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Discutere il futuro dell’Europa si può (e si deve) #CoFoE con @rsantaniello @rivistailmulino

Chi continua a battere il tasto del «deficit democratico» a livello di Unione o non conosce le istituzioni europee o è in malafede. Molto va aggiustato, ma l’Unione europea resta uno straordinario esperimento di democrazia

di Gianfranco Pasquino e Roberto Santaniello per rivistailmulino.it

Spesso accusata a torto di soffrire di un deficit democratico, l’Unione europea ha programmato una Conferenza sul futuro dell’Europa che si avvierà il 9 maggio, festa dell’Europa. Una data che coincide con l’anniversario della dichiarazione dell’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman che nel 1950 propose la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), considerata la madre di tutte le istituzioni dell’Europa unita.

La Conferenza, prevista inizialmente per la primavera 2020, ma ritardata a causa della crisi pandemica, si basa su una dichiarazione tripartita firmata il 10 marzo scorso da David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, Antonio Costa, attuale presidente del Consiglio dell’Unione europea e da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, si intitola: Dialogo con i cittadini per la democrazia. Costruire un’Europa più resiliente. In essa si descrivono i principi dell’organizzazione e delle modalità di lavoro della Conferenza.

L’obiettivo dichiarato è quello di conferire ai cittadini un ruolo più incisivo nella definizione delle politiche e delle ambizioni dell’Unione europea grazie a uno spazio di incontro pubblico nel quale si svolga «un dibattito aperto, inclusivo, trasparente e strutturato con i cittadini europei sulle questioni che li riguardano e che incidono sulla loro vita quotidiana». Gli argomenti da trattare sono dettati in parte dalla situazione attuale: la salute e i cambiamenti climatici; in parte dalle sfide a cui è confrontata l’Unione europea: equità sociale e trasformazione digitale; in parte da problemi strutturali: ruolo dell’Unione nel mondo e rafforzamento dei processi democratici che governano l’Europa. La scelta degli argomenti e il loro approfondimento dipenderanno dalle preferenze espresse dai cittadini europei che parteciperanno alla conferenza.

La dichiarazione tripartita prevede, inoltre, la governance della Conferenza che è stata conferita a un Comitato esecutivo, organismo coadiuvato da una segreteria comune e composto da rappresentanti di Parlamento, Consiglio e Commissione, che esercitano congiuntamente la presidenza, e da un certo numero di osservatori provenienti dalle altre istituzioni europee.

Oltre alle plenarie, è prevista l’organizzazione di panel tematici, che coprono l’insieme delle questioni oggetto della Conferenza. I dibattiti nazionali ed europei, da cui scaturiranno idee e proposte, saranno alimentati grazie a una piattaforma digitale multilingue interattiva, allo scopo di diffondere le informazioni necessarie a svolgere una discussione la più ampia possibile. I panel di cittadini europei hanno lo scopo di dare vita a forme e modalità di discussione delle proposte e di valutazione del loro impatto, note come democrazia deliberativa. Le sessioni plenarie avranno cadenza semestrale con il compito di stilare un bilancio degli esiti già conseguiti e a (ri)orientare le discussioni successive. Infine, è prevista una sessione plenaria finale che si concluderà nella primavera del 2022. Da sottolineare, che anche i Parlamenti nazionali invieranno loro rappresentanti in qualità di osservatori.

Come si può vedere, si tratta di un esperimento di discussione transnazionale aperta alla partecipazione di milioni di persone che non ha precedenti. Da un lato, ambiziosissimo; dall’altro, segnale straordinariamente importante di fiducia nella democrazia e nelle sue pratiche. Si incrocerà inevitabilmente con l’attuazione del programma Next Generation Eu, forse contribuendo ad aggiustamenti probabilmente dandogli ancora maggiore vigore. L’Unione europea scommette su sé stessa, sulla capacità di trovare al suo interno le risorse intellettuali e politiche per aprire una nuova fase, di ripresa e di rilancio.

La Dichiarazione comune sul futuro dell’Europa contiene esplicitamente impegni di notevole importanza, che si compenetrano. Come si è visto, il dialogo sulla democrazia con i cittadini è la premessa per costruire un’Europa più resiliente. Ma come sarà possibile contrastare le critiche alle carenze di democrazia nell’Unione e chiarire le modalità attraverso le quali l’Unione riuscirà a diventare e rimanere davvero più resiliente?

Troppo spesso l’Unione europea è accusata di avere notevoli deficit democratici. Tout court di non essere democratica, tanto che qualcuno ha sostenuto che una sua ipotetica domanda di accesso sarebbe respinta perché non rispetterebbe i criteri che l’Unione europea impone ai «pretendenti». Giusto che il dibattito sulla democraticità dell’Unione sia aperto, ma merita di essere molto meglio presentato e discusso. La nostra posizione è che, a prescindere da molte considerazioni, l’Unione europea è comunque una democrazia in the making, in corso d’opera.

È innegabile che l’Ue abbia quasi tutte le caratteristiche proprie delle democrazie liberali, essendo nei fatti il più grande spazio di diritti esistente al mondo. Non solo i cittadini europei godono della più ampia gamma possibile dei diritti civili, ma anche di tutti i diritti politici: votare e essere votati, fare propaganda politica e costruire organizzazioni politiche dei più vari tipi, criticare e contestare la stessa esistenza dell’Ue. Inoltre, questi diritti sono protetti e promossi in maniera impeccabile, troppo spesso sottovalutata e talvolta addirittura ignorata, dalla Corte europea di giustizia. Lungi dall’essere un super-Stato oppressore, l’Unione europea è in realtà uno Stato dotato delle essenziali caratteristiche liberali.

