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Brexit è una realtà. Che impatto avrà sul futuro dell’Unione Europea? #webinar #15gennaio #EuropaCantierediFuturo

🇬🇧 Brexit è una realtà. 🇪🇺 Che impatto avrà sul futuro dell’Unione Europea?💬 Il Prof. Gianfranco Pasquino e l’On. Sandro Gozi interverranno sul tema, in un dialogo condotto da Angela Mauro.🔜 Vi aspettiamo venerdì 15 gennaio alle ore 18:30 in diretta Facebook, sulla pagina di Europa – Cantiere di Futuro. Non mancate!

L’UNIONE EUROPEA AL TEMPO DELLA CRISI DEL CORONAVIRUS

L’UNIONE EUROPEA AL TEMPO DELLA CRISI DEL CORONAVIRUS

Dialogo edificante (ovvero costruttivo) tra un tecnocrate e un eurocrate

Gianfranco Pasquino* e Roberto Santaniello**

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– RS Poco meno di un anno fa è entrata in funzione la Commissione europea, presieduta da Ursula von der Leyen, prima donna ad esercitare questa funzione. La sua nomina è avvenuta dopo le elezioni del Parlamento europeo del giugno 2019, i cui risultati hanno smentito le previsioni di una decisiva avanzata dei partiti populisti e sovranisti.

La nuova governance istituzionale europea è stata completata nel tardo autunno 2019 con la nomina di Charles Michel a presidente del Consiglio europeo e di Christine Lagarde, a presidente della Banca centrale europea. In precedenza, l’italiano David Sassoli è stato eletto Presidente del Parlamento europeo.

Appena il tempo vedere assestarsi la nuova governance e di dare avvio alla nuova agenda strategica dell’Unione europea, e l’Europa è stata investita dalla drammatica crisi del Covid 19. Non c’è che dire: un inizio a dir poco “challenging” per le istituzioni europee. Un po’ come avvenne con la Presidenza del lussemburghese Jean-Claude Junker che ha dovuto confrontarsi nel 2O15 con l’emergenza migratoria, gli effetti della Grande Recessione e da ultimo la Brexit.

Tuttavia, l’attuale crisi è ben diversa da quelle precedenti poiché questa volta l’Unione europea deve confrontarsi non con problemi politici, ma con gli effetti umani, sociali ed economici di un virus sconosciuto e maligno.

Quale è lo stato dell’Unione europea al tempo della crisi del Coronavirus? La risposta istituzionale è giunta il 16 settembre scorso dal discorso “anima e cuore” della Presidente del Parlamento europeo in occasione del suo bilancio sullo Stato dell’Unione.

Una risposta che ha sollecitato tutti i paesi appartenenti all’Unione europea agli impegni di responsabilità e di solidarietà che derivano dal Progetto europeo. Di fronte alle conseguenze economiche e sociali della crisi pandemica, l’Europa – ha ricordato Ursula von den Leyen – deve proseguire con forza gli obiettivi che lei stessa ha individuato all’inizio del suo mandato. In particolare, la piena realizzazione della transizione verde e digitale dell’economia europea.

Con NextGeneratioEU, l’ambizioso programma da 75O miliardi di Euro varato in luglio dal Consiglio europeo (https://www.consilium.europa.eu/media/45118/210720-euco-final-conclusions-it.pdf), su proposta dell’esecutivo europeo, l’Europa si è dotata degli strumenti per conseguire questa transizione. Ancora una volta, l’Unione europea può dimostrare la sua effettiva capacità di trasformare una crisi in una opportunità. Questo è in sostanza il messaggio della Presidente della Commissione europea.

Caro Professore cominciamo da qui la nostra analisi. A lei la parola.

– GP Concordo con lei che sta effettivamente diventando possibile trasformare una crisi gravissima e tuttora in corso in un’opportunità. Ma mi e le chiedo quali sono le modalità auspicabili? Solo un uso efficace dei fondi oppure anche la richiesta di maggiore e migliore coesione/condivisione fra gli Stati membri? È opportuno, forse doveroso, essere al tempo stesso attenti alle esigenze poste dagli Stati che si autodefiniscono “frugali” (un giorno, presto, sarà opportuno definire i criteri e i requisiti della frugalità e valutarla, anche comparativamente), obbligandoli a essere molto più precisi nelle loro riserve, e avvisare il gruppo Visegrad, ma soprattutto Ungheria e Polonia. che l’Unione non è né un supermercato né una banca, ma un grande enorme spazio di diritti da proteggere e promuovere, di democrazia da fare funzionare, di civiltà?

– RS I “gruppi” di Stati sono una realtà di cui non si può non tenere conto. D’altro canto, le alleanze tra paesi fanno parte del DNA della storia comunitaria, si pensi allo storico asse franco-tedesco. Certo oggi, la moda dei gruppi sembra estendersi e strutturarsi in altri modi.

I paesi “frugali” hanno effettivamente rallentato i negoziati per giungere ad un accordo sul Quadro finanziario pluriannuale (il bilancio dell’UE per i prossimi cinque anni, N.d.R.) e NextgenerationUE. I paesi di “Visegrad”, hanno una visione dell’integrazione europea diversa dal tradizionale mainstream liberal-democratico, ed è spesso “border line” rispetto ai principi e i valori dell’Unione europea.

È per questo che Ursula von der Leyen ha sottolineato l’importanza del rispetto dei principi dello stato di diritto. Il suo messaggio è stato chiarissimo: “Le violazioni dello Stato di diritto non possono essere tollerate. Continuerò̀ a difendere questo principio e a difendere l’integrità̀ delle nostre Istituzioni europee”.

Due settimane dopo il suo discorso, la Commissione europea ha adottato il suo primo rapporto sullo stato di diritto in cui le questioni che lei ha sollevato sono evidenziate. Tenga conto che questa relazione fa parte integrante del nuovo meccanismo per lo Stato di diritto il cui obiettivo è promuoverne il rispetto e prevenire l’insorgere o l’aggravarsi di problemi. Si tratta di uno strumento preventivo per così dire di moral suasion per favorire la comprensione e la consapevolezza dei problemi dello stato di diritto

Ricordo che l’Unione europea ha altri strumenti come le procedure di infrazione e la procedura per proteggere i valori fondanti dell’Unione ai sensi dell’articolo 7 del trattato sull’Unione europea. E visto che lei ha messo in relazione banche e diritto, ricordo la proposta della Commissione europea sulla procedura di condizionalità per la tutela del bilancio che mira a proteggere il bilancio dell’UE in situazioni in cui gli interessi finanziari dell’Unione potrebbero essere a rischio a causa di carenze generalizzate dello Stato di diritto in uno Stato membro. In breve, l’Unione europea ha strumenti persuasivi e cogenti per il rispettare diritto e diritti.

Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, la Presidente ha molto insistito sulla solidarietà, principio assolutamente necessario in materia di politica di migrazione. Un tema che, come è noto, in Italia è particolarmente divisivo. Da studioso, che idee si è fatto sulle recenti proposte della Commissione europea sul Patto per la migrazione?

– GP Le proposte della Commissione sulla migrazione sono interessanti, ma ancora non pienamente adeguate. Credo sia opportuno e lecito, non soltanto da parte dell’Italia, chiedere di più in termini di chiarificazione, ad esempio, se il trattato di Dublino è effettivamente superato e come, e in termini di ridistribuzione, criteri più precisi e vincolanti. Molto utilmente, la Commissione dovrebbe affidare ai suoi funzionari una ricognizione approfondita su quanto è successo almeno negli ultimi dieci anni: arrivi e accoglimenti, respingimenti e ritorni, concessione di permessi di lavoro e di cittadinanza, poi lavori affidati ai migranti e stime sul loro contributo al Prodotto Nazionale Lordo dei singoli Stati membri. Ritengo anche che sarebbe importante conoscere quelle che talvolta sono più di semplici previsioni su che cosa l’Unione deve aspettarsi nei prossimi dieci anni: crescita della popolazione, flussi di migranti, da quali paesi e possibili misure preventive. La domanda di fondo è: quali sono le politiche auspicate dalla Commissione, quali le probabilità di una loro attuazione concreta, tempi, costi e, mi auguro, vantaggi?

Sarebbe anche utile e efficace potere disporre dei dati relativi alle votazioni nel Parlamento europeo, gruppo per gruppo, ma anche per le singole delegazioni nazionali (esempio, Lega e Fratelli d’Italia), sulle più importanti tematiche riguardanti le migrazioni. Per fare chiarezza è importantissimo potere disporre del massimo di documentazione esistente. Però, non dobbiamo fermarci qui. A quali altri problemi aperti la Commissione dovrebbe dedicare la sua attenzione o sta già operando senza che venga diffusa l’informazione decisiva per il formarsi di una opinione pubblica europea?

– RS So che il tema dell’informazione le sta, giustamente, a cuore. Sono d’accordo con lei che sarebbe utile disporre i dati che lei ricorda sulle votazioni del Parlamento europeo e, aggiungo io, delle posizioni dei ministri degli Stati membri in seno al Consiglio. Ė ancora troppo presto per poterle esaminare poiché la Commissione europea ha messo sul tavolo le sue proposte sulla migrazione solamente da due settimane. Posso dirle che per quanto riguarda il Parlamento europeo, che è una istituzione molto trasparente, questi dati saranno facilmente reperibili. Sarà abbastanza interessante conoscere non solo le differenze tra i partiti appartenenti al fronte populista-sovranista e le famiglie liberal-democratiche, ma anche i posizionamenti nazionali di queste ultime, che sul tema possono essere anche profonde. Per il Consiglio, che solo recentemente ha stabilito misure di trasparenza, potrebbe essere più difficile, anche se sono abbastanza conosciute le rispettive posizioni degli Stati membri.

