua incisiva e appassionata attività all’Assemblea Costituente a rimanere uno dei lasciti più importanti, più apprezzati, più duraturi. Giorgi intitola il capitolo sul tema “La fantasia giuridica del costituente”. C’è molto di più, direi “La passione politica del democratico”. Basso fu, unitamente a Fanfani, l’autore di quello che è, a parere di molti (e, per quel che conta, anche mio), l’autore dell’articolo 3, spesso sbrigativamente definito l’articolo sull’eguaglianza. In quell’articolo c’è molto di più della statuizione dell’eguaglianza di fronte alla legge e del rifiuto delle discriminazioni di qualsiasi tipo e delle loro “giustificazioni”. Vi si trovano limpidamente indicate le culture politiche, liberale, cattolico-democratica, social comunista, ai cui principi e alla cui volontà di collaborazione reciproca siamo debitori della Costituzione e, soprattutto, c’è una innovativa e potente concezione, non dello Stato, ma della convivenza organizzata sotto forma di Repubblica. Sono gli italiani, siamo noi la Repubblica che deve “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale … che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Basso fu giustamente orgoglioso del suo contributo alla stesura di questo articolo. Intervenendo in Assemblea Costituente, ebbe modo di argomentare (come opportunamente riportato da Giorgi, p. 176) che “la democrazia si difende […] non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dei poteri dello Stato, ma, al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato […]. Solo se noi otterremo che tutti siano effettivamente messi in condizione di partecipare alla gestione economica e sociale della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia”.
L’altro suo importantissimo contributo fu data alla scrittura dell’art. 49, quello noto in maniera un po’ riduttiva e persino fuorviante come l’articolo sui partiti. In verità, l’articolo riguarda il “diritto dei cittadini ad associarsi liberamente in partiti”. Per Basso i partiti sono “la più alta espressione della democrazia, perché consentono a milioni di cittadini di diventare ogni giorno partecipi della gestione politica del Paese” (Giorgi, p. 202). Molto giustamente Giorgi nota il nesso tra l’articolo 49, l’articolo 1 e l’articolo 3 e più avanti riporta uno scritto nel quale Basso sostiene che “la classe si dà un’organizzazione politica: questa è il partito”. Nello stesso periodo, Palmiro Togliatti affermava “i partiti sono la democrazia che si organizza”. Neppure vent’anni dopo Bobbio si interrogava se i partiti fossero ancora un tramite fra cittadini e potere politico oppure non si fossero trasformati in un diaframma. Quanto alla pratica, Basso uomo di partito ebbe enormi traversie. “Fermamente contrario all’ipotesi di scissione” (Monina, p. 199), se ne andò dal PSI nel gennaio 1964; convinto dell’importanza della disciplina di partito, terminò la sua esperienza politica come “indipendente anche nel gruppo [della Sinistra] indipendente” (Monina, p. 325). Fu talmente indipendente da votare il 6 agosto 1976 contro il primo governo Andreotti della solidarietà nazionale, quello sostenuto dall’esterno dai comunisti che lo avevano debitamente rieletto nelle elezioni del 20 giugno. Un anno dopo avrebbe poi anche contraddetto frontalmente la politica di Enrico Berlinguer affermando che “le parole d’ordine del ‘compromesso storico’ e dell”austerità’ non sono certo ‘adatte a suscitare entusiasmo e a convincere la gioventù d’oggi'” (Monina, p. 402).
Dal novembre 1983 al 1 febbraio 1985, fui tra i componenti della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali presieduta dall’on. Aldo Bozzi (PLI). Mi preparai leggendo una pluralità di testi di interpretazione e di valutazione della Costituzione. Oltre a quelli, fondamentali di Piero Calamandrei e di Costantino Mortati, lessi il libro di Basso, Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana (Milano, Feltrinelli, 1958). Sono in grado di misurare le distanze fra la visione complessiva di Basso e le riforme, fra le quali quella della legge elettorale proporzionale che Basso aveva strenuamente difeso nel 1953 contro la legge “truffa”, che proposi in quella sede. Proprio per difendere la visione complessiva di una democrazia parlamentare fondata sui partiti ritenni che bisognasse ridefinire i rapporti “elettori-partiti-Parlamento-governo” con l’obiettivo di Restituire lo scettro al principe (il titolo del mio libro pubblicato da Laterza nel 1985), con la p minuscola poiché in quegli anni, ma ancora adesso, c’è qualcuno che, contro la lettera e lo spirito della Costituzione italiana, che non evidentemente conosce abbastanza, definisce Principe il capo del governo. Proseguendo le mie riflessioni decisi di approfondire l’attività di Basso Costituente con un articolo pubblicato nel 1987 in “Quaderni Costituzionali”. Nel frattempo, per uno degli strani casi della vita, Giuseppe Branca mi commissionò il commento all’art. 49 per il monumentale Commentario alla Costituzione da lui diretto.
Qui, il mio incrocio con Basso è ancora più tortuoso, ma davvero curioso. Nel 1971, alla scadenza del suo mandato alla Corte Costituzionale, di cui era diventato Presidente, Branca doveva essere sostituito da un giudice di area socialista la cui designazione spettava al PSI. Non sta a me giudicare con quanta convinzione i socialisti designarono Basso. È molto probabile che non si siano accertati del gradimento degli altri partiti, in particolare della DC, nella quale Andreotti esercitò un intollerabile veto che portò, dopo tre votazioni, alla inevitabile rinuncia di Basso. Pochi mesi dopo Basso fu candidato “come indipendente nelle liste unitarie social comuniste [meglio PSIUP-PCI] per il collegio senatoriale di Milano” (Monina, p. 324 congiuntamente dallo PSIUP e dal PCI a Milano. Ebbe il “pieno sostegno della Casa della Cultura” (Monina, p. 325) alle cui attività aveva molto frequentemente collaborato fin dagli inizi nel 1946. Vinse e entrò nel Gruppo della Sinistra Indipendente del Senato dove nel mandato successivo avrebbe trovato Anderlini e nel quale sarei entrato anch’io nel 1983. Curiosamente, ero stato eletto (e verrò rieletto) nel collegio di Portomaggiore-Ferrara quello rappresentato per due legislature proprio da Giuseppe Branca. Direi che almeno questo piccolo cerchio si era così chiuso.
Dieci anni dopo la morte di Basso se ne tenne una commemorazione in Senato. Avevo appena curato la raccolta dei Discorsi parlamentari di Lelio Basso (Senato 1988), compito affidatomi da Fanfani e confermato da Spadolini e, naturalmente, andai alla commemorazione. Seduto in prima fila, ma molto decentrato, vicino a me rimaneva un posto libero, presto occupato da un uomo alto, elegante, con una camicia bianca appena indossata. Era Bettino Craxi il quale, come se ci vedessimo tutti i giorni (dubito si ricordasse che ci eravamo incontrati dieci anni prima in occasione dell’elaborazione del programma della Alternativa socialista), mi confidò, da un lato, senza mezze parole di non apprezzare l’oratore del momento, dall’altro, con un leggero sentimento di nostalgia di avere conosciuto Basso nello studio d’avvocato di suo padre e di essere diventato socialista anche in seguito a quell’incontro.
In conclusione, potrei limitarmi, quasi d’ufficio, a sottolineare la complessità della personalità e della vita politica di Basso, ma credo sia giusto mettere in rilievo anche tre suoi punti deboli: primo, l’atteggiamento nei confronti dell’URSS e della sua involuzione, mai criticata a fondo tanto che dovette persino difendersi dai suoi critici dopo l’invasione della Cecoslovacchia, scrivendo “non ho niente di comune con i nostalgici dello stalinismo” (Monina, p. 290) e non può esserci dubbio che lo stalinismo era quanto di più distante ci fosse dalla sua concezione del comunismo plasmata dal pensiero e dagli scritti di Rosa Luxemburg; secondo, per l’appunto, il contrasto/contraddizione fra il suo voler essere “fedele allo spirito di Marx” offrendo attraverso la rivista “Problemi del socialismo” “una base ideologica” per aiutare il comunismo occidentale “a liberarsi dagli schemi ortodossi del marxismo-leninismo” (Monina, p. 406) e i residui di quell’ortodossia dai quali lui stesso fu talvolta influenzato; terzo, il suo meno che limpido atteggiamento nei confronti dello Stato d’Israele che spingono Monina, quasi del tutto alieno dal criticare affermazioni e comportamenti di Basso, a scrivere che, in particolare nel 1974, Basso inasprì i toni della sua denuncia di Israele “adombrando scivolosi paralleli tra la persecuzione subita dagli ebrei e quella da loro inflitta ai palestinesi oppure tra Israele e il regime di apartheid sudafricano” (Monina, p. 372).
L’epigrafe più veritiera e più limpida ad una vita ben vissuta la scrisse lui stesso in una lettera alla moglie nel gennaio 1975: “Ho sbagliato molte cose nella vita, ma credo di poter dire che ho sempre agito secondo le mie convinzioni e che non mi sono mai venduto per ambizione di successo, di potere, di denaro: Mi piacerebbe se di me rimanesse solo questo ricordo” (Monina, p. 389). Rimane, ovviamente, molto di più: una mole di scritti di grande valore, una Fondazione (con la quale ho variamente, ma non intensamente, collaborato), questa bella biografia in due volumi e, soprattutto, l’esemplarità di una vita fatta di battaglie, ma anche di sconfitte dalle quali ricominciare.
Referendum costituzionali, forse. Plebiscito, NO
Il Mulino 4/2016 (pp. 635-639)
Consapevoli che una pluralità di situazioni possono rendere indispensabile la revisione di uno o più articoli anche della migliore delle Costituzioni, i Costituenti scrissero con grande cura l’articolo 138. Esclusa dalla revisione costituzionale la “forma repubblicana dello Stato” (menzionata nell’articolo successivo), tutti gli articoli da loro scritti sono suscettibili di revisioni con una procedura non troppo onerosa e con maggioranze diverse. Qualora la revisione costituzionale –i Costituenti non immaginarono che i loro successori avrebbero proceduto a colpi di cospicui pacchetti di articoli: 56 quelli riformati dalla maggioranza di centro-destra nel 2005; 44 quelli riscritti dal governo Renzi nel 2015-2016, invece di osservare pienamente il testo dell’art. 138 che si riferisce a leggi di revisione, al plurale–fosse stata approvata da una maggioranza parlamentare dei due terzi o più in entrambe le Camere non avrebbe potuto essere sottoposta a referendum. Da un lato, è ipotizzabile che i Costituenti ritenessero che una maggioranza di tali dimensioni non potesse non essere rappresentativa delle opinioni popolari; dall’altro, volevano evitare un voto che contrapponesse una minoranza intensa a quell’ampia maggioranza parlamentare finendo per delegittimare il Parlamento. Esito grave, in special modo, in un paese sempre caratterizzato da non troppo latente e sempre strisciante antiparlamentarismo. La non necessità di quorum era chiaramente motivata dalla convinzione dei Costituenti che fosse non solo giusto, ma opportuno, attribuire maggiore potere ai cittadini che, interessati a quella specifica revisione e informatisi, si mobilitassero sia a sostegno di quanto fatto dal Parlamento sia, più probabilmente e più comprensibilmente, contro. Chi partecipa merita un premio. Deve contare di più.
Nient’affatto priva di interesse, politico e istituzionale, è l’indicazione di quali sono i soggetti legittimati a chiedere il referendum costituzionale, nell’ordine: un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non figura fra loro né il governo né un Ministro, eventualmente quello delle Riforme Istituzionali, né la maggioranza governativa. Non si tratta evidentemente né di una dimenticanza né di una questione banalmente lessicale. Le revisioni della Costituzione dovevano essere compito precipuo, secondo i Costituenti, del Parlamento. Nulla osta, naturalmente, che nel Parlamento si attivi una maggioranza che coincida/e con quella governativa, ma appare quantomeno bizzarro che sia la maggioranza che ha proposto, formulato, argomentato e condotto a votazione e ad approvazione quelle revisioni a chiedere, non avendo nessun obbligo, un referendum. Invece, è facilmente possibile individuare le credenziali e le qualità di ciascuno dei tre soggetti legittimati a chiedere il referendum costituzionale. I parlamentari appartenenti ad una Camera hanno preso parte alle deliberazioni su qualsivoglia revisione. Sono, per così dire, informati dei fatti (non resisto ad aggiungere “e dei misfatti”). Hanno appreso le motivazioni espresse dai revisionisti. Hanno contro-argomentato. Ritengono di avere valide critiche e controproposte da sottoporre agli elettori. Possono persino pensare che, in ogni caso, è giusto portare all’attenzione degli elettori e dell’opinione pubblica quanto è stato fatto per illuminarne le conseguenze che, loro, evidentemente considerano negative. Quest’opera di pedagogia costituzionale, che sarà sicuramente contrastata dai revisionisti, è destinata a fare crescere la, com’era evidente allora e come, purtroppo, è ancora fin troppo vero oggi, scarsa, inadeguata, manipolabile, conoscenza dei cittadini italiani della loro Costituzione.