I critici sostengono che il deficit sta nella limitata democraticità delle sue istituzioni, un punto che merita una riflessione limpida e approfondita. In estrema sintesi, il Consiglio è composto dai capi di governo degli Stati. Ciascuno di loro è tale perché ha aggregato a suo sostegno la maggioranza assoluta degli elettori del proprio Stato. Se perde quella maggioranza viene regolarmente e democraticamente sostituito da chi comunque è sostenuto da un’altra maggioranza. Quindi, non è corretto porre in discussione la legittimità di ciascuno dei componenti del Consiglio né del Consiglio stesso nella sua interezza. Debbono, invece, essere prese in seria considerazione le critiche rivolte alle modalità di funzionamento del Consiglio, in particolare, la necessità di votazioni all’unanimità. Pur essendosi ridotto l’ambito delle materie sulle quali è richiesta l’unanimità, questa modalità di votazione (la cui democraticità è del tutto discutibile poiché attribuisce enorme potere a un solo componente), permane per quel che riguarda materie come la politica estera e di sicurezza, la fiscalità e le questioni sociali rendendone molto difficile il ridimensionamento. Quanto ai capi di governo che difendono interessi nazionali, questo semmai è un deficit di europeismo attribuibile ai comportamenti di quei capi di governo che poco ha a che vedere con la democrazia nell’Unione europea.

Non soltanto il Parlamento europeo è l’istituzione democratica per eccellenza nel circuito delle istituzioni dell’Unione, ma è quella che nel corso del tempo ha acquisito maggiore centralità e poteri. Istituzione che garantisce rappresentanza ai cittadini europei da loro eletto, quindi, pienamente legittimato, dai numeri del Parlamento nasce la presidenza della Commissione, dalle udienze conoscitive viene saggiata la qualità dei diversi commissari in quanto a competenza, affidabilità e europeismo, dal voto del Parlamento viene insediata la Commissione nella sua interezza, da quel voto la Commissione è anche sfiduciabile.

Ciò detto e sottolineato, è opportuno prendere in considerazione alcune critiche. La prima molto nota e persino eccessivamente ripetuta è che le elezioni del Parlamento europeo sono di «secondo grado», vale a dire ritenute dagli elettori meno importanti delle elezioni nazionali (di primo grado). La seconda è che sono «combattute» prevalentemente su tematiche nazionali piuttosto che su tematiche effettivamente europee. La terza è che l’affluenza complessiva dei cittadini europei alle urne è piuttosto bassa, oscillando intorno al 50% (nel 2019), comunque nettamente inferiore a quelle delle rispettive elezioni nazionali. Solo in parte queste inadeguatezze, che non giustificano l’accusa di deficit democratico, riguardano la democraticità dell’Unione europea. Piuttosto riguardano i partiti nazionali in attesa che decidano di trasformarsi in autentici partiti transnazionali, a condizione ovviamente che riescano a farlo.

Con i suoi componenti designati dai capi di governo riuniti nel Consiglio europeo, anche se poi «fiduciati» dal Parlamento, la Commissione non può ovviamente godere di legittimità democratica direttamente espressa dai cittadini europei. Tuttavia, farne, con espressione che contiene una valutazione fortemente negativa, un organismo asetticamente tecnocratico (irresponsabile, privo di riferimenti) è del tutto sbagliato. La Commissione è composta da uomini e donne, spesso con competenze di alto livello, ma anche con una biografia politica tutt’altro che irrilevante che include una loro propensione europeista positivamente valutata dal Parlamento europeo al momento della loro nomina. Quanto alla responsabilizzazione politica, tutti i commissari sanno di dovere rispondere del loro operato al Parlamento europeo. Infine, dalle loro memorie e dalle loro dichiarazioni, è possibile accertare che la grande maggioranza di loro ha inteso spogliarsi delle proprie appartenenze nazionali per interpretare e dare forma a (parafrasando de Gaulle) «una certa idea di Europa».

Se, dunque, è possibile sostenere che il deficit democratico dell’Unione europea non può essere fatto risalire alle modalità con le quali le sue istituzioni vengono formate, persistendo le critiche diventa essenziale guardare in maniera più approfondita al loro funzionamento. Due critiche appaiono di una certa consistenza.

La prima riguarda una eccessiva apertura a una molteplicità di interessi organizzati, con quelli più forti che hanno maggiori possibilità di influenza sulle decisioni. L’ansia di includere il maggior numero di interessi nelle procedure decisionali, attuata attraverso varie forme tra cui le consultazioni pubbliche, incide sui tempi e sulla qualità del prodotto. A ciò si aggiunge il processo conosciuto come «comitatologia», utilizzato per l’adozione della legislazione di dettaglio, che rischia di favorire gli interessi dei più forti e a tale scopo dovrebbe (potrebbe) essere oggetto di maggiore trasparenza e di una più severa selezione degli interessi.

La seconda critica attiene alla burocratizzazione delle modalità di funzionamento delle Direzioni generali della Commissione europea con il cosiddetto acquis communautaire che sembra giustificare la continuità («si è sempre fatto così») e al tempo stesso finisce per tarpare sul nascere qualsiasi innovazione. Malgrado la riforma attuata dalla coppia Prodi-Kinnock nel 2000, queste critiche persistono e sollecitano maggiori innovazioni amministrative.

Di recente è emersa una terza critica, più sottile e insidiosa, che riguarda, per ragioni che in parte discendono dalle prime due, l’opacità dei processi decisionali. Per chi ritiene che la democrazia debba vivere e agire in una casa di vetro, l’oscurità del castello europeo impedisce di vedere chi, come, con quali informazioni e con quali intenzioni, prende le decisioni e quindi di ritenerlo responsabile anche per poterne correggere compiacenze, insufficienze e errori. Anche se l’introduzione prevista dal Trattato di Lisbona della possibilità per un milione di elettori europei cittadini di almeno otto Stati membri di sollecitare iniziative legislative da inserire nell’agenda dell’Unione su tematiche importanti evitate o trascurate dagli organismi decisionali dell’Unione, è un passo importante nella direzione giusta, altre misure meritano di essere pensate e congegnate.

Se la Conferenza sul futuro dell’Unione europea che sta per partire è fatta anche per ottenere maggiore coinvolgimento e più ampia e incisiva partecipazione dei cittadini europei, allora i compiti della sburocratizzazione, della trasparenza, della responsabilità di decisioni e non-decisioni dovranno figurare in maniera esplicita sull’agenda. Dovranno, in definitiva, costituirne parte molto rilevante.