Più in generale, la Commissione europea, che da sempre è il motore del Progetto europeo, si impegna a far conoscere i suoi progetti più importanti, e tra questi, l’ho già ricordato in precedenza, quelli che possono favorire la transizione verso un’economia europea basata sulle tecnologie verdi e digitali. L’impegno dell’esecutivo di Bruxelles, le assicuro, è forte, ma certo non esiste ancora un vero spazio pubblico di dibattito nel quale affrontare questi temi a livello europeo. Sulla sensibilizzazione al tema dei cambiamenti climatici, bisogna riconoscere che la piccola e cocciuta Greta Thunberg ha fatto molto di più di esperti che da anni sollecitavano una svolta nel trattare meglio il nostro pianeta. Le opinioni pubbliche sembrano più orientate a chiudersi nei recinti nazionali.

È d’accordo sul fatto che il dibattito sull’Europa sembrerebbe chiuso all’interno di vecchi recinti? Come se ne esce? E a proposito di opinione pubblica, quella italiana si sta chiedendo come mai, dopo mesi e mesi di critica all’Europa, la maggior parte delle forze politiche hanno cambiato radicalmente opinione. Su questo lei ha certamente una riflessione.

– GP troppo spesso ascolto uomini e donne politiche giustificare i loro insuccessi, quelli delle loro organizzazioni politiche e delle proprie promesse programmatiche sostenendo che buona era la sostanza, ma inadeguata la (loro) comunicazione. Che ad un’ottima sostanza non avevano saputo accompagnare una efficace comunicazione. Per lo più si tratta di giustificazioni dalle gambe molto corte che non riescono mai a proseguire il cammino fino ai luoghi dove la comunicazione viene insegnata e, applicandosi diligentemente, potrebbe essere imparata. Però, nel caso dell’Unione Europea c’è una parte di verità. In una (in)certa misura le istituzioni europee non hanno risolto il problema molto complicato di dovere comunicare ai cittadini di 27 Stati-membri e, pertanto, di sapere differenziare opportunamente i loro messaggi. Forse, ma lei, caro Eurocrate, ne sa sicuramente più di me, dovrebbero essere le sedi dell’Unione nei differenti paesi a fornire le chiavi comunicative da luogo a luogo più efficaci. Forse, il problema dipende dall’assenza del minimo necessario di conoscenze negli operatori nazionali dei mass media i quali, di conseguenza, svolgono malamente il loro compito di intermediari. Non voglio, se non in parte, sostenere che quei “comunicatori” sono parte del problema anche perché si occupano dell’Unione soltanto quando c’è qualcosa di eclatante, preferibilmente, controverso e criticabile, non quando l’Unione fa, anche solo piccoli, passi avanti. Soprattutto, i sub-comunicatori non riescono quasi mai a collocare la notizia nel contesto, non sanno disegnare il retroterra e finiscono per confondere lettori e telespettatori. Dei nuovi “social” so poco, ma, se già non lo fa, l’Unione dovrebbe procedere ad un loro largo uso. Andando più a fondo è imperativo che si proceda ad un insegnamento sistematico della storia, dell’economia, della politica dell’Unione europea, oltre a sfruttare tutte le occasioni in cui la conoscenza dell’Unione Europea potrebbe essere diffusa più estesamente. Mi avventuro nel sostenere che uno dei criteri per accedere allo splendido programma Erasmus dovrebbe essere una eccellente conoscenza dell’Unione da tutti punti di vista.

Esiste una opinione pubblica europea? Probabilmente, no, ma esistono molteplici opinioni pubbliche, settoriali e separate, che si trovano in una pluralità di campi, ma che interagiscono poco e male. Temo di illudermi, ma sono convinto che uno dei più importanti compiti degli europarlamentari dovrebbe essere proprio quello di stimolare l’interesse dei loro elettori orientandoli verso l’acquisizione di conoscenze che sfociano nell’ampio lago dell’opinione pubblica. Vedo gli europarlamentari come immissari di una molteplicità di laghi nel grande paese che si chiama Opinione Pubblica.

Concludo con una nota di pessimismo. Un tempo, in Europa, alcuni grandi intellettuali pubblici di diversi paesi hanno dato un contributo molto positivo a “pensare l’Europa” (è il senso di un libro di Raymond Aron) in tutte le sue sfaccettature. Oggi, ad eccezione, forse, dell’ultranovantenne Jürgen Habermas, non esistono più figure che possano definirsi intellettuali pubblici europei e che siano riconosciuti come tali. In che modo possiamo cercare di agevolarne la (ri)comparsa?

Gli intellettuali pubblici emergono quando, per l’appunto, esiste, forte e intenso, un dibattito pubblico su tematiche importanti. A lungo, in Italia, l’Europa è stata data per scontata. Sembrava, fu, una faccenda riservata ai governi. Ho enormi difficoltà a ricordare un qualsiasi dibattito pubblico avente come argomento l’Europa al quale abbiano partecipato intellettuali italiani di un qualche rilievo. Faccio pochi nomi: Italo Calvino e Umberto Eco? Neppure i miei maestri, Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, si occuparono mai specificamente dell’Unione Europea e della sua evoluzione. Di recente sono stati, anzitutto, gli Euroscettici, poi, i populisti, infine, i sovranisti a porre il problema e a sollecitare analisi, approfondimenti, valutazioni del processo di unificazione politica europea. Tuttavia, non hanno fatto la loro comparsa intellettuali né europeisti né sovranisti di grande statura. Paradossalmente, comunque, vi è stata qualche ricaduta sull’opinione pubblica che è diventata in parte un po’ più informata in parte un po’ più politicizzata sui temi europei. Potremmo affermare che la politicizzazione è benvenuta poiché obbliga all’apprendimento. Almeno per il momento possiamo giungere ad una conclusione interessante. A causa del Covid le istituzioni europee sono state chiamate maggiormente in causa. Hanno reagito, specialmente, la Commissione, con un salto di qualità. Stanno dimostrando che il sovranismo non è la soluzione e, in effetti, i sovranisti non hanno saputo offrire ricette e rimedi. Sono in parte in stallo in parte in declino, seppur limitato, nei rispettivi paesi.

Pensa, lei, caro Eurocrate, che l’Unione Europea abbia “svoltato” e si sia incamminata verso forme maggiori e migliori di sovranità condivisa?

– RS Quando lei, caro Tecnocrate, parla di forme maggiori e migliori di sovranità condivisa tocca un tasto molto interessante. La svolta è dietro l’angolo, ma è ancora difficile imboccarla, a causa delle diverse visioni politiche sull’evoluzione politica dell’Europa. Io credo che, oltre ad avere bisogno di più Europa, necessitiamo di un’Europa di qualità. E probabilmente avremmo bisogno che gli intellettuali europei si impegnassero maggiormente nel confrontarsi con questi temi e abbandonassero una certa pigrizia (o disincanto?) che sembra averli impossessati. Abbiamo più che mai bisogno di riflessioni forti per rafforzare culturalmente il Progetto europeo.

Riprendendo il filo del discorso da cui siamo partiti, la crisi del Covid 19 ha rivelato come e quanto l’Unione europea sia importante per i suoi cittadini e come la stessa abbia la capacità di individuare e mettere in campo delle policy solutions, come il lancio del programma NEXTGenerationEU testimonia. Occorre poi aggiungere che il tema a lei caro della sovranità condivisa ripropone la questione, evocata dal Presidente francese Emmanuel Macron, della necessità di giungere ad una vera sovranità europea, che possa per esempio, agire con un’unica voce nelle relazioni politiche esterne.

Come lei mi insegna, e come insegnano illustri politologi con i quali lei ha avuto la grande fortuna di studiare e operare (Bobbio e Sartori), democrazia e sovranità hanno molto a che fare con il “potere” e con il suo esercizio procedurale. E non arrivo a scomodare Dahl e Schumpeter come lei fa nel suo eccellente manuale di Scienza Politica. Ed è innegabile che l’Unione europea abbia molto, molto a che fare con la sovranità e la democrazia. Spesso, quando si affrontano questi argomenti, come è logico che sia, si evoca il concetto di popolo, visto che dal secolo dei Lumi in poi si è affermato il concetto che il potere appartiene al popolo. Non voglio e non posso (non ne ho le capacità…) divulgarmi su questo, e arrivo al punto. Ancor prima di assumere la carica di Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha sposato la proposta di Emmanuel Macron di organizzare una Conferenza sul Futuro dell’Europa per associare i cittadini su scelte che li riguardano direttamente. Purtroppo, la crisi Pandemica ne sta ritardando il lancio, ma tutti si augurano che possa prima o poi, presto, partire.

Caro Tecnocrate, pensa che la Conferenza sul futuro dell’Europa sia una buona idea? Ritiene che possa contribuire alla necessaria svolta che ha evocato e magari mettere le fondamenta per un autentico spazio pubblico europeo, come lo intende il già citato Habermas ?

– GP L’Unione Europea è giunta ad una svolta. Il Covid-19 si è effettivamente rivelato come un’opportunità per introdurre cambiamenti e accelerare tendenze. Non sono convinto che questa consapevolezza sia (egualmente) diffusa in tutti gli Stati-membri e fra i loro governanti e gli oppositori (in Italia più in Giorgia Meloni che in Matteo Salvini anche se, poi, nessuno dei due sa quali conseguenze operative trarne). Lo è certamente e provatamente nella Presidente della Commissione e, salvo prove contrarie che non vedo, in tutti i Commissari. In questa fase, l’iniziativa è nelle mani della Commissione e del Consiglio europeo ed è augurabile che il Parlamento europeo, fermo restando lo spazio per la critica e la proposta, la sostenga e la sospinga.