Già legittimati a chiedere il referendum abrogativo di leggi ordinarie, cinquecento mila elettori, forse “convinti” dai loro partiti (i quali, però, da qualche tempo hanno perso la capacità di raggiungere così tanti cittadini e, infatti, si esercitano negli inviti al più facile, ma deprecabile, astensionismo), forse guidati e coordinati da una pluralità di associazioni, accettano di sfidare la maggioranza parlamentare che ha prodotto revisioni da loro considerate inaccettabili. Infine, in una Costituzione che aveva cercato di alleggerire il centralismo e di favorire il regionalismo, apparve opportuno affidare anche ai Consigli regionali, sperabilmente meglio capaci di interpretare aspettative e desideri dei loro elettori, la possibilità/facoltà di chiedere il referendum costituzionale.
Riesce davvero difficile ipotizzare che quei parlamentari, quei cinquecentomila elettori, questi cinque Consigli regionali investano energie, tempo, denaro per confermare revisioni costituzionali invece di attendere che siano effettivamente gli oppositori a esporsi e a prendere l’iniziativa. Il referendum costituzionale non ha bisogno di nessun aggettivo, ma, se si vuole utilizzarne uno, il più appropriato e calzante è sicuramente “oppositivo”: contro le modifiche approvate. Solo dopo il voto, è plausibile utilizzare l’aggettivo “confermativo” se, in effetti, l’elettorato ha approvato le revisioni. Ma l’aggettivo s’ attaglia all’esito che conferma le revisioni non al referendum in quanto tale. Chiaro è, tuttavia, e molto deplorevole l’intento manipolatorio, quand’anche derivato da semplice, ma inescusabile, ignoranza, di coloro che insistono a usare l’aggettivo confermativo.
Quasi fin dall’inizio del percorso che ha portato alla modifica di molti articoli della Costituzione italiana sia il Ministro Maria Elena Boschi sia il Presidente del Consiglio Matteo Renzi hanno ripetutamente dichiarato che avrebbero sottoposto le revisioni approvate al vaglio referendario. Il grido di battaglia è stato quasi immediatamente trovato: il capo del governo ci mette la faccia e ci scommette la carica. Se il suo referendum non verrà approvato si dimetterà e uscirà dalla politica. Tecnicamente siamo di fronte ad una minaccia o ricatto plebiscitario.
I referendum chiesti sulla propria persona (l’obiezione che in ballo sono revisioni sostanziali che faranno funzionare meglio il sistema politico a tutto vantaggio dei cittadini italiani è assolutamente fuori luogo) dai capi di governo sono senza eccezione alcuna plebisciti. Affermando che il voto referendario riguarderà la durata del governo e potrebbe portarlo alle dimissioni, il capo del governo inserisce un elemento del tutto estraneo all’oggetto del referendum. Tenta di manipolare l’opinione pubblica spostandone l’attenzione e influenzandone il voto.
Sconsiglio vivamente di ricorrere all’esempio del referendum francese dell’aprile 1969 sulla regionalizzazione e sulla riforma del Senato fatte da de Gaulle (la cui statura politica già dovrebbe scoraggiare paragoni) poiché, se è vero che il Generale-Presidente della Repubblica, ritenendosi sconfessato dal “no” dell’elettorato, si dimise, è altrettanto vero che non aveva affatto promesso anticipatamente quelle dimissioni se l’elettorato non avesse approvato le sue riforme (approvò quella della regionalizzazione). Sconsiglio altresì di evitare il paragone con il referendum sulla scala mobile del 1985 per tre buonissime ragioni. Prima ragione: il referendum fu chiesto dal Partito Comunista di Enrico Berlinguer (che non ebbe il tempo per revocarlo) e non dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi. Seconda ragione: il referendum riguardava l’eventuale abrogazione di una legge ordinaria senza nessuna implicazione di aumento dei poteri del governo e del suo capo. Terza ragione: Craxi non preannunciò e non fece una campagna carica di motivazioni plebiscitarie. Si limitò ad affermare che, abrogata una legge cruciale per la sua attività di governo, ne avrebbe tratto le conseguenze istituzionali e politiche.
Quanto ai due referendum costituzionali del 2001 e del 2006, entrambi contengono elementi interessanti, nessuno dei quali giustifica le implicazioni plebiscitarie del referendum prossimo venturo. Nell’ottobre 2001, quando si tenne il referendum sulla revisione del Titolo V della Costituzione, il centro-sinistra che aveva fatto quella brutta operazione e aveva anche, forse a causa di una grande coda di paglia, chiesto un referendum per mostrare che il “popolo” approvava quella revisione, aveva già perso le elezioni politiche. Nessun capo di governo, ma neppure nessun capo partito poté intestarsi quel successo tanto facile e prevedibile quanto assolutamente inutile. Conforme al dettato costituzionale è stato il referendum del giugno 2006. Chiesto dal centro-sinistra contro le revisioni costituzionali formulate e approvate dalla maggioranza di centro-destra (56 articoli modificati), il referendum costituzionale, per il quale nessuno adoperò l’aggettivo confermativo, essendo ben altre le conseguenze desiderate e prevedibili, ebbe uno svolgimento da manuale. Il 61 percento del 52 per cento di elettori andati alle urne bocciò le riforme. Neppure in questo caso, vi furono politici, capi di partito o governanti (nell’aprile 2006 l’Unione, vinte le elezioni, era fortunosamente tornata al governo) che sfruttarono la campagna elettorale per accrescere il loro prestigio e/o potere politico e per intestarsi la vittoria.
Al discorso fin qui condotto sul referendum costituzionale e i suoi usi propri e impropri non può mancare un riferimento alle conseguenze politiche sia della campagna elettorale sia, ma solo in parte, dell’esito. Infatti, il Presidente del Consiglio, indossando i panni di segretario del Partito Democratico e annunciando la Costituzione dei Comitati per il “Sì”, ha fatto un’affermazione molto impegnativa. Ha dichiarato a chiare lettere che da quei Comitati uscirà la nuova classe dirigente del PD. Il messaggio ha due, forse tre, destinatari: i renziani e gli oppositori interni, le minoranze, ma anche qualche volonteroso”esterno”. I renziani entreranno in competizione fra loro e dal loro impegno, dalla loro devozione, dalla loro applicazione della linea verranno giudicati. Le minoranze interne dovranno subito abbandonare qualsiasi riserva (che, peraltro, rientrerebbe appieno nell’assenza del vincolo di mandato e del voto di coscienza, … se l’avessero espresso a suo tempo) sulle revisioni costituzionali, sulle quali hanno tenuto comportamenti tanto ondeggianti quanto sterili, per non correre il rischio di essere esclusi dalle candidature alle prossime elezioni che, sull’onda di una conferma plebiscitaria, potrebbero avvicinarsi. Ma, e qui sta il terzo destinatario, ai parlamentari, non facenti parte della maggioranza, ma accorsi in suo soccorso, che avranno predisposto e fatto funzionare Comitati per il “Sì”, Renzi promette che non lesinerà riconoscimenti e ricompense. Anche in questo modo si precostituisce un Partito della Nazione. Anche così viene in essere la prossima maggioranza parlamentare. Sono conseguenze da non trascurare dei molti usi di un referendum costituzionale trasformato in plebiscito.
Riforme: un’altra narrazione
Naturalmente, i tempi nuovi richiedono, sostengono molti, nuove narrazioni. Richiedono anche nuovi narratori. Forse li abbiamo già trovati. Qualcuno ritiene che é sufficiente che la narrazione sia nuova e che i narratori siano giovani affinché si ottenga un salto di qualità. Altri, invece, pensano che nessun salto di qualità potrà essere effettuato se non si produce una analisi seria e approfondita delle nuove narrazioni, se non si va ad un contraddittorio franco e duro. Qui mi scapperebbe di aggiungere, ma sarebbe un appunto da “vecchia” narrazione, al fine di pervenire ad “una piú elevata sintesi”. Come non scritto. Naturalmente, “contraddittorio” significa confronto sulle idee e sulle proposte contenute nelle nuove narrazioni. Non consiste in nessun modo nella derisione personale con la quale si travolgono gli eventuali interlocutori, magari approfittando delle proprie posizioni di potere politico. Ciò detto, in questo breve articolo, mi eserciterò soltanto nell’analisi della narrazione istituzionale variamente e succintamente pronunciata dal presidente del Consiglio alla quale hanno finora fatto da eco tutti i suoi collaboratori senza eccezione alcuna.
Naturalmente non è vero che negli ultimi trent’anni di riforme non ne siano state fatte. Anche tralasciando la legge sulla Presidenza del Consiglio nel 1988, nello stesso anno giunse a compimento la sostanziale abolizione del voto segreto voluta da Bettino Craxi. Tre anni dopo, anche contro il famoso invito di Craxi ad andare al mare, il 62,5 per cento degli elettori italiani preferì andare a votare nel referendum sulla preferenza unica. Nel 1990 era già stata approvata una legge innovativa, per quanto priva di interventi sul sistema elettorale, sul riordino delle autonomie locali. Nel 1993, superata l’incerta giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia elettorale, gli italiani furono in grado di dare una spallata consapevole e decisiva alla legge elettorale proporzionale e, nella stessa tornata, abolirono il finanziamento statale dei partiti e tre ministeri: Agricoltura, Partecipazioni Statali, Turismo e Spettacolo. Per evitare un referendum che avrebbe cambiato in senso fortemente maggioritario la legge per l’elezione dei comuni e delle province, nello stesso anno il parlamento approvò la tuttora vigente legge in materia che ha dato ottima prova di sé. Nel 2001 il centro-sinistra formulò cambiamenti significativi, nei rapporti Stato/enti locali, Titolo V, giungendo fino, così si vantarono quei legislatori, “ai limiti del federalismo” (quello allora alla moda). Poi, per consolarsi delle elezioni perdute, ma stabilendo un brutto precedente, il centro-sinistra sottopose la sua riforma costituzionale a referendum, vincendolo, nell’ottobre 2001. Nel 2005, il centro-destra fece approvare dai suoi parlamentari sia la legge elettorale nota come Porcellum sia un’ambiziosa riforma della Costituzione: 56 articoli su 138. Anche se smantellato dalla Corte costituzionale, il Porcellum è ancora con noi, mentre in un referendum tenutosi su sua richiesta nel giugno 2006, il centro-sinistra fece bocciare dall’elettorato l’intera, pasticciata, riforma costituzionale del centro-destra. Nessun rimprovero, nessun rimpianto, nessuna autocritica.
Dunque, seppure controverse e scoordinate, molte riforme sono state fatte e approvate dal 1988 ad oggi. É stupefacente come i mass media non siano stati in grado oppure non abbiano voluto controbattere con dati durissimi le affermazioni propagandistiche del presidente del Consiglio, del suo ministro per le Riforme Istituzionali, dei suoi costituzionalisti (ma anche di qualche improvvisato politologo) di riferimento che si presentano come i riformatori venuti dal nulla.
Oltre alle riforme costituzionali e istituzionali, da circa quindici anni a questa parte, seppur faticosamente, nel centro-sinistra, nella pratica ante litteram prima, poi, quello che più conta, nello Statuto del Partito democratico, è stata introdotta una riforma molto importante, fra l’altro, decisiva per la stessa carriera politica di Matteo Renzi: le elezioni primarie. Non è il caso di andare alla ricerca dei diritti di primogenitura (ma poiché carta canta, anche la carta della rivista “il Mulino”), l’esercizio è facilmente fattibile. É sufficiente sfogliare l’indice degli articoli pubblicati negli anni novanta. Certamente, fra i fautori delle primarie non troveremo i costituzionalisti dell’attuale presidente del Consiglio. Non troveremo i professoroni. Non troveremo neppure i “gufi”. Troveremo, invece, coloro, pochissimi, che hanno sempre creduto e scritto che nessuna riforma, neanche la più tranchante, delle istituzioni, è in grado di produrre, da sola, un miglior funzionamento del sistema politico se non riesce a trasformare i partiti politici che, per quanto indeboliti, ma meno di quel che si crede, rimangono centrali. Chi sottovaluta l’importanza delle primarie e dei rapporti “istituzioni-partiti” è destinato a fare riforme brutte che avranno cattive conseguenze.