Rivista il Mulino 2021
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L’Unione Europea c’è e funziona

Ho sempre sostenuto e, per fortuna, anche scritto (quindi, è possibile controllare la veridicità delle mie affermazioni) che l’Unione Europea, persino nei momenti di maggiore difficoltà, non rimaneva mai bloccata. Faceva regolarmente dei passi avanti, piccoli, lenti, zoppicanti, ma avanti. Non si trovava mai a scegliere fra la disastrosa disgregazione e riforme epocali, le sole che la salvassero. Ho sempre sostenuto anche che l’Unione Europea e le sue istituzioni non soffrivano/soffrono affatto di insuperabili deficit democratici, ma hanno alcuni problemi di funzionalità. Il Consiglio Europeo* 17-20 luglio ha detto molte cose importanti (per quel che riguarda importanza e entità delle risorse economiche esauriente è l’intervento di Paolo Onofri che condivido in toto), ma soprattutto ha segnalato che le istituzioni dell’Unione funzionano. La Commissione Europea, fatta da uomini e donne con precedenti esperienze di governo anche ai massimi livelli nei loro paesi, quindi non “burocrati” né, in larga misura, tecnocrati, ha formulato, suo compito politico fondamentale, una proposta. Dopo un necessariamente lungo negoziato, quella proposta è stata quasi totalmente accettata, con variazioni minime sulla distribuzione dei fondi. Il Consiglio Europeo, sicuramente un organismo democratico poiché composto dai capi di governo degli Stati-membri, i quali, dunque, hanno una maggioranza politica che li sostiene nei loro paesi, ha lungamente discusso, alla fine approvando senza nessun dissenso. Inoltre, è stata respinta la richiesta del Premier olandese Mark Rutte che voleva che i prossimi piani di ripresa dei singoli Stati fossero approvati dal Consiglio all’unanimità.

Come procedura decisionale l’unanimità non è assolutamente democratica. Da un lato, consente ad uno stato di esercitare enorme potere di ricatto nei confronti di tutti gli altri; dall’altro, implica che gli altri Stati sarebbero talvolta costretti a “comprare” quel voto con concessioni costose, privilegi, favoritismi sostanzialmente diseducativi. Si è, però, concesso ad uno Stato il potere di bloccare il programma di un altro Stato, freno di emergenza, ma l’ultima parola in materia di utilizzo dei fondi spetterà alla Commissione che ha la facoltà di decidere a maggioranza. Incidentalmente, in tutta la sua storia la Commissione e i Commissari si sono dimostrati i protagonisti più europeisti, tutti disposti a lavorare per fare avanzare il processo di unificazione politica dell’Europa. Fondi assegnati, programmi di utilizzo, valutazione complessiva del grado di successo conseguito nel tentativo di porre rimedio alle gravissime ferite economiche e sociali inferte dalla pandemia agli Stati e alla società europea saranno oggetto di discussione e di monitoraggio anche ad opera del Parlamento europeo. È giusto così poiché, anche se ci rammarichiamo di una partecipazione elettorale inadeguata, il Parlamento è il luogo della rappresentanza politica degli europei che produce informazioni, coadiuva l’attività della Commissione, approva il bilancio dell’Unione.

Il quadro complessivo è quello di istituzioni che sanno adempiere ai loro impegni, che riescono spesso ad andare oltre l’intergovernativismo, che hanno dimostrato di saper praticare la solidarietà e la cooperazione. Il sovranismo, ovvero la strategia per la quale ciascun Stato-membro cerca di strappare il massimo senza concedere nulla, ne esce sonoramente sconfitto. I sovranisti alzano la voce perché sono costretti ad abbassare la cresta. Gli europeisti sanno che l’opera è lunga, ma che è giusto godere il successo attuale che non sarà quello di una sola estate. Riguardatevi: l’Unione Europea è al vostro fianco.

Pubblicato il 20 luglio 2020 su paradoxaforum.com

* Consiglio europeo straordinario, 17-21 luglio 2020

Dall’Unione Europea una lezione di solidarietà e democrazia

Quattro giorni di intensi e aspri negoziati fra i capi di governo degli Stati-membri dell’Unione Europea hanno condotto ad un esito positivo che quasi nessun commentatore credeva possibile. La grande soddisfazione per quanto ottenuto dall’Italia, anche grazie alla pazienza e all’intransigenza del Presidente del Consiglio Conte, non deve mettere in ombra quanto ottenuto dall’Unione Europea anche grazie alla inaspettata abilità negoziale del belga Charles Michel, Presidente del Consiglio Europeo. L’Italia ha ottenuto complessivamente 209 miliardi di Euro, 82 miliardi come sussidi e 127 sotto forma di prestiti, che equivalgono all’incirca a quattro leggi finanziarie. Conte torna a Roma vincitore, ma sapendo di avere un compito molto impegnativo da affrontare (e risolvere) in tempi rapidi e ristretti. Deve formulare programmi il più possibile precisi relativamente ai settori nei quali investire quei fondi, chiarendo i tempi e costi di realizzazione. Su un punto almeno i capi di governo degli Stati autodefinitisi frugali avevano (hanno) ragione, nelle riserve sulla capacità e sull’efficienza degli italiani di mettere a buon frutto i fondi di provenienza europea. Personalmente più credibile di molti suoi predecessori, adesso Conte deve dimostrare di essere politicamente efficace.

Lo scetticismo, anche di molti commentatori europeisti, riguardo alle probabilità di successo di una Unione che veniva data in crisi e paralizzata da veti incrociati, è stato sonoramente sconfitto. Anzi, è importante sottolineare quanto brillantemente hanno funzionato le istituzioni europee. La Commissione, il vero motore dell’Unione, aveva fatto una proposta molto ambiziosa e non ha mai dato segni di cedimento. Nel Consiglio i capi di governo hanno espresso le loro posizioni anche molto divergenti, ma attraverso una aspra conversazione democratica sono giunti alla decisione finale che, oltre all’approvazione scontata della Commissione, dovrà passare, come ha ricordato il Presidente David Sassoli, dal Parlamento europeo.