Ritengo che la conferenza sul futuro dell’Europa sia un’ottima idea. Sono convinto da tempo che si debba costruire, come dice giustamente lei sulla scia di Habermas, “un autentico spazio pubblico europeo”. Ho letto nei documenti preparatori della Conferenza (E Testi Approvati) molte proposte assolutamente condivisibili che, se attuate, porterebbero nella direzione giusta. Da una pluralità di agorà locali, variamente costruite, si riuscirà a pervenire all’agorà europea. Però, il procedimento mi appare di una straordinaria complessità. Mi chiedo come lanciarlo e soprattutto come orientarlo. Saranno i vari uffici della Commissione negli Stati-membri ad averne la responsabilità? L’ambizione di coloro che hanno elaborato il documento è enorme. La mia preoccupazione riguarda la quantità di energie necessarie a rendere efficaci e produttive tutte le fasi di consultazione e di decisione. Non è questo il luogo per entrare nei dettagli, ma è un compito al quale non dobbiamo rinunciare. Qui mi limito a affermare che bisognerebbe iniziare con l’approccio che chiamerò “feasibility”, della fattibilità. Proviamo a vedere che cosa si può fare, in che modo, con quali inconvenienti ai quali porre rimedio. Qualche esperimento preliminare mi parrebbe molto raccomandabile. In alcune poche regioni italiane si sono fatti esperimenti di grande interesse applicando le conoscenze in materia di democrazia deliberativa. “Che Europa volete?” è sicuramente una domanda da porre a “pubblici” selezionati, già in parte preparati, ma comunque rappresentativi. La pubblicità data a incontri sul tema, alle discussioni, alle loro conclusioni promette di fare aumentare le conoscenze. Insomma, è la strada giusta. In tempi di Covid si può comunque sperimentare sfruttando al meglio la strumentazione telematica che sarà sempre più al centro di tutte le procedure di diffusione di idee e di informazioni e di molti confronti. L’Unione Europea continua a essere in the making proprio come le democrazie meglio funzionanti. D’accordo?

– RS Si sono d’accordo. Pur se spesso considerata “indefinita” e di difficile classificazione, l’Unione europea appartiene di diritto ai sistemi politici democratici. Dunque, non ha né più né meno gli stessi problemi di legittimazione e di rendimento e gli stessi spazi di manovra per il suo miglioramento delle democrazie nazionale che pure a sua volta ha contribuito a modificarsi per tenere conto della dimensione sovranazionale. Si, sono ottimista sulle capacità, del resto già dimostrate in passato, dell’Unione europea di adattarsi ai cambiamenti e nel contempo di sfatare una volta per sempre la maledizione westfaliana – per dirla con le parole di Yves Mény – che vuole recintare la democrazia entro i confini delle nazioni. È innegabile che esiste una democrazia sovranazionale e che ha gli strumenti per proseguire la sua evoluzione.

Bene, lascio a lei un ultimo pensiero, dandoci appuntamento per un nuovo dialogo, magari in occasione dell’avvio della Conferenza sul futuro dell’Europa.

GP Non sono altrettanto sicuro che esista hic et nunc una democrazia sovranazionale. Però, sono convinto che l’Unione Europea ha posto le basi di questa democrazia e, seppur lentamente, ma progressivamente la sta costruendo. Sarà qualcosa di più che una democrazia “sovranazionale” poiché andrà non soltanto “sopra”, ma “oltre” le nazioni. Per conseguire questo obiettivo sono necessarie idee e istituzioni. Ė probabile nonché augurabile che molte idee saranno prodotte dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa, ma anche dagli osservatori competenti e dai critici esterni se, com’è possibile, alcuni intellettuali e “burocrati” vorranno finalmente dedicarsi all’impegnativo compito di combinare la critica con la proposta di soluzioni alternative. Al proposito, è opportuno il rimando al più recente tentativo di “migliorare” l’Unione Europea effettuato da una delle studiose più attente alla democrazia nell’Unione o, come ha preferito definirla, alla legittimità: Vivien A. Schmidt, Europe’s Crisis of Legitimacy. Governing by Rules and Ruling by Numbers in the Eurozone, Oxford University Press, 2020. Ho molte differenze d’opinione con le analisi e le proposte dell’autrice, ma sono proprio le differenze che rendono utile il confronto. Quello che manca nel libro è una riflessione sulle “idee d’Europa”. Mi spingerei fino a dire le “ideologie d’Europa”, con particolare riferimento al carente approfondimento del pensiero federalista, l’unico in grado di opporsi ai brandelli di “sovranismo” agitati dalla destra, ma anche da una malintendente sinistra che, dimenticandosi delle sue radici internazionaliste, si dichiara preoccupatissima dalla erosione della sovranità popolare a scapito della democrazia.

Quanto alle istituzioni, regole e procedure, è oramai opinione diffusa e condivisa, dai rimanenti sostenitori e dagli oppositori, che è essenziale eliminare nel Consiglio il voto all’unanimità che, da un lato, è antidemocratico poiché offre un enorme potere di ricatto ad uno contro tutti, dall’altro, obbliga a compromessi, scambi deteriori, azioni opache che producono pessime conseguenze sia nei rapporti fra capi di governo sia sui processi decisionali.

In conclusione, il punto più importante che vorrei sottolineare è che qualsiasi riforma istituzionale dell’UE/nell’UE europea deve essere “sistemica”, vale a dire, coinvolgere Parlamento, Commissione, Consiglio e Banca Europea. La democrazia cresce e migliora quando fra le sue istituzioni si affermano e funzionano equilibri, pur sempre mutevoli, confronti e scontri. La democrazia dell’Unione e nell’Unione deve sapere accogliere quegli Stati, a cominciare dai Balcani, che si preparano ad aderirvi purché promettano credibilmente di rispettare i principi democratici e fare crescere le loro stesse democrazie. Fin da adesso, predisponiamoci a monitorare puntualmente quanto sarà proposto e verrà formulato durante la conferenza. Ė un compito impegnativo, ma necessario e utile. Il discorso sulla democrazia non finisce qui.

LE CREDENZIALI DEI DIALOGANTI

Gianfranco Pasquino* è un europeo nato nei pressi di Torino. Ha conosciuto Altiero Spinelli e ha davvero letto Il Manifesto di Ventotene. Parla alcune lingue europee, francese e spagnolo, e una lingua extra-europea, l’inglese. Ė Professore Emerito di Scienza politica, materia che gli ha consentito di essere invitato a Monaco di Baviera e Berlino, Oxford, Cambridge e Manchester, Parigi. Lisbona e Madrid. Ha variamente scritto di sistemi politici comparati e di Europa: Capire l’Europa (1999) e L’Europa in trenta lezioni (2007). Di recente è stato co-curatore di una ricerca approfondita e ambiziosa: Europa. Un’utopia in costruzione (2017), contribuendovi due densi capitoli. Ė convinto che l’unità dell’Europa è un obiettivo nobilissimo.

Roberto Santaniello**, romano di nascita, federalista per convinzione, è diventato civil servant europeo dal 1986 per convinzione e passione, incontrando sulla sua strada persone che dell’Europa hanno fatto una ragione di vita (Altiero Spinelli e Virgilio Dastoli). Mai pentito di questa scelta ideologica e professionale. Funzionario della Commissione europea, oggi presso la Rappresentanza in Italia, da sempre artigiano della comunicazione e dell’informazione sul l’Europa, autore a tempo perso di libri sulla storia e la politica della costruzione comunitaria. Eccone una selezione: Storia politica dell’integrazione europea con Bino Olivi; Prospettiva Europa, con Virgilio Dastoli e Alberto Majocchi; C’eravamo tanto amati, Italia Europa e, con Virgilio Dastoli, Capire l’Unione europea. Pensa che sia possibile fare ancora molta strada europea, dentro e fuori le istituzioni.

Leggi anche il Numero Speciale di viaBorgogna3 2019
Gianfranco Pasquino e Roberto Santaniello
DIALOGO SUL FUTURO DELL’EUROPA
Un tecnocrate e un burocrate a confronto
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Pubblicato il 06 NOVEMBRE 2020 su casadellacultura.t

Diseguaglianze e opportunità nell’era della globalizzazione #intervista @CdT_Online

Intervista raccolta da Osvaldo Migotto

Il politologo Gianfranco Pasquino, domani a Lugano per una conferenza, vede grandi sfide per le nuove generazioni
La scalata sociale oggi appare più difficile che in passato ma il meccanismo varia da Paese a Paese – Fondamentale resta il ruolo della cultura

Domani, giovedì 5 marzo, alle 18 Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna, terrà alla Biblioteca cantonale di Lugano una conferenza organizzata dal Club Plinio Verda. Tema della serata: «Diseguaglianze: precisazioni, problemi, proposte». Lo abbiamo intervistato.

Professor Pasquino, la sua conferenza a Lugano apre un ciclo di incontri dal titolo «Luci e ombre della globalizzazione». Vista la situazione economico-sociale in Europa, nella globalizzazione lei vede più luci o più ombre?

La globalizzazione di per sé produce notevoli opportunità, ma contiene anche grandi sfide, per cui bisogna sapersi organizzare per sfruttare al massimo le opportunità. Una delle sfide dipende dal fatto che l’economia finanziaria è molto più veloce delle capacità di reazione finora mostrate da Parlamenti e da Governi. I capitali sono inoltre molto più forti di ciascun singolo Stato. Anche gli Stati Uniti sono esposti a questo rapido movimento di capitali, per cui la risposta a questa sfida dovrebbe essere sovranazionale, ma qui si presenta un problema.

Nel senso che non esistono istituzioni sovranazionali in grado di gestire tale sfida?

Non esistono istituzioni in grado di gestire tutta la situazione. In alcuni casi è stato invece possibile gestire singole sfide, come ha mostrato ad esempio la Banca centrale europea. Anche i vari commissari dell’UE hanno saputo imporre a Google di smetterla di operare in regime di monopolio, di pagare le tasse e via dicendo. Si tratta dunque di una sfida in corso.