Naturalmente, non è vero che, se andasse in porto, la riforma del Senato porrebbe fine al bicameralismo perfetto. Infatti, il bicameralismo italiano, se le parole hanno un senso, e in politica sarebbe sempre opportuno che lo avessero, non è mai stato perfetto (aggettivo che si riferisce al funzionamento). É sempre stato indifferenziato e paritario, aggettivi che si riferiscono alle strutture e ai poteri. Non è neppure vero che la lentezza del processo legislativo in Italia sia attribuibile all’esistenza di due Camere. Infatti, come ripetutamente evidenziano i presidenti di Camera e Senato, sbagliando ripetutamente, poiché considerano il numero delle leggi approvate il segnale che il parlamento fa le leggi, mentre le leggi le fa il governo spesso saltando il parlamento con la decretazione e umiliandolo con i voti di fiducia, entrambe le Camere sono sempre state molto operose. Anno dopo anno, un po’ meno di recente, fanno (meglio approvano) molte leggi, all’incirca quattro volte di più di Westminster, la madre di tutti i Parlamenti, abbondantemente due volte di più di Bundestag e Bundesrat tedeschi e dell’Assemblea Nazionale e del Senato della Quinta Repubblica francese, tutti parlamenti bicamerali “imperfetti”, ovvero differenziati. Pertanto, né la quantità né la velocità della produzione legislativa costituiscono criteri convincenti a giustificazione della riforma del Senato per porre fine ad un bicameralismo che perfetto non è mai stato, ma che non ha in quasi nessun caso e modo costituito l’intralcio principale o predominante all’azione del governo. Gli stessi commentatori che hanno, non proprio sobriamente, applaudito la riduzione del Senato a Camera delle regioni, hanno sempre pappagallescamente argomentato che il problema del modello di governo parlamentare all’italiana consiste nei pochi poteri a disposizione del presidente del Consiglio. Pare alquanto difficile sostenere che ridimensionando i poteri del Senato, fin quasi all’azzeramento sulle leggi del governo e sulla possibilità di chiamare il governo e i suoi ministri a rendere conto del fatto, del non fatto e del malfatto, automaticamente il presidente del Consiglio italiano ne uscirà con potere istituzionale e politico rafforzato.
Naturalmente, nelle democrazie parlamentari, “forti” risultano essere i capi di governo, uomini e donne che sono espressione di un partito grande, coeso, rappresentativo di più ceti sociali, che hanno esperienze di governo e che guidano una coalizione programmatica. Curiosamente, negli stessi giorni dell’epica battaglia di Palazzo Madama, battuto alla Camera dei deputati, il governo Renzi annunciava che avrebbe recuperato al Senato. No comment. Al momento, è soltanto possibile affermare che la riforma del Senato squilibra la democrazia parlamentare italiana. Non è una deriva autoritaria. Più italianamente, è la deriva di chi procede perseguendo tornaconti di immagine e di pubblicità di breve periodo poiché la sua incultura istituzionale non gli consente neppure di intravedere il lungo periodo.
Naturalmente, “non esiste proprio” che la disciplina di partito possa essere imposta sulle riforme costituzionali. Il solo pensiero è aberrante. Sentirlo dire e ripetere dai collaboratori di Renzi senza che nessuno dei commentatori e dei giornalisti rilevi l’aberrazione è più che sconfortante. Primo, la disciplina di partito può essere richiesta ai parlamentari esclusivamente sulle materie inserite nel programma che il loro partito ha sottoposto agli elettori, sul quale ha ottenuto voti grazie ai quali quei parlamentari sono stati eletti, soprattutto quando esistono le liste bloccate. Il discorso potrebbe essere leggermente diverso se i parlamentari fossero stati eletti in collegi uninominali. In questo caso, alcuni approfondimenti e altre precisazioni sarebbero necessarie. Toccherebbe a quei parlamentari formularli anche come informazione da mettere a disposizione degli elettori, sicuramente interessati ed esigenti, dei loro collegi. La disciplina di partito può anche essere richiesta sul programma di governo concordato con gli indispensabili alleati, in particolare se i gruppi parlamentari sono stati coinvolti, come dovrebbero, nella definizione del programma di governo. Su altre, imprevedibili materie, ad esempio, le emergenze, ovvero problemi che sorgono improvvisamente e che necessitano una soluzione rapida, quella disciplina di partito non può essere richiesta, ma deve essere conquistata con consultazioni e anche con votazioni chiare e trasparenti.
Sulle modifiche costituzionali e sulle votazioni che riguardano persone, i parlamentari hanno la facoltà, se lo desiderano, di richiamarsi all’assenza di vincolo di mandato (art. 67). Tuttavia, il loro voto difforme da quello dei parlamentari del loro partito non può essere giustificato soltanto con il richiamo alla “coscienza”. Troppo facile e, qualche volta, persino assolutamente ipocrita. Soprattutto un voto di coscienza non argomentato non comunica le indispensabili informazioni del parlamentare dissenziente agli altri parlamentari, al suo partito, agli elettori, all’opinione pubblica. Il voto di coscienza deve essere argomentato con riferimento alla “scienza”. In base alle conoscenze loro disponibili, ad esempio, relative al possesso da parte di un leader autoritario di armi di distruzione di massa, tutti i parlamentari sono sicuramente legittimati a negare il loro voto al governo di cui fa parte il loro partito. Quanto alle votazioni che riguardano persone -dall’autorizzazione all’arresto dei colleghi inquisiti all’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali -, nessun parlamentare deve mai essere messo né trovarsi nella condizione di “scambiare” apertamente il suo voto con l’arrestando o con l’eligendo e neppure di temere che il suo voto possa essere ritorto contro di lui, i candidati ad alcune cariche di rilievo essendo notoriamente uomini già abbastanza potenti e, spesso, provatamente vendicativi.
Naturalmente, non è vero che non conosciamo la sera delle elezioni chi ha vinto, Peraltro, dovrebbe interessarci sapere anche chi ha perso, quanto e perché. Lo abbiamo sempre saputo giá con la legge elettorale proporzionale utilizzata nella prima lunga fase della Repubblica italiana. Abbiamo continuato a saperlo con il Mattarellum (1994, 1996, 2001). Non abbiamo avuto dubbi, tranne il maldestro tentativo berlusconiano di riconteggio dei voti nel 2006, con il Porcellum. Con qualsiasi legge elettorale si sa chi ha vinto appena finito di contare i voti. Però, in nessuna democrazia parlamentare è sufficiente sapere chi ha vinto, numeri (di voti e di seggi) alla mano. In tutti i sistemi multipartitici delle democrazie parlamentari è giusto attendere che siano i dirigenti di partito a decidere, magari con riferimento a quanto detto durante la campagna elettorale e agli eventuali precedenti, chi farà parte della coalizione di governo e a chi andranno le cariche ministeriali, compresa anche la più elevata. Per fare un solo esempio, non c’è stata neppure una elezione in Germania (la Gran Bretagna é un caso fin troppo facile) nella quale non si sia saputo la sera della chiusura delle urne chi aveva vinto. Senza nessuno scandalo, per due volte la vincitrice, Angela Merkel, ha saggiamente costruito governi di Grande Coalizione (2005-2009; 2013–). Supponendo che esista un sistema elettorale dal quale esca sempre un velocissimo vincitore, questo non proprio miracoloso fatto cambierebbe la qualità della politica, dei partiti, del governo? Condurrebbe alla tanto agognata, ma mai precisamente specificata, governabilità?
Naturalmente, tutti vogliono la governabilità. Pochi sanno definirla. Pochi conoscono le condizioni alle quali acquisirla, mantenerla, esercitarla. Dal Presidente del Consiglio in carica, Matteo Renzi, non abbiamo finora avuto indicazioni precise, ma, forse, sì. Sarà la legge elettorale chiamata Italicum che, grazie al suo premio di maggioranza, assicurerà la governabilità. Quindi, la governabilità è la conseguenza oppure il prodotto di una maggioranza assoluta creata artificialmente dalla legge elettorale che, nelle parole del presidente della Repubblica, riportate senza rilievo da alcuni quotidiani, ma mai discusse, contiene clausole che debbono sicuramente essere sottoposte a “verifiche di costituzionalità”. Facendo un opportuno passo indietro, poiché né la voglia di riforme né quella di governabilità sono nate poche mesi fa, tra la metà degli anni settanta e la fine degli anni ottanta vi fu un intenso, importante, persino appassionato dibattito politologico e sociologico sulla governabilità e, soprattutto, sulla sua crisi. Il cuore del problema era: “come debbono comportarsi i governi democratici e le loro istituzioni per fare fronte alle domande, molte e nuove, espresse dalle loro società mobilitate, esigenti, post-materialiste?” Alla crisi di “sovraccarico” si prospettarono due risposte: scoraggiare le domande oppure accrescere la capacità delle istituzioni. Esistono molte modalità di scoraggiamento, a cominciare dall’indifferenza a continuare con il palleggiamento di responsabilità fra le autorità e le istituzioni a finire con lo scarico di responsabilità, ad esempio, sull’Unione europea e sulla Troika. Esistono soluzioni anche al più delicato compito e complesso compito di accrescere la capacità delle istituzioni. A quei tempi, qualcuno rilevò anche che, nei sistemi politici non soltanto europei nei quali un partito di sinistra al governo riusciva a convincere sindacati e organizzazioni imprenditoriali a entrare in rapporti di collaborazione e a concordare le politiche, la crisi di governabilità era di limitato impatto e trovava (trovò) soluzioni praticabili.
Accordi di non breve periodo fra governi, partiti, associazioni sindacali e organizzazioni imprenditoriali, che tecnicamente si chiamano “neo-corporativismo”, vanno contro tutte le indicazioni e i suggerimenti che certi “autorevoli” editorialisti danno da anni a tutti i governanti italiani di turno (un po’ meno a Berlusconi) intesi a porre fine a qualsiasi forma di concertazione e a “spezzare le reni” ai gruppi di interesse dei più vari tipi, senza nessuna distinzione. In seguito, si sostenne che la governabilità dipende dalla stabilità degli esecutivi e che, di conseguenza, le leggi elettorali che insediano maggioranze assolute sono la (semplicistica, illusoria, é sufficiente leggere la storia inglese degli anni sessanta e settanta) soluzione: stabilità governativa eguale governabilità. Qualcuno aggiunse che la stabilità governativa è soltanto una premessa per l’esercizio dell’efficacia decisionale, magari in maniera molto veloce. In attesa di qualche criterio per valutare l’impatto e la qualità delle decisioni, anche in materia costituzionale, ci si può fermare, piuttosto perplessi, qui.
Naturalmente, i referendum costituzionali non li chiedono i governi. Eppure questo è l’annuncio ripetuto, prima e dopo la riformetta del Senato, dal ministro Maria Elena Boschi e dal presidente del Consiglio. Entrambi, davvero generosamente, hanno aggiunto la paradossale concessione che il governo farà deliberatamente mancare nella seconda lettura la maggioranza dei due terzi (maggioranza che, comunque, al Senato, se la sognano) per consentire ovvero, addirittura, per chiedere lui stesso un referendum popolare sulle riforme costituzionali. I referendum chiesti dai governi hanno un nome chiarissimo. Sono plebisciti. Restano tali anche quando i referendum costituzionali li chiese de Gaulle che, da leader carismatico quale sicuramente fu, voleva proprio un plebiscito sulla sua persona. Quando gli fu negato, guarda caso proprio sulla riforma del Senato nel 1969, sdegnosamente, ma in maniera impeccabilmente responsabile, se ne andò a Colombey-les deux églises a completare quell’eccezionale documento letterario che sono le sue memorie. Secondo l’art. 138, i referendum costituzionali possono essere chiesti da un quinto dei parlamentari di una o dell’altra Camera oppure da cinque consigli regionali o da 500 mila elettori.
Naturalmente, non Renzi, capo del governo, ma Renzi segretario del Partito democratico ha la facoltà di invitare (obbligare, magari, no) i suoi parlamentari, le maggioranze consiliari in cinque regioni, gli iscritti e i simpatizzanti del Partito democratico a chiedere il referendum. Tuttavia, la striscia plebiscitaria si vedrebbe comunque. Purtroppo, il centro-sinistra, popolato da “quelli che… la Costituzione più bella del mondo”, fecero, come ho rilevato sopra, questa superflua e brutta torsione referendaria nel 2001, creando un precedente. Non è, però, il caso di insistere nella proposta di un’operazione che spetta, se lo vorranno, alle minoranze, e che sarebbe costosa in termini di denaro, di tempo e di energie. Anzi, il governo deve essere fortemente scoraggiato a esercitarsi in inutili prove di forza. Impieghi piuttosto le sue e le nostre risorse in modi più produttivi.