Conte e altri capi di governo hanno sventato un’iniziativa di Mark Rutte e di altri “frugali” intesa a sottoporre al controllo del Consiglio quanto gli Stati faranno con i fondi ricevuti. Secondo Rutte, il Consiglio avrebbe dovuto esprimersi con voti all’unanimità che, in pratica, significherebbe dare un non democratico potere di veto ad un solo stato contro tutti gli altri ventisei. Invece, il monitoraggio sui programmi e sulle spese degli Stati spetterà alla Commissione, salvo la possibilità di una maggioranza qualificata dei due terzi dei capi di governo di fare ricorso, nei casi di inadempimenti, al cosiddetto “freno di emergenza”, bloccando l’erogazione dei fondi.

Nel momento più difficile della sua oramai settantennale storia, l’Unione Europea si è dimostrata all’altezza delle sfide e, zittendo i sovranisti, non solo italiani, rivelando sapervi fare fronte con procedure democratiche e solidarietà. È una lezione beneaugurante che si proietta nel futuro.

Pubblicato AGL il 22 luglio 2020

Per rilanciare l’Unione europea

La riunione del Consiglio Europeo che si terrà venerdì 17 e sabato 18 ha straordinaria importanza poiché affronta una situazione di straordinaria difficoltà. I capi di governo dei ventisette Stati membri dell’Unione e la presidente della Commissione Europea sono chiamati a impostare il bilancio dell’Unione per i prossimi sette anni e a decidere l’entità del Recovery Fund, dei fondi in parte prestiti (loans) in parte sussidi (grants) da assegnare ai diversi paesi. Se fosse accettata in toto la proposta della Commissione l’Italia otterrebbe circa 170 miliardi di Euro su un totale di 750 miliardi. Senza esagerare nelle differenze e distanze, all’inizio del negoziato esistono due posizioni, quella italiana, in buona misura condivisa da Francia, Spagna e Portogallo e dalla Cancelliera Merkel, presidente del semestre europeo fino alla fine di dicembre, e quella dei sedicenti (cioè, così si sono definiti loro) paesi “frugali”: Olanda, Austria, Svezia, Danimarca.

Il Presidente del Consiglio Conte ha impostato le sue richieste intorno a due premesse: prima, l’assegnazione dei fondi deve essere rapida e abbondante per rilanciare le economie di tutti i paesi; seconda, il principio fondamentale deve essere la solidarietà che implica che la ripresa economica dei paesi più colpiti apporterà benefici anche ai paesi frugali e persino alla Germania. A cominciare dal Primo ministro olandese, Mark Rutte, che si è dato il ruolo del duro di turno, l’impostazione concorrente è che i paesi accusati di essere “spendaccioni” non debbono essere premiati con sussidi da non rimborsare, ma debbono essere richiamati a mettere ordine nelle loro economie e nella loro governance. Potranno avere prestiti, ma non soldi a fondo perduto, sulla base di programmi chiaramente delineati lungo le linee elaborate dalla Commissione: economia verde, digitale e inclusiva.

É opinione molto diffusa che questo primo incontro non porterà ad una decisione. Quello che conta, però, è di quanto le distanze si ridurranno, quando si terrà il prossimo incontro e a chi saranno affidate le decisioni e l’attuazione del piano di ripresa e rilancio. Mai come in questa situazione si può affermare che “il tempo è denaro”. La Cancelliera Merkel e con lei la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen puntano a chiudere entro luglio. Comunque i fondi non potranno arrivare prima del gennaio 2021. Poiché in Consiglio si voterà è importante sapere che saranno necessarie maggioranze qualificate (e non l’unanimità) per costruire le quali la capacità negoziale di Angela Merkel, la sua pazienza e, naturalmente, l’autorità che le deriva dall’essere alla guida del paese più forte, possono risultare decisive. Credo che il Consiglio andrà nella direzione desiderata dall’Italia (e non solo). Il quanto dipenderà dalle argomentazioni di Conte e dalla sua capacità di convincere che l’Italia ha progetti quasi pronti e fattibili per i quali spendere i fondi che le saranno assegnati. Ancora una volta entrerà in gioco la credibilità politica e personale.  Così sia.

Pubblicato AGL il 16 luglio 2020

Le gambe corte dei sovranisti dello stivale @EURACTIVItalia

Il sovranismo è poca dottrina e molta pratica deludente. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sostengono che l’Italia ha colpevolmente ceduto parte della sua sovranità oppure che, altrettanto colpevolmente, se n’è fatta espropriare dai burocrati e dagli eurocrati di Bruxelles. Su queste affermazioni senza fondamento hanno conquistato voti, ma non sono in grado di elaborare una dottrina. “Prima gli italiani” è affermazione vaga e propagandistica. Contiene di tutto un po’ tranne che un progetto. Nella pratica va subito a cozzare con “Prima gli Ungheresi”, “Prima i Polacchi” e, naturalmente, “America, first”. Però, l’America è lontana, molto più lontana della Russia di Putin, amico e, forse, in qualche modo, finanziatore della Lega. Invece, ungheresi e polacchi, i “veri” finlandesi, i “democratici” svedesi, i “fortunosi” olandesi e via via tutti i sovranpopulisti dell’Europa contemporanea non sono amici. Inevitabilmente, costitutivamente, i sovranisti non possono trovare alleati a livello sovranazionale se non in chiave negativa: contro, per l’appunto, coloro che perseguono politiche di coordinamento e collaborazione che tentano di combinare interessi e preferenze, valori e obiettivi in partenza “nazionalmente” diversi.