Misuriamo l’andamento economico di un Paese in base alla crescita del PIL (Prodotto interno lordo), quale strumento va usato per misurare le diseguaglianze?

Alcuni strumenti esistono e vengono usati dalle Nazioni Unite. Viene ad esempio misurata la salute dei cittadini e il livello d’istruzione. Quello che non possiamo misurare con precisione è la felicità delle persone. Però anche qui stanno emergendo delle possibilità di misurazione e quindi riusciamo ad andare oltre il PIL. Va però precisato che, se il PIL non cresce, tutte le altre misure di cui ho parlato sono insoddisfacenti.

Crede che la scalata sociale sia più facile oggi, ai tempi della globalizzazione, o nei decenni che l’hanno preceduta?

Su questo i dati sono abbastanza concordi, ossia oggi è più difficile passare da situazioni di relativo disagio a situazioni di grande soddisfazione lavorativa, culturale e così via. Non direi che questo meccanismo si sia interrotto del tutto, però bisogna verificare Paese per Paese. Nel caso italiano le speranze di chi aveva vent’anni negli anni Sessanta e di chi ha vent’anni oggi sono molto diverse. Le aspettative oggi sono molto meno ottimistiche.

In Europa molti giovani cercano di far fruttare all’estero quella formazione universitaria o di altro tipo che in casa propria non ha permesso loro di trovare un lavoro adeguato. È anche questa una via per aggirare le diseguaglianze?

Il poter girare il mondo alla ricerca di un lavoro che piace rappresenta uno degli aspetti positivi della globalizzazione. In questo modo è inoltre possibile aggirare le diseguaglianze in quanto ci sono dei Paesi più aperti al merito, al talento e alla voglia di fare e Paesi dove invece è meno facile far valere queste doti personali. Il paradosso è che il Regno Unito era molto aperto su questo fronte e ora con la Brexit finirà per chiudersi e per questo pagherà un prezzo. L’Italia invece è sempre stata molto meno dinamica come società.

Chi ha alle spalle una famiglia benestante può contare su una migliore formazione scolastica e su conoscenze che facilitano l’inserimento nel mondo del lavoro. Oggi questi vantaggi creano più che in passato un fossato tra giovani fortunati e giovani meno fortunati?

Se la società è statica le risorse che possiede la famiglia sono molto più importanti che in passato. Però bisogna fare molta attenzione all’elemento culturale, perché qui vi sono delle differenze importanti anche tra famiglie con lo stesso livello di reddito. Se in una di queste famiglie vi è grande disponibilità a investire in cultura, ossia se vi sono molti libri in casa, vi sono anche maggiori opportunità per i figli. Se al contrario una famiglia è ricca e ha anche delle relazioni, ma non riesce a diffondere la cultura, si troverà in una situazione meno favorevole. Per cui l’elemento culturale è quello più incisivo nel favorire lo sviluppo di una società.

Che legami vede tra partiti populisti e giovani?

I giovani mi sembrano più inclini ad essere dinamici e a cercare soluzioni, mentre i partiti populisti alla fine sono conservatori nel senso che vogliono mantenere quello che hanno all’interno dei loro confini.

Pubblicato il 4 marzo 2020 sul Corriere del Ticino

Brexit and Pandora’s Box @DCU_Brexit_Inst

 

Boris returns at Number 10. Number 10 via a BY-NC-ND licence

Boris returns at Number 10. Number 10 via a BY-NC-ND licence

“Get Brexit Done” , the highly successful Conservative slogan, can be interpreted in two rather different ways. It is a commitment made by the Prime Minister Boris Johnson. It is also a mandate given to him by the British voters. Johnson has received a resounding mandate and will have to work hard too fulfill his commitment in the next few months. Hopefully, he will duly be held accountable by the voters.

The British “Constitution” (I refer to the famous book by Walter Bagehot, 1867) has performed admirably. After having unsuccessfully tried to manipulate the rules of the game, among other minor violations, shutting Parliament, Johnson has been rewarded by several factors that pertain to the British political system. First, to a large extent the incumbent has the power to dissolve Parliament and call new elections at the time that is most convenient for him. In this instance he was decisively  helped by Labour’s leader Jeremy Corbyn. Second, in many, if not most, constituencies, Conservative candidates were blessed by tactical voting deliberately made possible by Nigel Farage. The leader of UKIP  has sacrificed his, in any case difficult, access to Westminster to the uppermost goal of obtaining Brexit. Third, tactical voting has not worked for the parties (and candidates) opposing Brexit. Finally, in contrast with Johnson’ clear stand, Corbyn’s statements and campaign were often confused and appeared shaped by expediency.

The Labour leader practically did not offer any alternative to what Johnson was advocating. In a way, one could say that the old English expression “better the devil we know” influenced the behavior of many voters who chose Johnson also because quite a number of them were unable to make sense of Corbyn’s stands and Labour policies. No wonder that what was known of the Labour “devil” has appealed to the smallest number of British voters in the last thirty years. The incumbent prevailed and the (Labour) opposition is in shambles. Even though  the mandate that Johnson has received does not come from an absolute majority of voters, one cannot nourish any hope for a second referendum.

The December 12 elections also were a referendum and the pro-European Union activists have to accept its outcome and the sad fact that British public opinion does not lend its support to an option other than Brexit. Perhaps, the pro-Europeans could start immediately to monitor what the Prime Minister does, does not, does poorly in his (re)negotiations with EU authorities. From the beginning, they should try vigorously to enforce political accountability at the same time constructing an alternative narrative of what the European Union really is and what the kind of exit desired by the Prime Minister will mean for Britain. Leaving aside, but not underestimating, all the complex elements having to do with trade negotiations and freedom of movement. I will only stress that along the road away from Bruxelles there are two major problems to be solved: the Northern-Ireland backstop and the preference for Remain repeatedly and massively expressed by Scotland. Neither will be easily solved and I tend to believe that quite a number of Europeans would be very supportive of a Scottish independence referendum that may lead to membership in the European Union. One should not be worried by the not so farfetched outcome, but by the tensions and conflicts that will inevitabile accompany the process from its start.

Perhaps, the most fundamental lesson coming from the British elections was already known, though not fully learned. To leave the European Union is not easy. It requires time and energy. It is very costly. Now we may add that leaving the European Union may open a Pandora’s box from where other up to then relatively muted problems and ills will spring. What has taken place in the mother of all parliamentary political systems and the beacon of majoritarian democracies is something that the European “sovereignists” (those who would like to  recover their supposedly lost sovereignty by withdrawing from the European Union) are already seriously pondering.

December 18, 2019

Sovranismo azzardato e rischioso

In Italia il miglior amico di Putin rimane Berlusconi che, però, di potere politico proprio non ne ha più neanche un’oncia. Figurarsi se Putin perde l’occasione di influenzare la politica di una democrazia non proprio “vigilante” né vibrante come quella italiana. In qualche modo è persino riuscito a condizionare l’esito delle elezioni USA 2016. Farlo altrove non può che essere, per lui, un gioco da ragazzi, per di più esperti assai. La richiesta di un qualche sostegno venuta da qualche leghista, lasciando da parte il vil denaro che può essere stato versato all’organizzazione che ne ha davvero bisogno, è, però, alquanto contraddittoria nell’ottica sovranista. Nelle elezioni europee gli altri partiti sovranisti hanno ottenuto risultati relativamente buoni, ma chiaramente inferiori alle attese. Sui due più forti, l’ungherese Orbàn capo di governo e l’inglese Farage, probabilmente transeunte con la Brexit, né la Lega che ha bisogno di alleati né Putin possono fare affidamento. Quei due si faranno i fatti loro, senza scrupoli. Invece, a Putin farebbe certamente comodo avere una testa di ponte nell’Unione Europea. Qualcuno che, come ha già fatto Berlusconi, si pronunci contro le sanzioni dell’UE alla Russia poco rispettosa dell’autodeterminazione. Qualcuno che non vada tanto per il sottile e accetti la presenza russa in Ucraina. Qualcuno che, magari anche per disinformazione (la politica estera non è la più nota delle specialità del poliedrico Salvini), intralci i processi decisionali europei e, chi sa, persino, “atlantici”.

Si ha l’impressione che Salvini e qualcun altro nella Lega abbiano sottovalutato la portata di qualsiasi rapporto, anche non economico, con un gigante esigente e sprezzante come la Russia. Non è dalla Russia che i sovranisti europei potranno ottenere qualsiasi legittimazione delle loro attività. Per definizione, i sovranisti tutti guardano ai loro specifici interessi nazionali. Orbàn lo dimostra regolarmente. Possono trovare convergenze occasionali nell’ostacolare le politiche europee, ma pensare che si organizzino in maniera solidale per perseguire obiettivi comuni è davvero molto utopistico. Anzi, è un strategicamente gravissimo. Ad esempio, non è difficile immaginare che sia la Presidente della Commissione Europea sia l’europarlamento saranno molto severi nel valutare le credenziali del Commissario italiano di spettanza della Lega.

Quanto a Putin non è soltanto un sovranista. È prima di tutto e soprattutto un leader autoritario. Non ha bisogno di alleati e non ne vuole. Preferisce vassalli, quinte colonne che è sicuro di sapere come manovrare. Quando sarà chiarito che cosa faceva il leghista Savoini, oltre ad ottenere numerose photo opportunities, in numerosi incontri con delegazioni russe di livello, sapremo se il nervosismo di Salvini è giustificato. Però, già ora è possibile affermare alto e forte che il sovranismo non deve mai mettersi in condizioni da essere manipolato dall’esterno. Questa è la colpa politica più grave.