Naturalmente, chi conosce le Costituzioni sa che sono state costruite in maniera sistemica, vale a dire che, soprattutto le migliori, hanno tenuto conto dei rapporti e delle interazioni che si stabiliscono fra le istituzioni e che conducono a una varietà di esiti. In un certo senso, i limiti al potere di una istituzione sono posti dal potere di un’altra istituzione. Tecnicamente, spesso se ne parla come di checks and balances, freni e contrappesi. Se ad un’istituzione si danno poteri significativi strappandoli ad un’altra istituzione allora bisognerà trovare contrappesi altrove. Talvolta ci si trova anche in situazioni di inter-institutional accountability, vale a dire che ciascuna istituzione ha responsabilità che deve osservare nei confronti delle altre, e viceversa. La prendo alla larga per farla facile. Se il rapporto “governo-parlamento” viene squilibrato togliendo molto, quasi tutto il potere che il Senato ha nei confronti del governo e abolendo la responsabilizzazione del governo nei confronti del Senato, allora nella rimanente Camera dei deputati sarà opportuno che l’opposizione parlamentare acquisisca maggiori poteri di ispezione e di controllo sul governo. Tuttavia, non si tratta soltanto di questo come rivela una valutazione congiunta, seria e comprensiva del progetto di riforma elettorale. Tralascio le giravolte compiute dal premier a partire dalla presentazione in gennaio di addirittura tre progetti diversi di legge elettorale per approdare ad un testo che non rifletteva nessuno dei tre (e che, in seguito, è variamente cambiato). Tralascio anche il frequente e ripetuto riferimento alla formula sindaco d’Italia, ma almeno un commento deve essere fatto. In qualsiasi salsa, “sindaco d’Italia” significa mutamento della forma di governo dell’Italia: da democrazia parlamentare a democrazia presidenziale, per di piú priva dei freni e contrappesi dei presidenzialismi migliori e irrigidita nei rapporti fra il sindaco/capo di governo e il Consiglio-Camera dei deputati. A prescindere che non esiste nulla di simile altrove, non c’é nessuna garanzia che quanto funziona a livello locale riesca automaticamente funzionare a livello nazionale. Al contrario.
Per quel che riguarda l’Italicum nella sua versione approvata alla Camera dei deputati, mi limito, per il momento, alle osservazioni che, proprio perché sono le piú semplici, dovrebbero fare ripensare tutta la legge. Primo, se la Corte costituzionale “condanna” le liste bloccate perché impediscono all’elettore di esercitare il suo diritto di scelta fra i candidati al parlamento perché mai liste corte, ma ugualmente bloccate, sarebbero accettabili? Criticamente, rilevo che la Corte si fa davvero delle illusioni se ritiene accettabili liste “nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto”. Attendiamo, comunque, di sapere quanto esiguo debba essere quel numero. Non dobbiamo attendere per sapere che sicuramente ci saranno in quelle liste “corte” numerosi imboscati.
Nel giugno 1991, gli elettori approvarono contro l’esplicita opposizione di quasi tutti i dirigenti di partito il quesito sulla preferenza unica. Naturalmente, è possibile sostenere che quegli elettori volevano molto di più. Il minimo comun denominatore era allora e rimane oggi non nessuna preferenza, ma una sola. Un solo voto di preferenza non può essere scambiato (e moltiplicato) da cordate di candidati che si strutturano in correnti o che trattano con gruppi esterni. Una sola preferenza significa che gli elettori hanno un po’ di potere che, per quanto poco, è meglio di niente. Chi risponde a queste obiezioni che personalmente preferisce i collegi uninominali al voto di preferenza può, naturalmente, attivarsi per cambiare tutto l’impianto della legge. Altrimenti, voti per la “concessione” di una preferenza che toglie dalle mani dei dirigenti la nomina dei parlamentari. Con quella preferenza l’Italia entrerà nel club delle democrazie parlamentari europee, ventitré delle quali (su ventotto) hanno qualche modalità di voto di preferenza. Seconda osservazione, se la Corte dice che il premio di maggioranza va attribuito stabilendo in anticipo una soglia minima, quella soglia va determinata percentualmente e la sua entità argomentata in maniera convincente affinché, torno al cuore dei sistemi elettorali, conferisca effettivo potere al voto degli elettori. Esiste un solo modo per accrescere il potere degli elettori: stabilire che, a prescindere dalle percentuali ottenute, si procederà comunque al ballottaggio fra i due partiti e le due coalizioni più votate consentendo, come già si fa nel caso di ballottaggio fra candidati sindaco, l’apparentamento fra liste. Rimarrebbe, lo so benissimo, il rischio che il premio (se fisso) attribuito a un partito da solo non sia sufficiente affinché quel partito o coalizione riesca a raggiungere la maggioranza assoluta alla Camera. Tant pis o tanto meglio se questo è deciso dall’elettorato. Fra le clausole, si potrebbe anche aggiungere che, in caso di suo dissolvimento, la coalizione premiata perderà i seggi aggiuntivi che saranno redistribuiti proporzionalmente.
Mi rendo conto che sto entrando in dettagli tecnici, quelli dove si annida, soddisfatto, compiaciuto e competente il diavolo e, temporaneamente, mi fermo. Il punto vero, comparso improvvisamente alle non sistemiche menti dei riformatori elettorali, é che il premio in seggi avrà effetti anche sull’elezione ad opera del parlamento di molte cariche, a partire dai giudici costituzionali (con il rischio di dare vita ad una Corte palesemente di parte), ma soprattutto sull’elezione del presidente della Repubblica. Non mi arrampicherò sugli specchi dove i riformatori stanno cercando di trovare altri Grandi Elettori che evitino alla “premiata” maggioranza elettorale di diventare allegramente maggioranza presidenziale (spero, con la salvaguardia del voto segreto…). Credo che la soluzione possibile sia quella ventilata da coloro che pongono il quorum dei due terzi per le prime tre votazioni, andate a vuoto le quali si passerebbe ad un ballottaggio fra i due candidati piú votati affidato a tutto l’elettorato italiano. Poiché credo nella capacità degli uomini e delle donne di apprendere e di tenere conto dei requisiti della carica che occupano, con questa modalità ci sarebbero molte buone probabilità che l’eletto/a si comporterebbe da rappresentante “dell’unità nazionale”. A prescindere dalla soluzione,quello che appare chiaramente é come sia imperativo tenere conto degli effetti sistemici di qualsiasi riforma, mentre nella loro sregolatezza senza genio i riformatori non hanno inizialmente avuto neppure la minima consapevolezza del problema complessivo.
Al supermercato delle istituzioni, delle regole, dei meccanismi è disponibile un po’ di tutto, ma chi vuole riformare una Costituzione, deve sapere che non è dal supermercato che otterrà quello di cui ha bisogno, ma dalla elaborazione di un progetto sistemico. Oserei dire dai progetti sistemici formulati da architetti o ingegneri costituzionali e non solo. Opportunamente consultato, qualche politologo (purtroppo, non tutti) consiglierebbe di guardare in chiave comparata appunto ai sistemi politici, che non sono soltanto Costituzioni, che hanno dimostrato di funzionare in maniera (più che) soddisfacente. Guardare al mondo animale: ai porcelli, ai canguri, ai gufi, pur tenendo conto delle differenze, non conduce all’altezza della sfida.
Alla fine di questa, pur sintetica, panoramica in quanto ognuno dei punti che ho sollevato ha dietro di sé un’ampia letteratura scientifica nonché numerosi casi di pratiche concrete, mi permetto di concludere con due considerazioni generali. La prima é che la cultura costituzionale del paese, in special modo dei politici, degli operatori dei media e dell’opinione pubblica appare tuttora tristemente non aggiornata. Sconta anche un incredibilmente elevato livello di servilismo e di conformismo che la rendono palesemente inadeguata a contrastare sia le sparate sia gli invasivi tweet della propaganda del governo e dei suoi quartieri. Seconda considerazione, senza procedere a opportune analisi comparate, che sono lo strumento per controllare ipotesi, generalizzazioni e aspettative, qualsiasi riforma rischia di non conseguire gli esiti promessi e sperati. Rimane molto spazio per miglioramenti, ma, naturalmente, anche per peggioramenti.
Pubblicato in il Mulino, 5/2014, pp. 738/748, ora in Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Egea-Unibocconi, 2015 pp. 137/151
Primum vivere, deinde scribere l’autobiografia
Recensione del libro di Claudio Martelli, Ricordati di vivere, Bompiani, Milano, 2013, pp. 594
Il titolo dell’autobiografia politica di Claudio Martelli mi ha molto incuriosito. Però, giunto alla fine di una lettura sempre molto interessante confesso di non averlo capito. Deve essere un monito per altri, non identificati personaggi, forse per quei troppi dirigenti socialisti dei suoi anni ruggentissimi che, oltre che alla politica, si dedicavano alla ricerca di mezzi per stare in politica, per crescere nelle cariche e per arricchimento personale (“convento povero, frati ricchissimi” nella valutazione del socialista Rino Formica)? Certamente, a giudicare da quello che scrive lo stesso Martelli, lui non ha avuto bisogno di nessuno che gli ricordasse di vivere. Tralasciando per il momento il suo arrembante percorso politico, durato poco meno di trent’anni, quindici dei quali in ruoli importanti (quattro legislature alla Camera dei deputati, a lungo vice-segretario del PSI, Ministro della Giustizia e vice-Presidente del Consiglio, infine, dal 1999 al 2004 Europarlamentare), ha “goduto di generosi benefit del partito, spese di segreteria, affitto di appartamenti, macchine, viaggi, alberghi, ristoranti”. Tutto questo gli è servito per “fare politica onestamente e anche godere di agi e vantaggi” grazie “a Craxi e al Partito socialista, che [lo] hanno messo al riparo dai rischi di dover[s]i procurare le risorse necessarie per [lui], per i [suoi] collaboratori, per le campagne elettorali, per i continui trasferimenti di un piccolo apparato” (p. 578). Anche nel privato Martelli non si è affatto dimenticato di vivere: belle e avventurose vacanze dalla California al Kenya e una pluralità di rapporti sentimentali più che soddisfacenti e, se posso permettermi, molto variegati: due mogli, quattro figli da tre diverse compagne. Ce n’è abbastanza per riempire la vita anche di un uomo irrequieto, alla ricerca di qualcosa di non specificato, forse non soltanto di potere politico, ma di riconoscimento, che plachi la sua irrequietezza.
Dev’essere davvero difficile (vedo in giro molti esempi, di gran lunga meno interessanti di Martelli) per gli uomini che hanno avuto potere e che lo hanno per le più diverse ragioni, spesso soprattutto per loro demerito, perduto, rassegnarvisi graziosamente e intraprendere una second life. Se non hanno avuto altro interesse e altro scopo nella vita che quel potere politico, ahi ahi, la privazione diventa insopportabile poiché non sanno come occupare il loro tempo. Continuano a strusciare, finché possono, i piedi nel Transatlantico di Montecitorio, cercano di farsi citare dai giornalisti, vanno alla ricerca di qualche comparsata televisiva da ex. I più fortunati si fanno ficcare in qualche Commissione per la revisione di qualsiasi cosa non funzioni nello Stato italiano (e spesso vi riescono): patetici. Martelli, no. Questa autobiografia può essere letta non soltanto come il tentativo di riscrivere un pezzetto, importante, di storia italiana, socialista, personale, ma come una catarsi.
Ho cercato di capire le motivazioni del fatidico ingresso di Martelli in politica. Potrei dire che ho intravisto molta, legittima, ambizione, forse anche gli incentivi del tempo, inizi anni sessanta, non so se fin da subito, ma sicuramente in seguito, anche il tentativo di cambiare la politica, più che a livello locale, dove pure ebbe qualche responsabilità pratica, soprattutto a livello nazionale. E’ l’incontro con Craxi che segna la svolta decisiva e, per Martelli, molto positiva. Sono le differenze d’opinione con Craxi che, ad avviso di Martelli, impedirono cambiamenti cruciali, ad esempio, quello della (auto)riforma del partito, proposta da Martelli quando Craxi era già arrivato a Palazzo Chigi, quindi dopo il 1983 (pp. 311-321). Sono, infine, le divergenze con Craxi sui tempi e sui modi di proseguire la politica socialista poco prima del crollo del muro di Berlino. “Ancora alla vigilia del crollo dei muri, l’apparenza sembrava giustificare la tattica attendista di Bettino, che saldo su se stesso e sul suo partito si limitava a regolare il gioco politico dividendo gli alleati, logorando gli avversari, aspettando che un nuovo ciclo gli restituisse lo scettro [sic] con il ritorno a Palazzo Chigi o magari, chissà ( anche di questo abbiamo ragionato e vagheggiato in certi momenti), gli aprisse la strada al Quirinale” (p.439), che segnano una profonda e dolorosa incomprensione. Molto diversa erano la diagnosi preveggente e la strategia suggerite a Craxi da Martelli: “Una stagione politica è finita e pensare di ripeterla è molto rischioso. Che cosa può dare di più di quello che ha già dato nei quattro anni in cui sei stato presidente del consiglio? L’alleanza con la DC è esaurita, la DC è esausta, rischiamo di farci trascinare nella sua decadenza. Prepariamo qualcosa di nuovo, prepariamo un nuovo ciclo, dedichiamoci a riunire e guidare una sinistra divisa, confusa. Bettino, non basta parlare di unità socialista, formularla come un diktat, come un prendere o lasciare. Dobbiamo essere pronti anche noi a rinunciare a qualcosa, persino al governo se è necessario per costruire qualcosa di grande. … Dobbiamo puntare alla presidenza della repubblica, perché è da lì che si guiderà la nuova fase politica” (pp. 511-512).