Salvini e Meloni queste modalità di accordi con le loro controparti sovraniste non le hanno trovate, e non soltanto per loro personale incapacità. Con la sua Forza Italia, Berlusconi si era trovato regolarmente in contrasto con i Popolari Europei, del cui gruppo nel Parlamento europeo pure faceva parte (grazie ai suoi molti “numeri”, ma mi concedo di non essere più preciso…). Nei suoi non luminosissimi anni di governo, Berlusconi si era spessissimo trovato in contrasto con la Commissione Europea, in chiara minoranza nel Consiglio Europeo, critico delle scelte che venivano fatte fino ad attribuire la sua fuoruscita dal governo nel 2011 ad un complotto metà “europeo” metà ordito dal Presidente francese Nicholas Sarkozy e dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel. Da qualche tempo, non saprei con quale credibilità, Berlusconi sembra essere diventato l’anima europeista del centro-destra italiano. In una certa misura questa (ri)conversione è dovuta ad Antonio Tajani. Infatti, come potrebbe l’ex-Presidente del Parlamento europeo manifestare atteggiamenti anti-europeisti? Con quale coerenza politica e personale potrebbe schierarsi contro scelte e politiche che i Popolari europei (a cominciare dalla democristiana Ursula von der Leyen) formulano, appoggiano e approvano, contribuiscono ad attuare? Berlusconi deve anche avere pensato che con la sua posizione di europeista può attirare voti di elettori italiani conservatori, ma non anti-europei. Anche a Forza Italia manca, però, una qualsiasi elaborazione culturale relativa all’Europa che vogliono.

Ciò detto, è la dura lezione dei fatti che si è abbattuta, attraverso il Coronavirus, sulla Lega e su Fratelli d’Italia nonché, naturalmente e giustamente, anche sugli altri sovranisti del continente. Da solo, nessun paese si risolleverà facilmente, meno che mai, anche perché più pesantemente colpita, l’Italia. Salvini e Meloni hanno un bel dire che l’Unione Europea deve fare di più, dare di più, impegnarsi di più, ma il fatto rimane che l’Unione Europea sta facendo qualcosa che nessuno Stato-membro riuscirebbe a fare da solo. Sta concedendo fondi non nella disponibilità di qualsiasi singolo Stato. Sta proiettandosi anche nel futuro con impegni che nessun sovranista può assumere e il cui adempimento non sarebbe comunque in grado di garantire. In ultima istanza, il sovranismo è “bellum omnium contra omnes” sul campo di battaglia europeo (e poi, Trump volendo, mondiale: distruzione di quel che rimaneva dell’ordine internazionale liberale). L’Unione Europea è condivisione, collaborazione, trasformazione. Allora, i sovranisti del nostro stivale debbono alzare la voce per coprire il silenzio delle loro non-proposte e le loro contraddizioni. Continueranno a farlo fino all’afonia.

Pubblicato il 4 giugno 2020 su euractiv.it

L’Europa c’è e rimbalza #NextGenerationEu

L’Unione Europea fa passi avanti, qualche volta piccoli qualche volta lunghi, costantemente. Prendendo le mosse dall’accordo raggiunto fra il Presidente francese Macron e la Cancelliera tedesca Merkel (nulla di cui scandalizzarsi trattandosi dei due Stati-membri più importanti), Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione, ha presentato un ambiziosissimo programma di interventi a sostegno della ripresa economica per la “prossima generazione” dell’Unione Europea. Alquanto imbarazzati i sovranisti, a partire da quelli italiani, hanno fatto spallucce affermando che il programma non passerà nel Consiglio Europeo di metà giugno e che i soldi arriveranno molto tardi, solo all’inizio del 2021. Prima delle critiche, è opportuno concentrare l’attenzione sull’entità senza precedenti dell’intervento: più di 700 miliardi di Euro, una parte sotto forma di prestito a lungo termine, una parte sussidi ai singoli Stati-membri che li riceveranno per progetti chiaramente definiti, per l’economia verde, per la digitalizzazione, per le infrastrutture. L’Italia, paese al quale va la parte più grossa dei fondi, potrà ottenere fino 170 miliardi di Euro, che, per trovare un termine di confronto, equivalgono a circa cinque leggi finanziarie quelle definite “lacrime e sangue”. La sfida riguarda l’intero “sistema paese” che dovrà, anzitutto, definire con pragmatismo e precisione dove vuole spendere quei fondi elaborando un piano convincente in termini di tempi e modi, essendo noto a tutti che l’efficienza e la rapidità della spesa dei fondi europei non sono mai state il punto forte né dei governi nazionali né, tantomeno, di molti governi regionali.

I ventisette commissari europei si sono espressi in maniera concorde il che vuole dire molte cose, a partire, dalle capacità di mediazione e persuasione della von der Leyen e dei due commissari all’economia, il lettone Dombrovskis e l’italiano Gentiloni, ma anche della consapevolezza di tutti gli altri. Sappiamo che ci sono riserve da parte di quattro paesi, in ordine alfabetico: Austria, Danimarca, Olanda, Svezia, che si autodefiniscono “frugali”, ma che a Bruxelles molti preferiscono etichettare come “avari”. Non sarà facile ottenere l’approvazione del Consiglio europeo composto da capi di Stato e di governo, anche perché su materie come i finanziamenti è richiesta l’unanimità. Sono già in corso le trattative da parte della Commissione per evitare che qualche Stato-membro ponga il veto. Cresce la consapevolezza che senza ripresa dei paesi più colpiti anche i paesi rigoristi subiranno conseguenze economiche negative. Dal 1 luglio per un semestre la Presidenza del Consiglio spetterà alla Germania. Sicuramente Angela Merkel desidera conseguire un successo di grande significato sia per la Germania sia per il suo personale prestigio. L’approvazione del piano della Commissione è proprio quel tipo di evento epocale. Lo sarà soprattutto per l’Italia se saprà utilizzare al meglio le ingenti risorse attribuitele dalla Commissione.