Pubblicato AGL il 15 luglio 2016

Marsala, oggi. Gianfranco Pasquino: “Ricuciamo insieme i pezzi d’Europa, partendo da…”

Intervista raccolta da Marco Marino

Il nostro è un tempo di slogan, punti esclamativi e affermazioni che lasciano poco spazio al pensiero, al dubbio o anche solo al semplice dialogo. Sembrano davvero lontani i tempi in cui il filosofo Norberto Bobbio diceva che “il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non di raccogliere delle certezze”. La verità è che è molto più facile accomodarsi nelle formule più ricorrenti come “Prima gli italiani/ i siciliani/ i marsalesi/ i marsalesi di via…!” e vedere come va a finire il film. Tanto, a farla vinta, sono sempre loro. Gli uomini dei Palazzi della Politica. Quelle figure indefinite che muovono le nostre vite come se fossero delle pedine.

Ma la politica non può, non deve essere rappresentata in questo modo e chi s’è adagiato a pensarla così sbaglia di grosso. Forse, però, non risuonano più nemmeno le parole di uno dei nostri padri della nostra Repubblica, Piero Calamandrei: «La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai…».

Di questi argomenti e di molti altri parlerà oggi Gianfranco Pasquino, alle 18.30, alle Cantine Florio per il secondo appuntamento del festival 38° Parallelo – Tra libri e cantine, la rassegna di incontri che fino a domenica 19 animerà la città di Marsala con importanti dibattiti legati dal tema del “rammendi, tra visioni e paesaggi”.

Con Gianfranco Pasquino, politologo di fama internazionale, da poco ritornato in libreria con il saggio Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica (Bocconi, 2019) anticipiamo alcuni dei temi di questo pomeriggio.

Lunedì s’è chiuso il Salone del Libro di Torino. Entrato nel dibattito fascismo-antifascismo, è sembrato che si riproponesse “il paradosso della tolleranza” di Popper: se la tolleranza prevede anche l’inclusione delle frange più intolleranti è fisiologico che queste cercheranno di farsi spazio ristabilendo i valori dell’intolleranza…

Popper avrebbe, anzitutto, chiesto a chi aveva accettato la domanda di partecipazione al Salone del libro di Torino dell’editore di Casa Pound in base a quali criteri lo aveva fatto. Principio fondamentale è l’assunzione di responsabilità personale e di giustificazione razionale dei propri comportamenti. Poi, avrebbe chiesto di potere (ri)presentare in pubblico il suo libro La società aperta e i suoi nemici nel quale si trovano i principi da osservare e attuare affinché gli uomini e le donne si scelgano le modalità con le quali vivere la loro vita e farsi governare. Popper avrebbe sicuramente suggerito e gradito che si facesse un vero e proprio bando relativo alla costruzione di una società aperta al quale partecipassero tutti coloro disposti a discuterne con lui, magari scrivendo una o due paginette di introduzione al suo testo, oggi, nelle condizioni date. La libertà di espressione del proprio pensiero è un valore irrinunciabile, ma non può mai essere puntellata dal ricorso alla violenza, facilmente constatabile. “È pensiero l’incitamento all’odio?, alla violenza? alla repressione autoritaria?” si sarebbe interrogato Popper. Mai impedire a chiunque l’espressione del pensiero, a voce o per iscritto. Sempre chiedere a tutti di rinunciare alla violenza e di rispettare le leggi vigenti. Sarei stato con Popper continuando a sollecitarlo ad approfondire le sue posizioni, a indicare le sue preferenze, a giudicare caso per caso, argomentando i suoi giudizi.

In un’Italia infettata da populismi, nazionalismi e sovranismi, è sempre più crescente la sfiducia nella possibilità che l’Europa possa ritornare a essere una vera comunità aggregante. Come ritornare a credere in un futuro possibile della nostra Unione? O forse bisogna rassegnarsi all’avanzata del Gruppo di Visegrad?

Nessuno può credere che i problemi, immigrazione e economia, riduzione delle diseguaglianze e offerta di lavoro, che l’UE non riesce a risolvere possano essere risolti da Stati che si riappropriano della sovranità, consapevolmente ceduta, persa solo se incapaci, inadeguati e inaffidabili. I sovranisti, che sono più banalmente e pericolosamente nazionalisti di ritorno, entreranno inevitabilmente in conflitto fra di loro. Si faranno la guerra, proprio come nel passato. Gli europeisti/federalisti metteranno insieme ancora più risorse che avranno un effetto moltiplicatore. Una di questa insostituibili risorse è la democrazia, il potere del popolo esercitato nelle forme e nei limiti della Costituzione, nel caso dell’UE con riferimento al Trattato di Lisbona. Il populismo è una tremenda illusione, la credenza ingenua o furbesca che esista un leader svincolato dalle leggi, non responsabile attraverso regole e procedure, che trae legittimazione da un popolo che lui stesso definisce, contemporaneamente definendo nemici del popolo coloro che al suo potere sregolato si oppongono e che questo leader produca cambiamenti positivi, progresso. Nei paesi del gruppo di Visegrad, forse accolti prematuramente nell’UE, la cultura democratica non è robusta e vibrante, ma esiste un dissenso democratico che può legittimamente fare appello ai cittadini e rovesciare grazie a elezioni libere e non manipolate chi viola le regole. Le autorità europee ricorderanno a quei paesi che la loro prosperità dipende anche dall’osservanza dei principi democratici. Non sarà facile capovolgere alcune tendenze, ma è certamente possibile.

Idea fondativa dell’Unione è che l’Europa, più che un continente, sia un movimento di libertà dello spirito che spinge tutti noi europei alla ricerca della ragione e ci convince della predominanza del ruolo delle leggi su quello del potere. A poche settimane dalle elezioni, cosa resta di quell’idea?

L’Europa è un progetto politico che avanza, nonostante tutto, avendo conseguito la pace fra gli aderenti e la prosperità, nonostante la crisi esogena venuta dagli USA. Da più di settant’anni la guerra è sparita dai rapporti fra gli Stati dell’UE ed è diventata inimmaginabile. Tutti gli Stati-membri e i loro cittadini stanno meglio oggi, in qualche caso molto meglio, di quando hanno aderito all’UE. Altri Stati vogliono aderire (Albania, Kosovo, Montenegro, Serbia) per consolidare le loro traballanti democrazie e fare crescere le loro economie (e società). L’UE è il più grande spazio di libertà e di diritti civili e politici, anche sociali, mai esistito al mondo. L’UE ha abolito la pena di morte. L’UE garantisce la libertà di circolazione di persone e idee, capitali e merci. L’UE è pluralismo politico, sociale, economico, religioso, culturale come nessun altro luogo al mondo. Nell’UE si può ragionare e dissentire, lottare per le proprie idee e proposte, perdere, mai tutto, vincere mai tutto, continuare a perorare la propria causa, persuadere e essere persuasi. Siamo cittadini europei che possono vantarsi di potere chiedere e ottenere giustizia direttamente dalla Corte Europea di Giustizia. Abbiamo ancora molta strada da fare, molta ne abbiamo fatta, sappiamo come avanzare. Siamo anche consapevoli che esistono più indicazioni sui ritmi e sui tempi del futuro che disegneremo d’accordo con i cittadini e con i capi dei governi degli altri paesi. La Gran Bretagna con la sua pasticciata e sbagliata Brexit insegna a tutti quanto costoso sia andarsene, senza sapere dove e per fare che cosa.

Una parola da cui ripartire per ricostruire i valori, le speranze della nostra Europa.

La mia parola chiave dell’UE è opportunità. In una comunità grande, non solo per i numeri, ma per la cultura, la parola opportunità va declinata in diversi modi. È, anzitutto, la possibilità di trovare luoghi e sedi nelle quali esplicare al meglio le proprie capacità. La varietà delle situazioni in Europa è garanzia della molteplicità possibile di scelte. È la certezza che in molti luoghi dell’UE si sarà giudicati in base ai meriti, alle capacità di lavoro, ai contributi personali. Opportunità è quanto gli studenti del programma di enorme successo Erasmus, di scambio fra le migliori università dell’Europa (che sono tante), hanno conosciuto e apprezzato. Continueranno a farlo, a sfruttare questa straordinaria opportunità. Uomini e donne istruiti e professionalmente preparati hanno l’opportunità di migliorare ancora la qualità della loro vita liberamente circolando sul territorio europeo. Non saremo mai tutti eguali su tutto – né, immagino, vorremmo esserlo -, ma l’UE offre eguaglianze di opportunità come nessun singolo Stato-membro (tranne, forse, le avanzatissime Danimarca, Finlandia e Svezia), hanno offerto e stanno tuttora offrendo ai loro cittadini (e agli immigrati che desiderano, con lo studio e con il lavoro, integrarsi davvero). Infine, opportunità di opporsi a leggi ingiuste e a sentenze “sbagliate” grazie alla possibilità per ciascun singolo cittadino europeo di rivolgersi alla Corte Europea di Giustizia per tutelare i suoi interessi, i suoi valori, le sue idee ogniqualvolta si sentano e siano schiacciati da uno Stato nazionale e/o dalle stesse autorità europee.

Pubblicato il 17 maggio 2019 su tp24.it

Paradossi della Brexit infinita

Quando il Primo ministro conservatore inglese David Cameron decise inopinatamente di sottoporre a referendum nel giugno 2016 la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, non era affatto interessato all’opinione del “popolo britannico”. Piuttosto, era convinto di ottenere un successo relativamente facile per la sua opzione blandamente preferita, malamente argomentata,  “Remain” in questo modo sconfiggendo ed emarginando i suoi oppositori dentro il Partito Conservatore. La vittoria dei Brexiters, ovvero dell’opzione “Leave”, pose giustamente, democraticamente fine alla sua carriera politica. La non irresistibile ascesa di Theresa May alla carica di leader del Partito conservatore e di conseguenza di Primo ministro le ha consegnato l’arduo compito di negoziare, applicando l’art. 50 del Trattato di Lisbona, i termini della separazione fra Regno (apparentemente) Unito e Unione Europea. Che l’accordo, il deal, possa essere soft, ovvero mantenga molti dei legami attualmente intercorrenti, oppure, hard, una rottura secca e netta, è oggetto di contesa che si spinge fino alla possibilità di nessun accordo, no deal. Gli scozzesi e i nordirlandesi che hanno votato per rimanere si attendono, nel peggiore dei casi, un accordo soft.