Pure essendo molto consapevole del ruolo molto influente svolto dai Presidenti: da Scalfaro (poi criticatissimo da Martelli), in misura inferiore, da Ciampi, in misura enormemente superiore da Napolitano (regolarmente descritto da Martelli come molto attento alle preferenze e alle esigenze del PSI), non intendo discutere della validità dell’asserzione di Martelli (guidare la nuova fase politica dal Quirinale), ma trovo curioso come nella sua autobiografia i rapporti Craxi-Berlusconi siano appena accennati e il potere successivo di Berlusconi non sia neppure preso in considerazione. Maliziosamente aggiungerò che parecchio spazio viene concesso, invece, a Gelli e agli incontri da Martelli avuti con il capo della P2. Ancora più curioso è che Martelli scriva della necessità di “riunire e guidare” la sinistra, divisa e confusa, praticamente cancellando quello che mi era sembrato l’impegno predominante del suo agire politico, oserei aggiungere, intellettuale e culturale: costruire una grande forza politica liberalsocialista. Affronterò questo importantissimo aspetto facendo riferimento a due nomi, diversamente molto significativi, e a un evento straordinariamente importante. La premessa, di cui Martelli potrebbe dolersi, sta in una sua frase: “La coerenza è una virtù che parla di noi ma ha poco a che fare con la realtà” (p. 499). Quindi, essere incoerenti non è soltanto giustificabile; diventa assolutamente indispensabile. Qui, entra in campo, preceduto da critiche durissime (che sono spesso molto condivisibili) al Sessantotto e alle sue manifestazioni, il capo di “Lotta Continua” (e il direttore dell’omonimo giornale) di uno dei movimenti di maggiore successo, allora e oggi: Adriano Sofri. Mi limito a registrare un siparietto svoltosi nel 1985 in occasione del loro primo incontro nelle sale della rivista socialista “Mondoperaio”. “A riunione conclusa, Sofri mi abbordò: ‘Mi avevano detto che ci assomigliamo, ma tu sei più bello’. Scherzo per scherzo, risposi: ‘Tu sei più intelligente’ ” (p. 329). Resisto, ma davvero con molta fatica, dal commentare quanto di questo scambio riveli delle personalità di entrambi. Registro, invece, le molte parole che Martelli spende per sottolineare un’ampia concordanza di vedute con Sofri, del quale non riesco a ricordare espressioni lontanamente avvicinabili al “liberalsocialismo”.
Il secondo nome è Norberto Bobbio, il relatore della mia tesi di laurea all’Università di Torino, ovviamente, non il più noto e il più rilevante dei suoi meriti intellettuali e dei suoi contributi alla cultura politica di un paese refrattario, per di più schiacciato fra il cattolicesimo e il comunismo. Bobbio, uno dei grandi maestri del liberalsocialismo, viene citato tre volte. Nella prima citazione incidentale viene collocato insieme con Federico Mancini (con il quale non aveva praticamente nulla in comune) fra i “maestri tradizionali” (p. 212). La seconda volta, ricorda Martelli, di essere incorso “nella censura, amichevole, ma severa, di Norberto Bobbio: ‘equità e eguaglianza sono sinonimi’ [ho i miei dubbi sulla veridicità dell’attribuzione di questa frase a Bobbio] e mi rimandò a una bibliografia, –piuttosto datata, a dire il vero–… Replicai che tutto ciò che chiamiamo e amiamo con il nome di liberalsocialismo ruota intorno al tentativo di conciliare libertà ed eguaglianza in una sintesi superiore, più comprensiva e più mobile” (p. 333-334, corsivo mio). Avrei sperato che, per quanto “maestro tradizionale” e antico, Bobbio avesse imparato la lezioncina. Invece, qualche tempo dopo, a Bobbio toccò di ricevere un’altra severa e sprezzante critica: “a definire destra e sinistra non basta” –scrive Martelli dall’alto della sua filosofia politica– “il rapporto che, rispettivamente, hanno l’una con la libertà e l’altra con l’eguaglianza, secondo la discutibile distinzione resa celebre da Norberto Bobbio in un libricino di successo” (p. 379, corsivi miei). Peccato che Martelli dimentichi di citare il titolo La democrazia dell’applauso, di un famoso (e “discutibile”?) articolo di Bobbio con il quale su “La Stampa” del maggio 1984 il filosofo torinese stigmatizzava l’acclamazione senza votazione con la quale Craxi fu riconfermato segretario del PSI nel Congresso di Verona. A quell’articolo vale la pena di citare anche l’immediata e sprezzante replica di Craxi: “i filosofi che hanno perso il senno”. Tutto l’episodio è omesso da Martelli. Il quesito, però, è come fare il liberalsocialismo in Italia relegando ai margini il più influente filosofo del liberalsocialismo stesso.
La risposta Martelli l’aveva già data. Questo è l’evento che ho preannunciato: il suo giustamente famoso discorso “sui meriti e sui bisogni” pronunciato alla conferenza programmatica “Governare il cambiamento” che il PSI tenne a Rimini (31 marzo-4 aprile 1982). Martelli ricorda ai lettori che quel discorso fu giudicato “da molti osservatori, dagli stessi comunisti e da un interlocutore ostico come De Mita – come “il momento più alto del nuovo corso socialista” (p. 291). Sottolinea che voleva “scrivere un manifesto del socialismo moderno”, “uscire dal discorso ideologico, dal confronto di dottrine e di esperienze politiche” … attingendo dagli esempi, dal metodo, dai percorsi e dai risultati del secolo socialdemocratico [questa è la caratterizzazione data al XX secolo da Ralf Dahrendorf], a cominciare dalla sua espressione più compiuta, quella svedese” (p. 291). Fu senza nessuna riserva un discorso efficacissimo, persino entusiasmante, che riuscì, almeno con le parole, a coniugare in maniera ispirata il liberalismo, premiare i meriti, con il socialismo, liberare dai bisogni. Proprio il liberalsocialismo che Bobbio aveva provveduto a teorizzare da almeno trent’anni. “Il discorso di Rimini fu interrotto da applausi ripetuti, intensi e da un’ovazione finale lunga cinque minuti, con tutti i delegati in piedi e non pochi con le lacrime agli occhi, come mostrano i video d’epoca. Solo Craxi rimase seduto” (p. 298, corsivo di commento mio). Il resto è storia. Il PSI non seppe, non volle, non cercò di applicare quei due principi. Martelli continuò a fare il delfino di Craxi e Craxi continuò a dedicarsi alle manovre per (ot)tenere il potere, alla fine rifiutandosi di cederlo per tempo a Martelli.
Tralascio qui due elementi che, invece, Martelli sottolinea: il suo intenso e meritorio rapporto con Giovanni Falcone e le sue alquanto logore e banali, a mio parere, spesso esagerate e non inoppugnabili, critiche alla magistratura. Un ex-Ministro della Giustizia dovrebbe saperne di più e avrebbe dovuto agire rapidamente e più a fondo nei confronti dei magistrati corporativi, politicizzati, carrieristi, inefficienti. Tutto questo vale per un bilancio della sua personale traiettoria politica. Quanto all’operato complessivo, “quel che Craxi ha fatto, quel che abbiamo fatto insieme e con tanti altri compagni merita ancora di essere studiato, discusso, compreso” (p. 591). Gli errori Martelli li attribuisce all’insistenza di Craxi su un anticomunismo obsoleto che, in verità, fu la cifra, 0quasi totalmente condivisa da Martelli, del suo agire politico. “Nettamente prevalenti sulle ombre”, le luci furono “la rinascita del PSI e di un riformismo moderno [peccato che di questo non vi sia più traccia con almeno due terzi dei socialisti confluiti in Forza Italia], la contestazione energica, democratica, vincente del comunismo italiano [che, però, ha infiacchito i rimanenti comunisti, ma non ne ha fatto dei ‘liberalsocialisti’], la prova di governo e di orgoglio nazionale, le battaglie per i diritti umani e l’indipendenza dei popoli” (p. 591). Ricordati di vivere è una storia politica di grandi successi personali la cui morale è che, alla fine, in politica, non si vince mai. Questo, forse, spiega perché nelle memorie di Martelli, la sua innegabile arroganza si combina con l’inconfessabile dolore per l’irreparabile incompiutezza della sua parabola politica.
Riforme, un’altra narrazione
“Altri, invece, pensano che nessun salto di qualitá potrá essere effettuato se non si produce una analisi seria e approfondita delle nuove narrazioni, se non si va ad un contraddittorio franco e duro”
Articolo pubblicato sul fascicolo 5/2014 della rivista “il Mulino”(pp. 738-748)
Riforme, un’altra narrazione
Naturalmente, i tempi nuovi richiedono, sostengono molti, nuove narrazioni. Richiedono anche nuovi narratori. Forse li abbiamo giá trovati. Qualcuno ritiene che é sufficiente che la narrazione sia nuova e che i narratori siano giovani affinché si ottenga un salto di qualità. Altri, invece, pensano che nessun salto di qualitá potrá essere effettuato se non si produce una analisi seria e approfondita delle nuove narrazioni, se non si va ad un contraddittorio franco e duro. Qui mi scapperebbe di aggiungere, ma sarebbe un appunto da “vecchia” narrazione, al fine di pervenire ad “una piú elevata sintesi”. Come non detto. Naturalmente, “contraddittorio” significa confronto sulle idee e sulle proposte contenute nelle nuove narrazioni. Non consiste in nessun modo nella derisione personale con la quale si travolgono gli eventuali interlocutori, magari approfittando delle proprie posizioni di potere politico. Ció detto, in questo breve articolo, mi eserciteró soltanto nell’analisi della narrazione istituzionale variamente e succintamente pronunciata dal presidente del Consiglio alla quale hanno finora fatto da eco tutti i suoi collaboratori senza eccezione alcuna.
Naturalmente non è vero che negli ultimi trent’anni di riforme non ne siano state fatte. Anche tralasciando la legge sulla Presidenza del Consiglio nel 1988, nello stesso anno giunse a compimento la sostanziale abolizione del voto segreto voluta da Bettino Craxi. Tre anni dopo, anche contro il famoso invito di Craxi ad andare al mare, il 62,5 per cento degli elettori italiani preferì andare a votare nel referendum sulla preferenza unica. Nel 1990 era già stata approvata una legge innovativa, per quanto priva di interventi sul sistema elettorale, sul riordino delle autonomie locali. Nel 1993, superata l’incerta giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia elettorale, gli italiani furono in grado di dare una spallata consapevole e decisiva alla legge elettorale proporzionale e, nella stessa tornata, abolirono il finanziamento statale dei partiti e tre ministeri: Agricoltura, Partecipazione Statali, Turismo e Spettacolo. Per evitare un referendum che avrebbe cambiato in senso fortemente maggioritario la legge per l’elezione dei comuni e delle province, nello stesso anno il parlamento approvò la tuttora vigente legge in materia che ha dato ottima prova di sé. Nel 2001 il centro-sinistra formulò cambiamenti significativi giungendo fino, così si vantarono i legislatori, “ai limiti del federalismo” (quello allora alla moda), ai rapporti Stato/enti locali, Titolo V, che poi, per consolarsi delle elezioni perdute, sottopose a referendum, vincendolo, nell’ottobre 2001. Nel 2005, il centro-destra fece approvare dai suoi parlamentari sia la legge elettorale nota come Porcellum sia un’ambiziosa riforma della Costituzione: 56 articoli su 138. Anche se smantellato dalla Corte costituzionale, il Porcellum è ancora con noi, mentre il centro-sinistra fece bocciare dall’elettorato in un referendum tenutosi nel giugno 2006 l’intera, pasticciata, riforma costituzionale del centro-destra. Nessun rimprovero, nessun rimpianto.
Dunque, seppure controverse e scoordinate, molte riforme sono state fatte e approvate dal 1988 ad oggi. É stupefacente come i mass media non siano stati in grado oppure non abbiano voluto controbattere con dati durissimi le affermazioni propagandistiche del presidente del Consiglio, del suo ministro per le Riforme Istituzionali, dei suoi costituzionalisti (ma anche di qualche improvvisato politologo) di riferimento che si presentano come i riformatori venuti dal nulla.