Pubblicato AGL il 31 maggio 2020

Nell’Unione contano i voti e le capacità #UE #Euco #NominationsUE #NomineUE @EUparliament

No, a Bruxelles non c’è stato uno scandaloso mercato fra capi di governo per l’attribuzione delle cariche -non delle “poltrone”, come scrivono i commentatori succubi del linguaggio populista. Si sono svolti legittimi e fisiologici negoziati fra esponenti politici e istituzionali di alto livello, tutti dotati di legittimità democratica, per scegliere le personalità che governeranno l’Unione Europea e la sua politica monetaria nei prossimi cinque anni. Succede esattamente così in ciascuno dei sistemi politici nazionali. Si vota, si contano i voti e i seggi, si forma una coalizione in grado di avere il consenso di una maggioranza assoluta e si scelgono le persone che di quella maggioranza e delle sue preferenze sono rappresentative e che hanno la biografia politica e professionale tale da garantire un buon rendimento nella carica ottenuta. Qualunque altra interpretazione, in particolare quelle che descrivono litigi e traffici, ricatti e imposizioni, non soltanto sono sbagliate, ma segnalano l’ignoranza dei commentatori riguardo al funzionamento di un sistema politico democratico. Avrebbe vinto la Germania poiché la prescelta a guidare la Commissione è una democristiana ministro nel governo di Frau Merkel? Ha vinto la Francia poiché a sostituire Draghi alla Presidenza della Banca Centrale Europea va la francese Christine Lagarde, certamente non una “macroniana”? Allora ha vinto anche il Belgio poiché alla guida del Consiglio europeo andrà il suo Primo ministro liberale Charles Michel. L’interpretazione corretta, che serve anche a capire meglio come funziona l’Unione, è che le cariche rispondono alla distribuzione del potere politico fra gli Stati-membri e fra le famiglie politiche costituitesi nel Parlamento europeo. Da sempre, per il loro peso politico e economico, Germania e Francia hanno maggiore influenza, ma sempre contano anche le qualità delle candidature e, oggi, con l’ingresso in forze dei sovranisti-populisti nell’europarlamento, si è dovuta formare una maggioranza parlamentare europeista più ampia. Candidato dal gruppo dei Socialisti e Democratici, l’italiano David Sassoli è stato eletto alla Presidenza del Parlamento Europeo. Questa non è certamente una vittoria dell’Italia, anche perché né i leghisti né gli europarlamentari delle Cinque Stelle l’hanno votato. Al suo terzo euro mandato, Sassoli ha vinto grazie alla stima personale di cui gode. Quando l’Europarlamento avrà approvato la nomina di Ursula von der Leyen, la parola passerà ai governi nazionali che debbono nominare ciascuno, tranne i tedeschi, un loro commissario in consultazione con il Presidente della Commissione indicando la preferenza per quale settore di competenza. Infine, la parola decisiva spetterà all’Europarlamento che dopo approfondite audizioni nelle varie Commissioni esprimerà il suo voto sui singoli Commissari e complessivamente sulla Commissione. È una procedura esigente e trasparente che non lascia spazio a ricatti, consente di apprezzare la democraticità dell’UE e non esclude, purché correttamente motivate, le critiche.

Pubblicato AGL il 4 luglio 2019

 

Democrazia e cittadini nell’Unione Europea

Contributo al forum del CeSPI sul futuro della UE

 

Non è vero che l’Unione Europea soffre di un deficit democratico. E’ vero che in alcuni Stati-membri la democrazia funziona meglio di quella dell’Unione europea. Tuttavia, in non pochi altri Stati-membri come, ad esempio, Ungheria, Polonia, Slovacchia e anche in Italia, non soltanto la qualità della democrazia, ma il suo stesso funzionamento lasciano molto a desiderare e la comparazione non va affatto necessariamente a favore degli Stati. I cosiddetti sovranisti non possono vantare loro superiori, mai comprovate, doti democratiche e molto spesso le opposizioni in quei paesi sono in grado di testimoniare quanto difficile e dura è la loro vita (non solo politica). Il pregio della democrazia è la sua capacità di riformarsi, nel caso dell’Unione Europea a condizione che la diagnosi sia corretta e che i riformatori sappiano proporre i rimedi adeguati. Prima di dichiarare l’esistenza di un deficit democratico dell’Unione Europea è necessario valutare con conoscenza di causa, che cos’è il deficit, dove si colloca, come si manifesta.

Come può non essere considerato democratico il Consiglio nel quale s’incontrano (si confrontano e si scontrano) i capi di governo degli Stati-membri? Ciascuno di loro ha vinto le elezioni nel suo paese, quindi rappresenta una maggioranza elettorale e politica e in quel Consiglio rimarrà fintantoché riesce a mantenere la sua maggioranza. Potremmo, semmai, obiettare alle procedure decisionali del Consiglio, in particolare, da un lato, alla regola dell’unanimità, dall’altro, alle modalità con le quali i capi di governo pervengono alle decisioni. L’unanimità, peraltro, usata raramente, ha scarsa legittimità democratica poiché consente a un capo di governo di bloccare qualsiasi decisione a lui sgradita anche se tutti gli altri capi di governo hanno raggiunto un accordo. Quell’unico capo di governo dissenziente può, in qualche modo, “ricattare” tutti gli altri. Pertanto, i riformatori dovrebbero eliminare quella regola. Quanto alle modalità dei procedimenti decisionali, neI Consiglio e, in misura minore, nella Commissione, quei procedimenti sono spesso farraginosi e poco o nulla trasparenti. E’ vero che in alcune materie politiche è opportuno, proprio per giungere a decisioni migliori, preservare uno spazio, più o meno, ma non troppo, ampio. Tuttavia, è auspicabile che la maggior parte di quei procedimenti decisionali si svolgano in maniera tale che i cittadini europei abbiano la possibilità di attribuire le responsabilità positive e negative di quanto è stato deciso, non deciso, deciso male.