La Londra cosmopolita, degli affari (sì, contano anche le banche e le attività economiche e imprenditoriali) e della cultura che, ugualmente, ha votato Remain, fortemente desidera un accordo che mantenga molti dei legami con l’Unione Europea, ma finora non ha saputo come argomentare una posizione tale da incidere effettivamente sui negoziati con la decisione finale più volte procrastinata. Nel frattempo, sta giungendo a termine anche la carriera politica della Signora May che ha preannunciato le sue dimissioni non appena un accordo, qualsiasi accordo, sarà raggiunto. Il neanche troppo assordante silenzio del leader laburista Jeremy Corbyn non dipende da nessuna convinzione particolare e da nessuna motivazione nobile (per esempio, non interferire sui negoziati del Primo Ministro con l’UE), ma dalla sua aspettativa che le dimissioni di Theresa May gli aprirebbero la strada ad una insperata vittoria elettorale e all’agognato ingresso al n. 10 di Downing Street (abitazione del Primo ministro). Quindi, Corbyn agisce, anzi, non fa nulla, in maniera del tutto opportunistica.

Che cosa ci narra la Brexit della democrazia inglese, vale a dire della madre di tutte le democrazie (in specie di quelle parlamentari) e, più in generale, delle democrazie contemporanee? Quali lezioni, lasciando da parte la difficoltà di uscire dall’UE volendo rimanerne aggrappati ai vantaggi che l’appartenenza all’UE offre a tutti gli Stati-membri, imparte la Brexit? La prima, vi ho già accennato, è una lezione confortante. Talvolta i leader opportunisti non la fanno franca, non riescono a filarsela all’inglese. In democrazia chi sbaglia, Cameron e May, paga. La seconda lezione è di più difficile esplicazione e comprensione. A sbagliare potrebbero essere stati gli elettori, perché sì anche gli elettori sbagliano: quelli che non sono interessati alla politica e si mobilitano su emozioni e non su opinioni, quelli che non hanno (acquisito) abbastanza informazioni, quelli che non partecipano (non votano) lasciando agli altri elettori il potere di decidere su chi e su che cosa. La terza lezione è che su materie complesse, come quella dell’appartenenza all’UE o della fuoruscita il referendum è uno strumento da usare soltanto dopo un dibattito il più ampio possibile fra politici e cittadini, fra società politica e società civile, dibattito che Cameron non ha saputo e non ha voluto promuovere.

Democrazia referendaria diretta contro democrazia parlamentare rappresentativa? I referendum sono strumenti rarissimamente utilizzati nel Regno Unito, ma vero è che l’ingresso nell’allora Comunità Europea nel 1975 avvenne attraverso un referendum promosso dall’allora Primo ministro laburista Harold Wilson. Nel Regno Unito la sovranità appartiene al popolo (per usare l’espressione dell’articolo 1 della Costituzione italiana) che la delega periodicamente al Parlamento. Saranno i rappresentanti eletti a Westminster a tradurre quella sovranità in comportamenti e decisioni, ciascuno/a di loro poi spiegando quel che ha fatto, non ha fatto, ha fatto male, agli elettori del suo collegio uninominale. Nulla osta, quindi, che la Camera dei Comuni decida di procedere ad un altro referendum. Non un referendum per contrapporre i vincenti del 2016 agli elettori del 2019 (a questo punto quasi sicuramente in possesso di maggiori conoscenze), ma per offrire un’alternativa fra l’accordo eventualmente raggiunto (Deal) e il ritorno (Re-enter) nell’Unione Europea. Complicato, ma non traumatico. Infatti, la democrazia è l’unica “situazione” che consente di cambiare idea assecondando le (nuove) preferenze degli elettori, ah, già, del popolo (che ha e mantiene il diritto di cambiare idea, opinione, voto) e traducendole in quello che quel popolo preferisce.

Pubblicato il 15 aprile 2019 su PARADOXAforum

Continuiamo a combattere, per quanto morbosi siano i tempi #SintomiMorbosi” di Donald Sassoon

“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Donald Sassoon, professore emerito di Storia Europea Comparata alla Queen Mary University di Londra, ha scelto questa molto nota frase di Gramsci come l’epigrafe del suo più recente libro (Sintomi morbosi, Milano, Garzanti 2019, pp. 322). Il sottotitolo: Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi, mi pare poco appropriato poiché, in effetti, ieri , vale a dire, tanto nel lungo dopoguerra di sviluppo, di miracoli economici, di costruzione dell’Unione Europea quanto nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Berlino e, quindi, alla democratizzazione dell’Europa centro-orientale, le cose non sono poi andate così male. Le tre sfide problematiche annunciate dalla fascetta del libro: nazionalismo, immigrazione, populismo sono davvero fenomeni dell’oggi. È qui, infatti, che situerei i sintomi morbosi brillantemente evidenziati e spesso sarcasticamente stigmatizzati dall’autore. Peraltro, Sassoon scoraggia subito qualsiasi tentativo di comparazione dei nostri anni con un eventuale ritorno del fascismo né vecchio, che in molti luoghi non è morto e mantiene tracce, né nuovo che non riesce a rinascere compiutamente.

Purtroppo, il vecchio che sta morendo è probabilmente la più grande conquista dell’Europa occidentale nel corso della sua storia: lo Stato sociale diventato economicamente insostenibile e politicamente sfidato con persin troppo successo dal neo-liberalismo. C’è anche un vecchio che rinasce e avanza: una miscela fastidiosa e pericolosa di xenofobia, antisemitismo compreso, e di nazionalismo, che neppure il processo di unificazione politica dell’Europa è riuscito a mettere sotto controllo. Al proposito, Sassoon si esercita in severe critiche a quelle che chiama “narrazioni europee” fino a porre l’interrogativo cruciale: L’Europa implode? “… il progetto europeo non è riuscito a conquistare i cuori e le menti di molti. Per diventare centrale nella vita politica, in effetti, l’Unione Europea avrebbe bisogno di maggiori poteri, che non potrà mai avere senza il sostegno degli europei, che non glielo daranno prima che l’Unione abbia conquistato i loro cuori e le loro menti: ecco il palese circolo vizioso in cui si trova l’Unione Europea” (p. 241). Opportunamente, Sassoon mette in evidenza che “gli europei sanno poco gli uni degli altri. … L’unico paese che ciascun cittadino europeo conosce meglio di tutti gli altri sono gli Stati Uniti” (p. 247). Creata intorno alla decisione di sfruttare al meglio le risorse economiche, secondo Sassoon, l’Europa ha sì fatto grandi passi economici avanti, ma attraverso notevoli squilibri cosicché “solo quando il gap economico tra i paesi più avanzati e i ritardatari si sarà ristretto potrà esserci un’Europa sociale più equilibrata. Quel giorno è lontano” (p. 250).

L’altro vecchio che sta morendo e in qualche caso, nella maniera più evidente in Italia, è effettivamente scomparso è un sistema di partiti relativamente stabili, rappresentativi, efficienti. Molto brillantemente Sassoon offre al lettore un excursus sui sistemi di partiti europei evidenziando la comparsa di partiti xenofobi e populisti un po’ ovunque sul territorio europeo e, in particolare, l’indebolimento della socialdemocrazia “tradizionale”. Se, come sostiene, a mio modo di vedere, in maniera molto convincente, una corrente di pensiero politologico, i partiti nascono con la democrazia e le democrazie sono inconcepibili senza i partiti, allora se i vecchi partiti muoiono e i nuovi sono oscuri grumi di xenofobia, nazionalismo, neo-nazismo, le preoccupazioni per le sorti dei diversi sistemi politici democratici non possono che essere enormi.

Fra i morituri Sassoon colloca, se ho capito bene, con qualche riserva, anche l’egemonia americana. Nel passato, “in realtà nessuno ha mai ‘guidato il mondo” e i poteri egemoni lo erano, al massimo, in una regione determinata” (p. 193). Inoltre, l’egemonia richiede leadership politiche all’altezza e Sassoon ritiene che nessuno dei Presidenti USA del dopoguerra abbia avuto le qualità necessarie. “Kennedy fu un presidente di notevole incompetenza” e “Eisenhower … fu un mediocre presidente” (p. 201). Lyndon Johnson fu un disastro in politica estera. “Ultimo, ma non meno importante in questa triste sequela [di incompetenti, in particolare in politica estera], è Donald Trump, che non capisce nemmeno i limiti del potere presidenziale e resterà uno zimbello universale a meno che non scateni la terza guerra mondiale” [eccolo il pericolo adombrato da Papa Bergoglio] (p. 207). Talvolta nel suo irrefrenabile slancio critico, Sassoon va forse troppo in là. Per esempio, quando afferma “gli interventi militari americani, quasi tutti inutili dal punto di vista dell’interesse nazionale del paese, si sono risolti quasi sempre … in disastri” (p. 210), dimentica, credo sbagliando, i due interventi decisivi nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.