Oltre alle riforme costituzionali e istituzionali, da circa quindici anni a questa parte, seppur faticosamente, nel centro-sinistra, nella pratica ante litteram prima, poi, quello che più conta, nello Statuto del Partito democratico, è stata introdotta una riforma molto importante, fra l’altro, decisiva per la stessa carriera politica di Matteo Renzi: le elezioni primarie. Non è il caso di andare alla ricerca dei diritti di primogenitura (ma poiché carta canta, anche quella della rivista “il Mulino”, l’esercizio è facilmente fattibile. É sufficiente sfogliare l’indice degli articoli pubblicati negli anni novanta). Certamente, fra i fautori delle primarie non troveremo i costituzionalisti dell’attuale presidente del Consiglio. Non troveremo i professoroni. Non troveremo neppure i “gufi”. Troveremo, invece, coloro, pochissimi, che hanno sempre creduto e scritto che nessuna riforma, neanche la più tranchante, delle istituzioni, è in grado di produrre, da sola, un miglior funzionamento del sistema politico se non riesce a trasformare i partiti politici che, per quanto indeboliti, ma meno di quel che si crede, rimangono centrali. Chi sottovaluta l’importanza delle primarie e dei rapporti “istituzioni-partiti” è destinato a fare riforme brutte che avranno cattive conseguenze.
Naturalmente, non è vero che la riforma del Senato porrebbe, se andasse in porto, fine al bicameralismo perfetto. Infatti, il bicameralismo italiano, se le parole hanno un senso e in politica sarebbe sempre opportuno che lo avessero, non è mai stato perfetto (aggettivo che si riferisce al funzionamento). É sempre stato indifferenziato e paritario, aggettivi che si riferiscono alle strutture e ai poteri. Non è neppure vero che la lentezza del processo legislativo in Italia sia attribuibile all’esistenza di due Camere. Infatti, come ripetutamente evidenziano i presidenti di Camera e Senato, sbagliando ripetutamente, poiché considerano il numero delle leggi approvate il segnale che il parlamento fa le leggi, mentre le leggi le fa il governo spesso saltando il parlamento con la decretazione e umiliandolo con i voti di fiducia, entrambe le Camere sono sempre state molto operose. Anno dopo anno, un po’ meno di recente, fanno (meglio approvano) molte leggi, all’incirca quattro volte di più di Westminster, la madre di tutti i Parlamenti, abbondantemente due volte di più di Bundestag e Bundesrat tedeschi e dell’Assemblea Nazionale e del Senato della Quinta Repubblica francese, tutti parlamenti bicamerali “imperfetti”, ovvero differenziati. Pertanto, né la quantità né la velocità della produzione legislativa costituiscono criteri convincenti a giustificazione della riforma del Senato per porre fine ad un bicameralismo che perfetto non è mai stato, ma che non ha in quasi nessun modo costituito l’intralcio principale o predominante all’azione del governo. Gli stessi commentatori che hanno, non proprio sobriamente, applaudito la riduzione del Senato a Camera delle regioni, hanno sempre pappagallescamente argomentato che il problema del modello di governo parlamentare all’italiana consiste nei pochi poteri a disposizione del presidente del Consiglio. Pare alquanto difficile sostenere che ridimensionando i poteri del Senato, fin quasi all’azzeramento sulle leggi del governo e sulla possibilità di chiamarlo a rendere conto del fatto, del non fatto e del malfatto, automaticamente il presidente del Consiglio italiano ne uscirà con potere istituzionale e politico rafforzato.
Naturalmente, nelle democrazie parlamentari, “forti” risultano essere i capi di governo che sono espressione di un partito grande, coeso, rappresentativo di più ceti sociali, che hanno esperienze di governo e che guidano una coalizione programmatica. Curiosamente, negli stessi giorni dell’epica battaglia di Palazzo Madama, battuto alla Camera dei deputati, il governo Renzi annunciava che avrebbe recuperato al Senato. No comment. Al momento, è soltanto possibile affermare che la riforma del Senato squilibra la democrazia parlamentare italiana. Non è una deriva autoritaria. Più italianamente, è la deriva di chi procede perseguendo tornaconti di immagine e di pubblicità di breve periodo poiché la sua incultura istituzionale non gli consente neppure di intravedere il lungo periodo.
Naturalmente, “non esiste proprio” che la disciplina di partito possa essere imposta sulle riforme costituzionali. Il solo pensiero è aberrante. Sentirlo dire e ripetere dai collaboratori di Renzi senza che nessuno dei commentatori e dai giornalisti rilevasse l’aberrazione è più che sconfortante. Primo, la disciplina di partito può essere richiesta ai parlamentari esclusivamente sulle materie inserite nel programma che il loro partito ha sottoposto agli elettori, sul quale ha ottenuto voti grazie ai quali quei parlamentari sono stati eletti, soprattutto quando esistono le liste bloccate. Il discorso potrebbe essere leggermente diverso se i parlamentari fossero stati eletti in collegi uninominali. In questo caso, alcuni approfondimenti e altre precisazioni sarebbero necessarie. Toccherebbe a quei parlamentari formularli anche come informazione da mettere a disposizione degli elettori, sicuramente interessati ed esigenti, dei loro collegi. La disciplina di partito può anche essere richiesta sul programma di governo concordato con gli indispensabili alleati, in particolare se i gruppi parlamentari sono stati coinvolti, come dovrebbero, nella definizione del programma di governo. Su altre, imprevedibili materie, ad esempio, le emergenze, ovvero problemi che sorgono improvvisamente e che necessitano una soluzione rapida, quella disciplina di partito non può essere richiesta, ma deve essere conquistata con consultazioni e anche con votazioni chiare e trasparenti.
Sulle modifiche costituzionali e sulle votazioni che riguardano persone, i parlamentari hanno la facoltà, se lo desiderano, di richiamarsi all’assenza di vincolo di mandato (art. 67). Tuttavia, il loro voto difforme da quello dei parlamentari del loro partito non può essere giustificato soltanto con il richiamo alla “coscienza”. Troppo facile e, qualche volta, persino ipocrita. Soprattutto un voto di coscienza non argomentato non comunica le indispensabili informazioni del parlamentare dissenziente agli altri parlamentari, al suo partito, agli elettori, all’opinione pubblica. Il voto di coscienza deve essere argomentato con riferimento alla “scienza”. In base alle conoscenze loro disponibili, ad esempio, relative al possesso da parte di un leader autoritario di armi di distruzione di massa, tutti i parlamentari sono sicuramente legittimati a negare il loro voto al governo di cui fa parte il loro partito. Quanto alle votazioni che riguardano persone -dall’autorizzazione all’arresto all’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali -, nessun parlamentare deve mai essere messo né trovarsi nella condizione di “scambiare” apertamente il suo voto con l’arrestando o con l’eligendo e neppure di temere che il suo voto possa essere ritorto contro di lui, i candidati ad alcune cariche di rilievo essendo notoriamente uomini già abbastanza potenti e, spesso, provatamente vendicativi.
Naturalmente, non è vero che non conosciamo la sera delle elezioni chi ha vinto (peraltro, dovrebbe interessarci sapere anche chi ha perso quanto e perché). Lo abbiamo sempre saputo giá con la legge elettorale proporzionale utilizzata nella prima lunga fase della Repubblica italiana. Abbiamo continuato a saperlo con il Mattarellum (1994, 1996, 2001). Non abbiamo avuto dubbi, tranne il maldestro tentativo berlusconiano di riconteggio dei voti nel 2006, con il Porcellum. Con qualsiasi legge elettorale si sa chi ha vinto appena finito di contare i voti. Però, in nessuna democrazia parlamentare è sufficiente sapere chi ha vinto, numeri (di voti e di seggi) alla mano. In tutti i sistemi multipartitici delle democrazie parlamentari è giusto attendere che siano i dirigenti di partito a decidere, magari con riferimento a quanto detto durante la campagna elettorale e agli eventuali precedenti, chi farà parte della coalizione di governo e a chi andranno le cariche ministeriali, compresa anche la più elevata. Per fare un solo esempio, non c’è stata neppure una elezione in Germania (la Gran Bretagna é un caso fin troppo facile) nella quale non si sia saputo la sera della chiusura delle urne chi aveva vinto. Senza nessuno scandalo, per due volte la vincitrice, Angela Merkel, ha saggiamente costruito governi di Grande Coalizione (2005-2009; 2013–). Supponendo che esista un sistema elettorale dal quale esca sempre un velocissimo vincitore, questo non proprio miracoloso fatto cambierebbe la qualità della politica, dei partiti, del governo? Condurrebbe alla tanto agognata, ma mai precisamente specificata, governabilità?
Naturalmente, tutti vogliono la governabilità. Pochi sanno definirla. Pochi conoscono le condizioni alle quali acquisirla, mantenerla, esercitarla. Dal Presidente del Consiglio in carica, Matteo Renzi, non abbiamo finora avuto indicazioni precise, ma, forse, sì. Sarà la legge elettorale chiamata Italicum che, grazie al suo premio di maggioranza, assicurerà la governabilità. Quindi, la governabilità è la conseguenza oppure il prodotto di una maggioranza assoluta creata artificialmente dalla legge elettorale che, nelle parole del presidente della Repubblica, riportate senza rilievo da alcuni quotidiani, ma mai discusse, contiene clausole che debbono sicuramente essere sottoposte a “verifiche di costituzionalità”. Facendo un opportuno passo indietro, poiché né la voglia di riforme né quella di governabilità sono nate poche mesi fa, tra la metà degli anni settanta e la fine degli anni ottanta vi fu un intenso, importante, persino appassionato dibattito politologico e sociologico sulla governabilità e, soprattutto, sulla sua crisi. Il cuore del problema era: “come debbono comportarsi i governi democratici e le loro istituzioni per fare fronte alle domande, molte e nuove, espresse dalle loro società mobilitate, esigenti, post-materialiste?” Alla crisi di “sovraccarico” si prospettarono due risposte: scoraggiare le domande. Esistono molte modalità di scoraggiamento, a cominciare dall’indifferenza a continuare con il palleggiamento di responsabilitá fra le autoritá e le istituzioni a finire con lo scarico di responsabilitá, ad esempio, sull’Unione europea e sulla Troika. Oppure accrescere la capacità delle istituzioni. Esistono soluzioni anche per questo piú delicato compito. A quei tempi, qualcuno rilevò anche che, nei sistemi politici non soltanto europei nei quali un partito di sinistra al governo riusciva a convincere sindacati e organizzazioni imprenditoriali a entrare in rapporti di collaborazione e a concordare le politiche, la crisi di governabilità era di limitato impatto e trovava (trovó) soluzioni praticabili.
Accordi di non breve periodo fra governi, partiti, associazioni sindacali e organizzazioni imprenditoriali, che tecnicamente si chiamano “neo-corporativismo”, vanno contro tutte le indicazioni e i suggerimenti che certi “autorevoli” editorialisti danno da anni a tutti i governanti italiani di turno (un po’ meno a Berlusconi) intesi a porre fine a qualsiasi forma di concertazione e a “spezzare le reni” ai gruppi di interesse dei più vari tipi, senza nessuna distinzione. In seguito, si sostenne che la governabilità dipende dalla stabilità degli esecutivi e che, di conseguenza, le leggi elettorali che insediano maggioranze assolute sono la (semplicistica, illusoria, è sufficiente leggere la storia inglese degli anni sessanta e settanta) soluzione: stabilità governativa eguale governabilità. Qualcuno aggiunse che la stabilità governativa è soltanto una premessa per l’esercizio dell’efficacia decisionale, magari in maniera molto veloce. In attesa di qualche criterio per valutare l’impatto e la qualità delle decisioni, anche in materia costituzionale, ci si può fermare, piuttosto perplessi, qui.