Coloro che ritengono che la democrazia si esprime in particolar modo attraverso le elezioni non possono mai sostenere che il Parlamento Europeo è un organismo non-democratico nel quale si manifesterebbe un deficit. Al contrario, il Parlamento Europeo è un luogo molto significativo di rappresentanza delle preferenze e degli interessi dei cittadini europei. Nel corso del tempo ha acquisito maggior potere nei confronti sia del Consiglio sia della Commissione controllando le attività e valutandone gli esiti. Se il Parlamento europeo ha un deficit democratico questo non è a lui intrinseco, ma deriva dai partiti e dai cittadini degli Stati membri. Sono i partiti che fanno campagna elettorale su temi e con obiettivi nazionali a essere responsabili del deficit. Paradossalmente, meno responsabili sono i partiti populisti e sovranisti poiché, facendo campagna contro l’Unione Europea, sono inevitabilmente più propensi a parlare proprio di Europa di quanto fa, non fa, fa male e quanto meglio farebbero i singoli Stati se riacquisissero la sovranità ceduta. Scrivo “ceduta”, non perduta e non espropriata, poiché ciascuno degli Stati-membri ha consapevolmente e deliberatamente ceduto parte della sua sovranità all’Unione per perseguire obiettivi altrimenti irraggiungibili da ciascuno Stato singolo. I partiti nazionali sono anche responsabili della loro incapacità di convincere gli elettori ad andare alle urne per eleggere i loro rappresentanti. Quando, come nel maggio 2014, soltanto il 44% degli elettori europei (percentuale nettamente inferiore a quella, che tutti noi abbiamo spesso stigmatizzato, degli americani nelle elezioni presidenziali) va a votare, allora c’è un problema, ma non è definibile come deficit delle istituzioni dell’UE. Più precisamente, si tratta di un deficit di partecipazione dei cittadini europei ai quali in qualche modo bisognerebbe fare sapere che perdono la facoltà di criticare Parlamento e parlamentari che non hanno voluto eleggere.

Sul banco degli imputati di deficit democratico sembra persino troppo facile collocare in blocco la Commissione Europea e, in particolare, i singoli Commissari. Mancherebbe loro qualsiasi legittimazione democratica. Sarebbero, come affermano troppi critici male informati e preconcetti, dei burocrati o, forse peggio, dei tecnocrati che i populisti considerano una razza dannata poiché, senza avere mai avuto un mandato democratico (elettorale) antepongono le loro conoscenze alle preferenze e alle esperienze del “popolo”. La verità è che, praticamente da sempre,  hanno acquisito la carica di Commissario uomini e donne provenienti da cariche politiche e di governo, persino al vertice, nei loro rispettivi paesi. Dunque, mai burocrati, ma “politici”, spesso con conoscenze di alto livello. Debbono la loro carica alla nomina ad opera dei capi di governo di ciascuno Stato-membro, ma, come ho già scritto, quei capi di governo sono democraticamente legittimati. In più, ciascuno dei Commissari deve superare/ha superato un “esame” relativo alle sue conoscenze e al suo tasso di europeismo svolto di fronte al Parlamento europeo. Inoltre, sa che, una volta confermato, nella sua azione dovrà spogliarsi di qualsiasi preferenza nazionale. Dovrà operare negli interessi dell’Unione Europea. Oso affermare che la stragrande maggioranza dei Commissari negli ultimi sessant’anni ha davvero avuto come stella polare il processo di unificazione politica dell’Europa. Quanto al Presidente, a partire dal 2014 è stato stabilito che ciascuna delle famiglie politiche/partitiche europee possa presentare un candidato/a alla Presidenza. Il candidato della famiglia che ha ottenuto più voti/più seggi viene designato Presidente, ma anche lui/lei deve superare lo scrutinio del Parlamento europeo. Di fronte a queste procedure, ciascuna con il suo evidente tasso di democraticità, è davvero assurdo sostenere che la Commissione non ha crismi di democrazia, che è democraticamente carente, se non addirittura illegittima. Ovviamente, però, la Commissione, vero motore istituzionale e, in parte, anche politico dell’Europa può a sua volta essere criticata per quello che fa, non fa, fa male.

Dunque, nell’Unione Europea, va tutto bene? Certamente, no. Però, il problema non si chiama deficit democratico. Si chiama deficit di funzionalità. Quasi sicuramente c’è troppa burocrazia nell’Unione europea, troppo red tape, come hanno costantemente sostenuto gli inglesi (che ci mancheranno e che stanno anche accorgendosi che l’Europa mancherà a loro). C’è troppo spazio per le lobbies, per i gruppi di interesse. C’è troppa lentezza nel prendere decisioni. C’è troppa opacità. Sono sicuramente inconvenienti, altrettanto sicuramente possono essere affrontati e risolti dentro l’Unione. Non potranno essere coloro che si chiamano fuori –e meno che mai coloro che intralciano l’Europa che c’è, a risolvere quei problemi e altri, a cominciare dall’immigrazione a seguire con la crescita delle economie europee e con la regolamentazione la tassazione delle grandi corporations. Con buona pace dei sovranisti, nessuno Stato da solo potrà fare di più e meglio per la vita dei suoi cittadini di quanto l’Unione Europea ha già fatto e potrà fare nei prossimi anni. Saranno i cittadini europei, quelli che si interessano all’Europa, si informano, votano e partecipano, a decidere, democraticamente, che Europa vorranno. Saranno responsabili di quello che hanno fatto e di come hanno votato o non votato. Proprio come avviene nelle (migliori) democrazie.

Intervista sull’Europa

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Con questa intervista a Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, proseguiamo il nostro lavoro di approfondimento sul tema dell’integrazione europea. L’intervista è a cura di Lorenzo Mesini e di Andrea Pareschi.

Che cos’era e che cosa ha rappresentato il federalismo europeo nei decenni del processo di integrazione?
All’inizio il federalismo europeo era esattamente una dottrina relativa alle modalità con cui bisognerebbe costruire uno stato federale. Un certo numero di stati, nello specifico sei, si misero d’accordo per cedere parte della loro sovranità su alcune risorse molto importanti (carbone, acciaio e soprattutto energia nucleare) a un’autorità sovranazionale. Incominciò tutto dal 1949 fino al 1957, quando si firmò il Trattato di Roma, che fu un trattato sovranazionale che diede slancio a un processo veramente federale.