Lungo tutto il libro corrono valutazioni durissime e senza sconti ai leader, capi di governo, Presidenti di Repubbliche, ministri di un po’ tutti i paesi. Prevalentemente ignorati, gli unici che se la cavano sono i comunisti cinesi. Per quel che riguarda l’Europa si salva,ovvero Sassoon salva, Jeremy Corbyn che finisce per essere l’unico lodato non soltanto in quanto persona di principi, ma anche per le sue proposte che si collocano in una versione moderata di socialdemocrazia. Naturalmente, al suo confronto, tutti i leader inglesi dai laburisti Tony Blair e Gordon Brown, ma anche Ed Miliband, ai Conservatori, in particolare David Cameron e Theresa May, e soprattutto l’ex-sindaco di Londra e ex-ministro degli Esteri, il Brexiter Boris Johnson (un “buffone”) fanno una figura pessima che non è finita proprio perché la Gran Bretagna continua a sprofondare nella confusissima liquidissima Brexit e non si sa quando e quanto tristemente e costosamente ne emergerà. Fatto un lungo elenco di vecchi leader che ritiene grandi, fra i quali, obietto fortemente all’inclusione di Giulio Andreotti in una compagnia che va da Willy Brandt e Felipe Gonzalez a Helmut Kohl e François Mitterrand, mentre mi spiace di non scorgere Alcide De Gasperi, Sassoon ne trae una considerazione condivisibile: “bisognerebbe dedicare più tempo a esaminare come mai la qualità del personale politico in Occidente sia tanto scaduta”e una valutazione durissima e centrata: “questa è un’epoca di pigmei che dei giganti non hanno alcuna memoria” (p. 240).

Giunto alle ultime pagine di questo libro spumeggiante e stimolante mi sono ritrovato con un interrogativo giustificato anche dalla citazione fatta da Sassoon di un giornalista inglese: “L’ordine internazionale globale sta crollando in parte perché non soddisfa i membri della nostra società” (p. 282). Confesso (mi pare il verbo più appropriato) che i pontefici non sono i miei politologi di riferimento. Papa Bergoglio non fa eccezione neppure quando annuncia, come se fosse un esperto di relazioni internazionali, che “siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli”. Sassoon dà pochissimo spazio, quasi nullo ai rapporti fra gli Stati. Però, la sua valutazione della mediocrità, del narcisismo, dell’ignoranza dei dirigenti politici contemporanei fa temere che fra i “sintomi morbosi” si annidi anche quello che potrebbe inopinatamente portare per futili motivi ad un conflitto devastante dal quale non riesco proprio a intravedere quale “nuovo” farebbe la sua comparsa. Comunque, accetto l’invito conclusivo, fra il Sessantottismo francese e l’attualissimo gramscismo, di Sassoon: “continuiamo a combattere, per quanto morbosi siano i tempi” (p.283).

Pubblicato il 19 marzo 2019 su casadellacultura.it

Salvini, Di Maio e il gioco del fifone. Il commento di Pasquino

Se le Cinque Stelle non riescono ad impadronirsi in maniera credibile della “questione Europa”, sulla quale i due ministri Tria e Conte non riescono a elaborare nessuna linea, che cosa rimane loro? Il commento del professore emerito di Scienza Politica Gianfranco Pasquino

No, nonostante un’accurata rilettura del Contratto di Governo non si è trovata traccia della condivisione del braccio teso a pugno chiuso del Ministro Toninelli. Nel Contratto non sembra esistere neppure la minima presenza del condono di Ischia e meno che mai la ricostruzione del Ponte Morandi, ma, per dare un colpo anche alla botte di Salvini (dopo quello al cerchio di Di Maio), non ci stanno neppure gli inceneritori per ogni prefettura. Comunque, non saranno queste assenze e le relative differenze di opinione a mandare in crisi il governo giallo-verde. Cominciamo con il mettere i puntini sulle molte “i” del contratto e dintorni.

Salvini si è accaparrato due tematiche –in inglese si direbbe “issue ownership”, ma confesso di non sapere come tradurre “ceppa”– che gli italiani continuano a considerare le più importanti: l’immigrazione e la sicurezza, che, per di più, hanno una probabile lunga durata. Si è anche buttato allegramente, forse dovrei dire “coraggiosamente”,contro la Commissione Europea. Continua a sfuggirgli che i Commissari non sono né burocrati né, principalmente, tecnocrati (e neanche banchieri), errore che condivide con le Cinque Stelle. Potremmo scusarlo, il Salvini, da Europarlamentare molto latitante, non ha mai imparato che i Commissari sono tutti uomini e donne con esperienze di governo ai vertici dei rispettivi paesi, spesso dotati di competenze specialistiche. Non possiamo, invece, scusare le Cinque Stelle che, insomma, qualcosina potrebbero studiare e imparare.

“Italians first” è oramai il grido (l’ululato?) di Salvini fino alle elezioni dell’Europarlamento di fine maggio 2019. Le Cinque Stelle non sanno che pesce prendere, chiedo scusa, che posizione assumere nei confronti dell’Europa dove sono molti che ricordano il Di Maio vagante per rassicurare istituti di ricerche, autorevoli quotidiani e quant’altri delle buone intenzioni europeiste delle Cinque Stelle. Nel Contratto di Governo non stanno né l’uscita dall’Euro né quella dall’Unione. Per di più, la Brexit sta offrendo una serie di lezioni, politiche ed economiche, su quanto alto possa essere il costo dell’uscita, anche sulla società e la sua coesione. Ma se le Cinque Stelle non riescono ad impadronirsi in maniera credibile della “questione Europa”, sulla quale i due ministri, non posso trattenermi, “non eletti” da nessuno: Tria e Conte, ma vicinissimi alle Cinque Stelle, non riescono a elaborare nessuna linea, che cosa rimane loro? Il reddito di cittadinanza e quota cento (pericolosamente vicina per quei pochi italiani che ricordano la storia, quindi non elettori penta stellati, all’infausta quota novanta di Mussolini, Benito) per le pensioni (che pagheranno i loro figli, se ne hanno).

Né l’uno né l’altra piacciono agli europei. Sembra che non piacciano, lo dirò con parole antiche, neppure ai ceti produttivi del Nord (dall’Honduras Di Battista agita un’abbronzata risposta rivoluzionaria: “se ne faranno una ragione”). Soprattutto, però, non hanno nessuna possibilità di produrre dividendi né economici né politici in tempi brevi. Nel frattempo, il Salvini ruspante (quello delle ruspe) sta avvicinandosi al raddoppio dei suoi consensi, almeno stando ai sondaggi che, personalmente, ritengo credibili poiché ho fiducia nella professionalità sia di Nando Pagnoncelli sia di Ilvo Diamanti. Pertanto, non ha nessuna intenzione di fare cadere il governo, il luogo migliore per continuare le sue esibizioni muscolari e la sua crescita di apprezzamenti. Se li risolvano le Cinque Stelle i problemi dei dissenzienti e quelli dei rimpasti. Incidentalmente, tutto normale non solo nella Prima Repubblica, ma in tutte le democrazie parlamentari, come non cessa di insegnare Westminster, la madre di tutti i parlamenti. Loro non si faranno fermare. Tireranno diritto. Anche l’Unione Europea tirerà diritto. Si chiama “chicken game”, gioco del fifone, reso famoso da James Dean in “Gioventù bruciata”. Il prezzo lo pagheranno, first, the Italians.

Pubblicato il 17 novembre 2018 su formiche.net

Quell’antico monito di Bobbio

“Testimonianze”, LUGLIO-AGOSTO 2018, n. 520, pp. 64-68

È arrivata l’ora dell’autocritica non come vezzo degli intellettuali radical-chic, della sinistra al caviale o altre piacevolezze, ma perché una autocritica condotta a fondo è un esercizio pedagogico decisivo. Dagli errori si impara e diventa possibile andare oltre. Se è emersa una crisi della rappresentanza, se è cresciuto il divario fra società e politica, se i populisti attaccano con qualche successo l’establishment, se l’euroscetticismo è diventato più diffuso dell’accettazione, peraltro mai entusiastica, dell’Unione Europea, se sono comparse nuove diseguaglianze, quanti di questi fenomeni gli studiosi avevano previsto, quanti sono giunti del tutto inaspettati, come è possibile cercare di porvi rimedio?

Tre fenomeni di grande respiro e di enorme impatto hanno ridisegnato la storia dell’Europa e del mondo negli ultimi trent’anni: primo, crollo del comunismo che sembrava realizzato nell’Europa centro-orientale e in Unione Sovietica e fine del richiamo della sua ideologia, ma, come Norberto Bobbio mise immediatamente in rilievo, nessuna scomparsa dei problemi e delle ingiustizie alle quali il comunismo aveva inteso porre rimedio, e, oggi sappiamo, ritorno alla superficie di nazionalismi beceri; secondo, allargamento e approfondimento (con qualche limite) del processo di unificazione politica dell’Europa; terzo, affermazione in ogni angolo del mondo, seppure con qualche differenza di intensità, della globalizzazione. Non è facile tenere insieme questi tre fenomeni e offrirne un’analisi e una spiegazione unitari, ma è importante individuare le connessioni e, di volta in volta, gli errori interpretativi. Consapevole della difficoltà di una precisa datazione, comincerò dalla globalizzazione poiché, praticamente per definizione, è il fenomeno più comprensivo.

Fin dall’inizio, vale a dire, dal momento che emerse la consapevolezza che determinati processi, in particolare, economico-finanziari, penetravano sostanzialmente non filtrati e non controllati in tutti i sistemi politici del mondo e altri processi, quelli relativi alla comunicazione, non solo politica, acuivano la sensibilità di governanti e cittadini e accrescevano le informazioni disponibili, seppure in maniera differenziata, un po’ a tutti i protagonisti, la globalizzazione ebbe suoi numerosi. Erano e sono rimasti un gruppo molto composito nel quale sembrano tuttora predominare i protezionisti e i comunitaristi. Le motivazioni dei primi riguardano soprattutto la sfida alle attività economiche del loro paese, alle industrie, all’agricoltura, ai lavoratori dipendenti. Si sono tradotte nell’opposizione al libero commercio che, invece, è considerato dalla maggior parte degli economisti come uno dei motori fra i più potenti della crescita economica. Certo, il libero commercio associato alla globalizzazione ha avuto conseguenze distruttive per alcune attività e creato forti tensioni sociali. I dati mondiali, dal canto loro, rilevano e rivelano una maggiore disponibilità di risorse, ma, solo di recente hanno messo in rilievo che la ricchezza complessiva si è accompagnata alla crescita delle diseguaglianze anche sociali all’interno di molti paesi.