Naturalmente, i referendum costituzionali non li chiedono i governi. Eppure questo è l’annuncio ripetuto, prima e dopo la riformetta del Senato, dal ministro Maria Elena Boschi e dal presidente del Consiglio. Entrambi, davvero generosamente, hanno aggiunto la paradossale concessione che il governo farà deliberatamente mancare nella seconda lettura la maggioranza dei due terzi (maggioranza che, comunque, al Senato, se la sogna) per consentire ovvero, addirittura, per chiedere lui stesso un referendum popolare sulle riforme costituzionali. I referendum chiesti dai governi hanno un nome chiarissimo. Sono plebisciti. Restano tali anche quando i referendum costituzionali li chiese de Gaulle che, da leader carismatico quale sicuramente fu, voleva proprio un plebiscito sulla sua persona. Quando gli fu negato, guarda caso proprio sulla riforma del Senato nel 1969, sdegnosamente, ma in maniera impeccabilmente responsabile, se ne andó a Colombey-les deux églises a completare quell’eccezionale documento letterario che sono le sue memorie. Secondo l’art. 138, i referendum costituzionali possono essere chiesti da un quinto dei parlamentari di una o dell’altra Camera oppure da cinque consigli regionali o da 500 mila elettori. Naturalmente, non Renzi, capo del governo, ma Renzi segretario del Partito democratico ha la facoltá di invitare (obbligare, magari, no) i suoi parlamentari, le maggioranze consiliari in cinque regioni, gli iscritti e i simpatizzanti del Partito democratico a chiedere il referendum. Tuttavia, la striscia plebiscitaria si vedrebbe comunque. Purtroppo, il centro-sinistra, popolato da “quelli che… la Costituzione più bella del mondo”, fecero, come ho rilevato sopra, questa superflua e brutta torsione referendaria nel 2001, creando un precedente. Non è, però, il caso di insistere nella proposta di un’operazione che spetta, se lo vorranno, alle minoranze, e che sarebbe costosa in termini di denaro, di tempo e di energie. Anzi, il governo deve essere fortemente scoraggiato a esercitarsi in inutili prove di forza. Impieghi piuttosto le sue e le nostre risorse in modi piú produttivi.
Naturalmente, chi conosce le Costituzioni sa che sono state costruite in maniera sistemica, vale a dire che, soprattutto le migliori, hanno tenuto conto dei rapporti e delle interazioni che si stabiliscono fra le istituzioni e che conducono a una varietà di esiti. In un certo senso, i limiti al potere di una istituzione sono posti dal potere di un’altra istituzione. Tecnicamente, spesso se ne parla come di checks and balances, freni e contrappesi. Se ad un’istituzione si danno poteri significativi strappandoli ad un’altra istituzione allora bisognerà trovare contrappesi altrove. Talvolta ci si trova anche in situazioni di inter-institutional accountability, vale a dire che ciascuna istituzione ha responsabilitá che deve osservare nei confronti delle altre, e viceversa. La prendo alla larga per farla facile. Se il rapporto “governo-parlamento” viene squilibrato togliendo molto, quasi tutto il potere che il Senato ha nei confronti del governo e abolendo la responsabilizzazione del governo nei confronti del Senato, allora nella rimanente Camera dei deputati sarà opportuno che l’opposizione parlamentare acquisisca maggiori poteri di ispezione e di controllo sul governo. Tuttavia, non si tratta soltanto di questo come rivela una valutazione congiunta, seria e comprensiva del progetto di riforma elettorale. Tralascio le giravolte compiute dal premier a partire dalla presentazione in gennaio di addirittura tre progetti diversi di legge elettorale per approdare ad un testo che non rifletteva nessuno dei tre. Tralascio anche il frequente e ripetuto riferimento alla formula sindaco d’Italia, ma almeno un commento deve essere fatto. In qualsiasi salsa, “sindaco d’Italia” significa mutamento della forma di governo dell’Italia: da democrazia parlamentare a democrazia presidenziale, per di piú priva dei freni e contrappesi dei presidenzialismi migliori e irrigidita nei rapporti fra il sindaco/capo di governo e il Consiglio-Camera dei deputati. A prescindere che non esiste nulla di simile altrove, non c’é nessuna garanzia che quanto funziona a livello locale riesca automaticamente funzionare a livello nazionale.
Per quel che riguarda l’Italicum nella sua versione approvata alla Camera dei deputati, mi limito, per il momento, alle osservazioni che, proprio perché sono le piú semplici, dovrebbero fare ripensare tutta la legge. Primo, se la Corte costituzionale “condanna” le liste bloccate perché impediscono all’elettore di esercitare il suo diritto di scelta fra i candidati al parlamento perché mai liste corte, ma ugualmente bloccate, sarebbero accettabili? Criticamente, rilevo che la Corte si fa davvero delle illusioni se ritiene accettabili liste “nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto”. Attendiamo, comunque, di sapere quanto esiguo debba essere quel numero. Non dobbiamo attendere per sapere che sicuramente ci saranno in quelle liste “corte” numerosi imboscati.
Nel giugno 1991, gli elettori approvarono contro l’esplicita opposizione di quasi tutti i dirigenti di partito il quesito sulla preferenza unica. Naturalmente, é possibile sostenere che quegli elettori volevano molto di piú. Il minimo comune denominatore era allora e rimane oggi una sola (non nessuna) preferenza. Un solo voto di preferenza non puó essere scambiato (e moltiplicato) da cordate di candidati che si strutturano in correnti o che trattano con gruppi esterni. Una sola preferenza significa che gli elettori hanno un po’ di potere che, per quanto poco, é meglio di niente. Chi risponde a queste obiezioni che personalmente preferisce i collegi uninominali al voto di preferenza puó, naturalmente, attivarsi per cambiare tutto l’impianto della legge. Altrimenti, voti per la “concessione” di una preferenza che toglie dalle mani dei dirigenti la nomina dei parlamentari. Con quella preferenza l’Italia entrerá nel club delle democrazie parlamentari europee, ventitré delle quali (su ventotto) hanno qualche forma di voto di preferenza. Seconda osservazione, se la Corte dice che il premio di maggioranza va attribuito stabilendo in anticipo una soglia minima, quella soglia va determinata percentualmente e la sua entitá argomentata in maniera convincente affinché, torno al cuore dei sistemi elettorali, conferisca effettivo potere al voto degli elettori. Esiste un solo modo per accrescere il potere degli elettori: stabilire che, a prescindere dalle percentuali ottenute, si procederá comunque al ballottaggio fra i due partiti e le due coalizioni piú votate consentendo, come giá si fa nel caso di ballottaggio fra candidati sindaco, l’apparentamento fra liste. Rimarrebbe, lo so benissimo, il rischio che il premio (se fisso) attribuito a un partito non sia sufficiente affinché quel partito o coalizione per raggiungere la maggioranza assoluta alla Camera. Tant pis o tanto meglio se questo è deciso dall’elettorato. Fra le clausole, si potrebbe anche aggiungere che, in caso di suo dissolvimento, la coalizione premiata perderá i seggi aggiuntivi che saranno redistribuiti proporzionalmente.
Mi rendo conto che sto entrando in dettagli tecnici, quelli dove si annida, soddisfatto, compiaciuto e competente il diavolo e, temporaneamente, mi fermo. Il punto vero, comparso improvvisamente alle non sistemiche menti dei riformatori elettorali, é che il premio in seggi avrá effetti anche sull’elezione ad opera del parlamento di molte cariche, a partire dai giudici costituzionali (con il rischio di dare vita ad una Corte palesemente di parte), ma soprattutto sull’elezione del presidente della Repubblica. Non mi arrampicheró sugli specchi dove i riformatori stanno cercando di trovare altri Grandi Elettori che evitino alla “premiata” maggioranza elettorale di diventare allegramente maggioranza presidenziale (spero, con la salvaguardia del voto segreto…). Credo che la soluzione possibile sia quella ventilata da coloro che pongono il quorum dei due terzi per le prime tre votazioni, andate a vuoto le quali si passerebbe ad un ballottaggio fra i due candidati piú votati affidato a tutto l’elettorato italiano. Poiché credo nella capacitá degli uomini e delle donne di apprendere e di tenere conto dei requisiti della carica che occupano, ci sarebbero molte buone probabilitá che l’eletto/a si comporterebbe da rappresentante “dell’unitá nazionale”. A prescindere dalla soluzione,quello che appare chiaramente é come sia imperativo tenere conto degli effetti sistemici di qualsiasi riforma, mentre nella loro sregolatezza i riformatori non hanno inizialmente avuto neppure la minima consapevolezza del problema complessivo.
Al supermercato delle istituzioni, delle regole, dei meccanismi é disponibile un po’ di tutto, ma chi vuole riformare una Costituzione, deve sapere che non é dal supermercato che otterrá quello di cui ha bisogno, ma dalla elaborazione di un progetto sistemico. Oserei dire dei progetti sistemici formulati da architetti o ingegneri costituzionali e non solo. Opportunamente consultato, qualche politologo (purtroppo, non tutti) consiglierebbe di guardare in chiave comparata appunto ai sistemi politici, che non sono soltanto Costituzioni, che hanno dimostrato di funzionare in maniera (piú che) soddisfacente. Guardare al mondo animale: ai porcelli, ai canguri, ai gufi, pur tenendo conto delle differenze, non conduce all’altezza della sfida.
Alla fine di questa, pur sintetica, panoramica in quanto ognuno dei punti che ho sollevato ha dietro di sé un’ampia letteratura scientifica nonché numerosi casi di pratiche concrete, mi permetto di concludere con due considerazioni generali. La prima é che la cultura costituzionale del paese, in special modo dei politici, degli operatori dei media e dell’opinione pubblica appare tuttora tristemente non aggiornata. Sconta anche un incredibilmente elevato livello di servilismo e di conformismo che la rendo non adeguata a contrastare né le cannonate né i tweet della propaganda del governo e dei suoi quartieri. Seconda considerazione, senza procedere a opportune analisi comparate, che sono lo strumento per controllare ipotesi, generalizzazioni e aspettative, qualsiasi riforma rischia di non conseguire gli esiti promessi e sperati. Rimane molto spazio per miglioramenti, ma, naturalmente, anche per peggioramenti.
“il Mulino”, 5/2014, pp. 738-748
Il decisionismo craxiano
Recensione del libro Decisione e processo politico. La lezione del governo Craxi (1983-1987) – Marsilio Editori.
Il volume raccoglie gli atti del convegno che la Fondazione Socialismo, l’anno scorso, aveva dedicato al 30° anniversario della nomina del leader socialista alla guida del governo, con gli interventi di Massimo Cacciari, Luciano Pellicani, Giuliano Amato, Giuseppe De Rita, Gianni De Michelis, Antonio Badini, Giuseppe Mammarella, oltre che di Acquaviva e Covatta.
Il volume contiene inoltre un’appendice documentaria, curata da Luigi Scoppola Iacopini ed Alessandro Marucci, che ricostruisce il dibattito sulla leadership e sulla democrazia competitiva che ha accompagnato la storia dell’Italia repubblicana dal fallimento della “legge truffa” ai primi anni ’90.
Da Mondoperaio 9/2014 (pp 91/93)
Il decisionismo craxiano
Gianfranco Pasquino
L’ultima cosa che farò consiste nell’andare alla ricerca affannata e affannosa del decisionismo dei contemporanei. Mi limiterò soltanto, ma mi pare moltissimo, a cogliere la struttura e gli aspetti qualificanti (successi e fallimenti) del decisionismo di Bettino Craxi, mettendoli nel contesto dei quindici ruggenti anni in cui il segretario socialista ebbe il potere di esplicarlo. Da subito, però prendo atto della ripartizione temporale in tre fasi opportunamente proposta e utilizzata da Luigi Scoppola Iacopini. Prima fase: dal 1976 alla conquista di Palazzo Chigi nel 1983, “di gran lunga la più felice e incisiva”; seconda fase: gli anni della guida del governo (1983-1987): “terminato lo slancio iniziale, cominciano ad affiorare alcuni preoccupanti segnali di involuzione”; terza fase che “abbraccia l’ultima stagione culminata poi nel crollo” (pp. 97-98).
La panoramica di opinioni e di interpretazioni del decisionismo craxiano offerta in questo prezioso libro, arricchito da una importante documentazione con utilissimi testi di approfondimento, convergerebbe nell’individuarne la manifestazione più significativa e incisiva nel periodo di governo. A questo decisionismo si attaglia la definizione che Gennaro Acquaviva offre nella sua nota introduttiva, affermando che questa fu una dote particolarmente di Craxi: “Saper prendere decisioni politiche, anche serie e rischiose, con freddezza e al momento giusto, costruendosi contemporaneamente condizioni e forza sufficienti a fargli convogliare sulla decisione un consenso ampio e ben solido, in grado di portarlo alla realizzazione della decisione”(pp.9-10).
Nella sua prefazione Piero Craveri amplia il discorso – come anch’io credo bisognerebbe fare – affermando reciso che “il decisionismo di un leader e di una classe dirigente politica si misura su quello che questa può decidere” (p. 18). Craveri lascia intendere che allora si potesse decidere molto e oggi poco, trovandomi in disaccordo. Mantengo alto il mio disaccordo anche con i molti che continuano a ritenere e sostenere che il famigerato complesso del tiranno abbia reso costituzionalmente debole il capo del governo italiano. La mia posizione è che il capo del governo può essere forte anche in Italia se ha autorevolezza personale, competenza, un progetto, e se fonda il suo potere sul sostegno convinto, ma non servile, di un partito maggioritario. Se qualcuno pensa che io intenda riferirmi a qualche situazione contemporanea, sono sue congetture: ma rilegga il mio sapiente uso delle parole di cui sopra.