Quanto ai comunitari, quasi tutti loro associano, in larga misura correttamente, la globalizzazione al multiculturalismo, opponendosi ad entrambi. Vogliono proteggere stili e modalità di vita, culture specifiche, identità dei più vari generi. Ne sottolineano l’importanza e, di conseguenza, contrastano visioni e prospettive multiculturali acritiche. No, multiculturalismo non è bello. Anzi, secondo i comunitari il multiculturalismo è una sfida portatrice di tensioni e di conflitti, foriera di perdita di identità e di sfaldamento di comunità che lasceranno/lascerebbero tutti, nient’affatto arricchiti dalle diversità, ma culturalmente più poveri e “spaesati”. A questa sfida, al tempo stesso economica e identitaria, in alcuni paesi coinvolti forse più di molti altri nel processo di globalizzazione poiché vere e proprie società aperte, come la Svezia, come la Gran Bretagna, come gli USA, hanno fatto seguito reazioni sconcertanti. Ne sono testimonianza possente e inquietante il successo elettorale dei Democratici Svedesi, partito sicuramente xenofobo e identitario, la Brexit prodotta dal referendum del giugno 2016, la conquista della Presidenza di Donald Trump nel novembre 2016 all’insegna del motto “America First”.

L’elemento che accomuna queste esperienze è costituito dalla mobilitazione non organizzata di coloro che potrebbero essere definiti i perdenti della globalizzazione o che si ritengono tali. Che i voti decisivi siano venuti da uomini bianchi del Nord dell’Inghilterra, Liverpool, Manchester, Newcastle, mentre Londra ha votato con elevate percentuali per restare nell’Unione Europea; che siano stati migliaia di operai bianchi del Michigan, della Pennsylvania, del Wisconsin, malauguratamente, ma in maniera rivelatrice, definiti deplorable dalla candidata Hillary Clinton; che nella Svezia, da molti giustamente considerata una (social)democrazia di grande successo, più del 10 per cento di elettori dia il suo voto ad un partito deliberatamente anti-europeo e xenofobo non sono accadimenti che possono essere liquidati scrollando le spalle e, nei due casi anglosassoni, sostenendo che quegli elettori hanno semplicemente sbagliato e se ne accorgeranno. Forse se ne accorgeranno, ma a fondamento del loro voto stanno motivazioni che non sono affatto deplorevoli e transeunti.

Non sarà il miglioramento, peraltro non facile e non scontato, delle loro condizioni di vita a produrre il cambiamento delle loro opzioni di voto. Né il cambiamento del voto risolverà problemi che sono identitari e culturali. Nel caso degli USA la capacità di mettere insieme le minoranze, afro-americani, latinos, donne (sic), potrà servire ai Democratici per vincere qualche elezione, persino per tornare alla Presidenza, ma non migliorerà la politica e neppure la società. Il grido Black Lives Matter non perderà il suo significato contro il razzismo persistente e strisciante. La preoccupazione per la crescente presenza di latinos con i loro stili di vita, la lingua, il tipo di legami familiari, non verrà meno. Le varie diseguaglianze, che non hanno soltanto una, importantissima, componente economica, ma che si traducono in una visione di società, non saranno neppure affrontate se non si approntino le politiche opportune. Non saranno certamente i banchieri della City di Londra e i brokers di Wall Street, i signori della tecnologia della Silicon Valley e le donne e gli uomini dell’establishment della East Coast a presentarsi credibilmente come coloro in grado di rappresentare quei settori sociali, di proteggere le identità e di operare per contenere e ridurre le diseguaglianze.

Nessuno riuscirà a sostenere convincentemente la tesi che bisogna dare risposte che riguardano i diritti, di ogni tipo, in particolare quelli riguardanti gli orientamenti sessuali, sottovalutando le diseguaglianze in termini di riconoscimento e di opportunità, di sostenere che prima vengono le diversità, poi le ricompense, di considerare che lo ius soli è più importante e più qualificante del diritto al lavoro. La sinistra che non agisce prioritariamente per ridurre le diseguaglianze ha perduto, sosterrebbe Norberto Bobbio, la sua ragion d’essere, la sua anima. La sinistra continuerà anche a perdere consistenza e rilevanza politica a fronte delle sfide diversamente populiste che hanno fatto la loro comparsa un po’ dappertutto in Europa (e altrove). È fra gli Stati-membri dell’Unione Europea che, a sessant’anni dal Trattato di Roma, i populismi sembrano avere trovato accoglienza migliore e spazi più ampi.

I populisti vanno alla ricerca e alla conquista di coloro che ritengono sia più importante preservare e celebrare l’identità nazionale, se non addirittura quella locale, piuttosto che ottenere quei vantaggi economici, la cui esistenza peraltro negano, che derivano dall’apertura alla globalizzazione e al libero commercio. I populisti mobilitano quello che considerano il “loro” popolo, mai tutto il popolo, contro l’establishment. Lo definiscono e lo ridefiniscono sostenendo di essere i soli in grado di rappresentarlo contro l’Europa dei banchieri e dei tecnocrati. Vogliono offrirgli protezione contro le ondate di migranti che non solo potrebbero rubargli il lavoro, ma che minacciano i loro stili di vita, le loro credenze religiose, le prospettive della loro prole. È stato profondamente sbagliato sottovalutare questi sentimenti, ritenendoli un retaggio del passato in via di superamento e, peggio, criticandoli come segno di arretratezza e deridendoli.

In qualche convegno a Davos, in riunioni ristrette a Bruxelles, a un vernissage parigino, nel foyer di un teatro londinese, ad una prima della Scala, forse anche alla Freie Universität di Berlino è molto facile trovarsi d’accordo sul fatto che l’Unione Europea è un grande progetto di unificazione politica che sta mettendo insieme una pluralità di culture a partire da una base che si dice essere comune (ma, talvolta, mi chiedo che cosa unisca Dante e Shakespeare, Leonardo e Picasso, Miguel de Cervantes e Franz Kafka, Thomas Mann e Albert Camus), da una storia condivisa, ma intessuta di conflitti e di guerre civili, da prospettive ancora adesso nient’affatto precisamente definite. A fronte delle molte irrisolte problematiche economiche, di creazione e di distribuzione della ricchezza che non hanno ridotto vecchie diseguaglianze e ne hanno prodotte di nuove, la risposta in termini di cultura non è finora sembrata adeguata. Ha aperto spazi ai sovranisti che non sono stati contrastati convincentemente facendo notare che è molto improbabile che qualsiasi singolo Stato europeo riesca da solo a risolvere i problemi prima e meglio di quanto faccia l’Unione Europea. È una lezione che persino la pur grande e efficiente Gran Bretagna sta imparando a sue spese, che non saranno controbilanciate in toto dall’accentuazione tutta “culturale” dell’identità: la Britishness.

Il senso complessivo della mia riflessione su globalizzazione, Unione Europea e diseguaglianze può essere condensato in due considerazioni e due conclusioni. La prima considerazione contiene anche una personale autocritica. Ho creduto che tanto la globalizzazione quanto l’Unione Europea fossero processi in grado di produrre e offrire maggiori opportunità senza lasciare indietro nessuno, tranne per poco tempo, che i costi di entrambe sarebbero stati distribuiti in maniera relativamente equilibrata fra tutti i settori sociali, pur implicando vantaggi, sperabilmente non eccessivi, per coloro che già sono privilegiati. Non è stato così. La seconda considerazione ugualmente da accompagnarsi con una modica dose di necessaria autocritica è che, affidate le problematiche economiche alla competitività e al mercato della globalizzazione e dell’Unione Europea, ho creduto che tutti gli aspetti di cultura e di identità fossero, per così dire, da un lato, “privatizzabili”, vale a dire, risolvibili in proprio dai vari gruppi oppure, questo, sicuramente, errore più grave, superabili con l’ascesa del repubblicanesimo delle regole e dei diritti delle persone. Non soltanto alcune delle tematiche identitarie si sono dimostrate irriducibili, ma sono anche risultate non negoziabili e i loro portatori non saranno, almeno nel loro e nel nostro tempo di vita, soddisfatti da nessuno scambio: “più risorse economiche meno accento su identità”, meno che mai se riguarda le loro famiglie e i loro figli.

La prima delle due code riguarda direttamente le elaborazioni e le attuazioni della sinistra ovvero il suo lento graduale, ma apparentemente inarrestabile scivolamento verso posizioni incapaci di comprendere quanto nella vita delle persone contino gli elementi di comunità in senso lato: con chi si vive, con chi si lavora, quali nostalgie legittime si hanno per il passato, quali aspettative di cambiamento prevedibile per il futuro, ma anche quali siano le distanze sociali e le diseguaglianze prodotte dalla globalizzazione. La seconda coda è data dalla constatazione che non sono emerse personalità in grado di elaborare una narrativa di ampio respiro e di profondità della globalizzazione e di svolgere il compito di leadership a livello europeo. La mancanza nelle democrazie europee e negli USA di leadership dinamiche e capaci di disegnare il futuro, innovative e empatiche, è un vero e proprio dramma contemporaneo. Non sono alla ricerca di personalità carismatiche, ma di predicatori appassionati, credibili, capaci di delineare un percorso condiviso per popoli e per persone. Consapevole che quanto ho qui scritto è poco più di un insieme di spunti schematici, suscettibili di una molteplicità di approfondimenti, mi auguro che siano degni di attenzione e mi ripropongo di rivisitarli e ampliarli.