Per completare le opinioni sul decisionismo, è opportuno citare Giuseppe De Rita. Il vecchio sociologo specifica che “lo statista è decisionista giorno per giorno e nelle istituzioni. Craxi, invece, era un decisionista politico una tantum, e questo, alla fine, lo ha lasciato nudo: il Parlamento non lo ascoltava, il Csm neanche lo considerava, la Magistratura lo inseguiva. Era un uomo senza istituzioni, perché non era stato capace di trasformarsi da politico a statista, da politico a uomo delle istituzioni” (p. 37). De Rita offre anche la sua teoria sul decisionismo: “Per decidere, bisogna concentrare il potere, bisogna verticalizzare il potere. Per farlo, bisogna personalizzarlo. Per personalizzarlo, bisogna mediatizzarlo, cioè renderlo pubblico, e per fare tutto questo ci vogliono un sacco di soldi” (p. 36, tutti corsivi miei). Postilla: per mediatizzare è, con tutta probabilità, sufficiente “fare notizia” con proposte, comportamenti, soluzioni. Quanto alla concentrazione, alla verticalizzazione e alla personalizzazione, bisogna avere o volere costruire un partito e istituzioni apposite, come, ad esempio, il semipresidenzialismo della Quinta Repubblica: Vive la France!
Naturalmente esiste anche una concezione del modo di governare che è del tutto opposta al decisionismo: è la mediazione. Portata ai suoi livelli più raffinati da Aldo Moro, ma condivisa da tutti i democristiani ad eccezione di Amintore Fanfani, la mediazione respinge la concentrazione del potere, non lo verticalizza, si oppone alla personalizzazione preferendo le trattative con le associazioni. Alla fine del processo di mediazione (spesso definita “incessante”, spesso così voluta dai “mediatori”) non ci sarà una vera e propria decisione, ma la semplice accettazione di quanto è emerso nel corso della discussione, dei negoziati, degli scambi di ogni tipo. Persino Ciriaco De Mita – non a caso osteggiato, ricambiatissimo, da Craxi – nella sua esperienza di governo fu sostanzialmente moroteo, cioè interessato al “ragionamento”, una formula appena più intellettuale della mediazione.
Ovviamente ai morotei (in politica, nelle redazioni dei quotidiani e nelle cattedre universitarie) il decisionismo craxiano apparve da subito e per sempre scandaloso. Per quel che ne so, Craxi fu sempre pienamente consapevole delle costrizioni che il sistema politico italiano poneva a quella che per lui era una assoluta necessità: prendere decisioni molto incisive proprio per cambiare il sistema, per rompere il bipolarismo Dc/Pci, per dare un ruolo più importante all’Italia in Europa. La sua riluttanza per tre mesi a nominare il capo di gabinetto alla Presidenza del Consiglio fu assolutamente indicativa del tentativo di sfuggire alle reti di rapporti che gli alti burocrati romani hanno da tempo intessuto e alimentato e grazie ai quali, muovendosi da gabinetto a gabinetto e da ministro a ministro, ingabbiano l’azione e contengono la (eventuale) vivacità dei governi. Neanche le numerose crisi dei governi democristiani incidevano sul potere dei burocrati, sempre disponibili, sempre pronti a costruire chiavi in mano le segreterie di qualsiasi ministro arrivasse (meglio se non già “romano”). Naturalmente, chiunque avesse potuto contare su Giuliano Amato come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, avrebbe potuto fare a meno di un apparato costitutivamente frenante. Nel riflettere sulla sua esperienza (forse non soltanto di sottosegretario, ma di ministro e di Presidente del Consiglio), Amato sottolinea che in Italia il potere non è né del Parlamento né del governo: “E’ un potere di quei pochi grands commis d’apparato che dominano le tecniche attraverso le quali queste regole vengono messe insieme”. Rilevo che il politologo che è in me da diversi decenni pensa che l’alternanza fra partiti e coalizioni e la facoltà di creare gabinetti politici dovrebbero servire a fare “circolare” e, quando necessario, emarginare i grands commis.
Peraltro, in pratica, la traiettoria decisionista craxiana non fu eccessivamente intralciata dalla burocrazia. Da un lato, si esplicò con vigore; dall’altro, cadde prigioniera delle contraddizioni e degli errori dello stesso Craxi. Nei saggi di questo ben costruito e utile volume, colgo tre esempi importanti di decisionismo che ebbe successo: il decreto di San Valentino, Sigonella, l’Atto Unico. In tutt’e tre i casi il decisionismo di Craxi rompe lentezze, titubanze, incrostazioni di potere, interessi costituiti. Credo che dei tre il più importante sia stato il decreto di San Valentino, per diverse ragioni che spiego. La prima ragione è che questa fu la vera sfida a un doppio tabù: concertare sempre con i sindacati, accordarsi previamente con il Pci. Purtroppo, i successivi governanti non hanno imparato la lezione cosicché l’Italia ha continuato a soffocare fra accordi e concertazioni. La seconda ragione è che Craxi, insieme in modo speciale a Pierre Carniti, costruì davvero quella decisione.
Dunque non si trattò di un decisionismo brutale e senza fondamento, ma di una decisione meditata. Infine, seppure dopo qualche tentennamento, Craxi accettò anche la sfida referendaria del 1985. Non ho dubbi (e i sondaggi di quei tempi mi confortano) sul fatto che la vittoria nel referendum arrise a Craxi quando divenne chiara a tutti la sua sfida con piena assunzione di responsabilità: “Un minuto dopo l’eventuale sconfitta, il Presidente del Consiglio darà le dimissioni”. Un milione e più di elettori valutò che la stabilità del governo e del capo di quel governo fosse molto più importante di due punti di scala mobile. Craxi non giocò d’azzardo, ma si espresse come uno statista che mette in gioco la sua carica per tutelare gli interessi del paese. Qui, però, sta il punto critico.
In un’occasione non dissimile, il referendum sulla preferenza unica del giugno 1991 (sì, lo so che può apparire di importanza nettamente inferiore alla scala mobile, ma Craxi aveva scommesso molto anche sulla Grande Riforma, alzando quindi la posta), il suo comportamento contraddisse appieno la mission di uno statista. Craxi valutò esclusivamente l’eventuale impatto dell’esito del referendum sul Psi. Sbagliando, anzitutto, poiché la più danneggiata sarebbe stata, e fu, la Democrazia cristiana, per la quale le preferenze multiple erano simili a reti a strascico che raccoglievano e trascinavano elettori del più vario tipo. Sbagliando in secondo luogo perché quel referendum apriva la strada proprio ad altre più incisive riforme istituzionali. Sbagliando, infine, perché con il suo invito ad andare al mare appariva come il perno della conservazione di un sistema che da più di un decennio lui stesso sosteneva (sempre più vagamente) di volere cambiare.
Questa torsione straordinariamente conservatrice non fu contrastata da nessuno nel suo partito, un’organizzazione che era oramai una palla al piede del segretario, che l’aveva lasciata in mano a ras locali che facevano il bello e il cattivo tempo nei comuni, nelle provincie, nelle regioni, dimostrando una disinvoltura coalizionale senza precedenti (ma con gravi conseguenze sull’immagine del partito). Nessuna sorpresa che la popolarità e il grado di apprezzamento di Craxi siano fino all’inizio degli anni Novanta rimasti di gran lunga più elevati di quelli del Psi. Sia Covatta sia Spini (citato da Scoppola Iacopini) hanno parole dure nei confronti dell’organizzazione. Covatta ritiene che il progetto di tagliare le unghie ai “signori delle tessere” e di ridimensionare il ruolo del partito degli assessori non fu neppure iniziato perché, se ho capito bene, Craxi ritenne “americanate” le proposte di riforma pubblicate, fra l’altro, anche sulle pagine di Mondoperaio (dev’esserci anche qualche mio articolo in materia). Spini sottolinea che la concezione del partito adottata o intrattenuta da Craxi non fu “né fisiologica né feconda perché divideva il partito in tanti potentati, fino appunto, a perderne il controllo” (p. 109). Insomma, il decisionista aveva deciso di librarsi alto lasciando le mani troppo libere a un ceto di opportunisti.
La spiegazione mi pare semplicistica. Si vorrebbe saperne di più. La conseguenza, invece, è chiarissima. Quel partito non era in grado di capire che cosa succedeva nell’elettorato. Quei dirigenti erano troppo preoccupati dalle loro carriere e prospettive di carriera. Non avevano nessuna voglia di interloquire con Craxi (certo, poco disposto a tollerare il dissenso aperto). Con il referendum del 1991 venne la rivelazione che il leader non era più in grado di cogliere e interpretare l’umore dell’elettorato. L’inatteso – ma in buona misura prevedibile – consenso referendario travolse Craxi e con lui il Psi senza che quell’organizzazione feudalizzata riuscisse a opporre resistenza alcuna. Il resto, nel migliore dei casi (ma quale?), è tardiva recriminazione. Per qualcuno dei decisionisti contemporanei potrebbe anche essere una lezione. Un’organizzazione di donne e uomini disposti a fare politica sul territorio serve anche a raccogliere informazioni e a diffondere comunicazioni più e meglio di qualsiasi scarica di tweet.
Voto segreto, voto palese, voto opportunista.
L’opportunismo e la nemesi. Il voto palese fu fortemente voluto e conflittualmente introdotto nella seconda metà degli anni ‘80 dal segretario socialista Bettino Craxi stanco dei frequenti agguati dei franchi tiratori democristiani: una razza combattiva, nelle trame e nel segreto. La sua introduzione fu contrastata dai comunisti e dal capogruppo della Sinistra Indipendente alla Camera Stefano Rodotà, poi Garante della Privacy, e da alcuni suoi colleghi, in primis, Raniero La Valle. Per la mia posizione di allora, v. un paio di articoli su “la Repubblica”, 1988. I comunisti sapevano che le loro poche vittorie parlamentari dipendevano proprio dai franchi tiratori DC. Rodotà e La Valle non stavano dalla parte della “nobile” difesa della Costituzione, ma del meno nobile e spesso sguaiato anti-craxismo. Adesso, troppi ex-comunisti e quei due ex-Sinistra Indipendente rivelano che la loro difesa del voto segreto era soltanto un ennesimo episodio di opportunismo istituzionale. Secondo loro, unitamente ai cittadini delle Cinque Stelle, contro Berlusconi si può, anzi, sarebbe moralmente giusto votare palese. Per fortuna che D’Alema ha detto chiaro e tondo che le regole non si cambiano in corsa. Non bisogna scomodare fuori luogo la Costituzione, che è limpida. “Senza vincolo di mandato” significa che neppure il gruppo parlamentare e neppure il partito possono imporre come votare ai loro parlamentari. Obbligati a spiegare perché votano in maniera difforme e a trarne le conseguenze saranno i parlamentari dissenzienti. Bisogna, invece, chiedersi, quando si vota per o su persone, se non è il caso di impedire che chi vota palesemente contro un potente possa essere colpito da vendette e che qualcuno possa votare palesemente (magari fotografando la sua scheda)a favore di un potente per ottenerne vantaggi a non tanto futura memoria? La risposta è un sonoro, rotondo e squillante: voto segreto. La nemesi è in agguato. Coloro che difendevano opportunisticamente il voto segreto, rischiano di essere disintegrati dal voto palese che, altrettanto opportunisticamente e surrettiziamente, vogliono introdurre ad hoc.
Responsabilità civile dei magistrati. Qualcuno votò sì.
Ha fatto molto bene Pierluigi Battista a fare un elenco di, cito, “cittadini illustri” che dichiararono di votare a favore del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (“Corriere della Sera”, 2 settembre 2013).
Non vi compaio. Peccato. Quindi, vorrei rivendicare il mio posto fra quei cittadini illustri. Per fortuna, la mia evidence è inconfutabile. Infatti, allora collaboravo da un paio d’anni a “la Repubblica”. Proposi al Direttore, Eugenio Scalfari, un articolo a favore del “sì”. Accettato e pubblicato. Però, quel referendum era sostenuto anche dal segretario socialista Bettino Craxi, non proprio in odore di santità presso Scalfari che lo aveva etichettato Ghino di Tacco. Tuttavia, molto grande fu la mia sorpresa quando, pochissimi giorni prima del voto, Scalfari ospitò due belle lunghe colonne in neretto con i commenti dei due capigruppo della Sinistra Indipendente: Stefano Rodotà (Camera) e Massimo Riva (Senato), entrambi favorevoli, “senza se e senza ma”, al no, certissime indicazioni di voto.
Magari, oltre ai cittadini illustri per il “sì”, è giusto, in questo paese dalla memoria cortissima e spesso distorta, attribuire le responsabilità individuali e “civili” che si meritano anche ai cittadini per il “no” (sonoramente sconfitti dall’80 per cento dei votanti). A ciascuno il suo. Non esito a prendermi la mia responsabilità: “sì”, ieri come oggi e domani.