Quali erano i punti di forza del programma federalista? in che misura si distingueva dall’approccio neo-funzionalista (Monnet) e da quali punti erano accomunati?
I punti di forza del programma federalista erano due. In primo luogo alcuni stati non si sarebbero più fatti la guerra (che rappresentava il problema storico dell’Europa, soprattutto dopo le due Guerre Mondiali ma non solo). In secondo luogo, mettendo insieme determinate risorse, si sarebbe riuscito a produrre anche un grande sviluppo economico. Quindi l’obiettivo era la pace e la prosperità. Credo che oggi questi obiettivi siano stati ampiamente raggiunti anche se ovviamente si discute su quanta prosperità stiamo perdendo perché non riusciamo a risolvere certi problemi. Monnet pensava che l’integrazione a livello europeo di determinate aree di cooperazione e collaborazione avrebbe avuto effetti anche su aree contigue. Questo avrebbe favorito un’integrazione progressiva verso un grande mercato comune, mercato che a sua volta avrebbe richiesto inevitabilmente uno stato, uno stato regolatore che a quel punto doveva essere uno stato federale.

La figura di Altiero Spinelli, oltre al suo indubbio valore simbolico, che ruolo ha esercitato, con la sua opera politica e il suo pensiero, sul corso effettivo del processo di integrazione? In quali fasi, se ci sono state, l’influsso di Spinelli è stato più sensibile?
Spinelli è stato importantissimo nel contesto italiano, non soltanto come fondatore del Movimento Federalista Europeo (1943) ma anche per i rapporti interpersonali che era riuscito a tessere prima con De Gasperi e poi, nel momento più importante, con Nenni (fine degli anni Sessanta). Inoltre fece cambiare posizione al PCI, che era sostanzialmente ostile al processo di unificazione europea e che invece a metà degli anni Settanta giunse ad accettare l’Europa. Al riguardo bisogna ricordare il famoso discorso di Berlinguer che da questa parte della cortina di ferro si sentiva più sicuro. Spinelli convinse il partito comunista ad accettare l’Europa e a parteciparvi attivamente. Nel 1976 venne eletto dal PCI al Parlamento Europeo, per altro dopo esser già stato commissario europeo (1970-1976). Venne poi rieletto nel 1979 e nel 1983. Per quanto riguarda i rapporti con gli altri paesi c’è un movimento federalista europeo che deve la sua ispirazione e la sua nascita anche agli sforzi di Spinelli. Inoltre tutto quello che precede l’Atto Unico (1986) è, in una certa misura, preparato da Spinelli, che voleva un nuovo trattato, ma alla fine prese atto che il massimo che si poteva ottenere in quel momento era l’Atto Unico. Scrisse un documento importantissimo intitolato Per un’Unione più stretta. Poi purtroppo morì nel 1986. È difficile dire se oggi ci sia un suo erede. In una certa misura possiamo dire che una visione di tipo federale è stata quella sostenuta dai Radicali, da Pannella, da un lato, e da Emma Bonino, dall’altro. Però il primo è morto, purtroppo Emma Bonino sta male e quindi non c’è più questa presenza. Oggi, il pensiero federalista europeo in Italia è molto debole. C’è un centro studi federalistici a Torino, che secondo me è il migliore in Italia, ma non molto di più.

Venendo alla fase più recente dell’integrazione, inaugurata dal trattato di Maastricht, in che modo le forme concrete attraverso cui questo processo si è configurato, si relazionavano all’ideale federalista? Come commenta questa importante tappa rappresentata dal trattato di Maastricht, avendo presente gli sviluppi politici successivi?
Maastricht è uno dei trattati più importanti, naturalmente. Su un punto possiamo essere tutti d’accordo: Maastricht inserì pienamente la Germania unificata (1990) in Europa. Maastricht aprì inoltre la strada alla riflessione sul potenziamento del mercato comune, del mercato unico e poi all’Euro. Quindi Maastricht ha rappresentato una svolta di grandissima importanza.

Al tempo delle discussioni in merito all’adozione dell’euro, prevalse un’interpretazione secondo la quale, l’unione monetaria non comportava necessariamente il trasferimento di competenze fiscali e finanziare a livello comunitario. Era diffusa la convinzione che un sistema di vincoli, che poi si concretizzò nel patto di stabilità, unitamente a una politica monetaria comune, fossero sufficiente a garantire un’adeguata gestione dell’unione monetaria. Jacques Delors riteneva invece che viste le notevoli differenze socio-economiche tra i paesi membri fosse necessario perseguire attivamente una politica di convergenza. Alla luce degli sviluppi successivi, che giudizio da oggi di questo dibattito? Ci furono a suo avviso carenze e/o errori evitabili?
Delors aveva sicuramente ragione. Però non riuscì a convincere un numero sufficiente di capi di stato e di governo del fatto che quella era la direzione giusta in cui bisognava andare. Però, tutti erano consapevoli del fatto che la moneta unica costituiva una premessa e che poi occorreva andare verso una politica monetaria comune e verso una una vera politica finanziaria ed economica condivisa. Le prospettive erano chiare a tutti a Maastricht, ma molti stati erano riluttanti ad andare in quella direzione. Finita la presidenza Delors, i successivi presidenti non hanno avuto la stessa forza e la stessa volontà di intervenire in materia e di premere in continuazione sugli stati. Prodi, per esempio, preferì l’allargamento dell’Unione piuttosto che l’approfondimento delle sue politiche economiche.

Negli anni Duemila, ha luogo il dibattito sulla Costituzione Europea, a cui presero parte figure di grande rilievo. La successiva bocciatura del testo nei referendum francese e olandese, impose un una pausa al processo di integrazione, che riprese poi in tono minore con il Trattato di Lisbona. Che giudizio esprime su questa fase? Furono commessi errori? Quali furono le principali carenze a suo avviso?
Gli errori furono tutti dei politici nazionali. Il referendum sulla Costituzione europea in Francia venne bocciato dai socialisti che si divisero: un parte votò contro e così fece cadere il trattato. Gli olandesi probabilmente votarono contro perché volevano più integrazione, non perché ne volevano di meno. Però, anche questo fu un brutto segno: significa che i politici olandesi favorevoli all’Europa non avevano saputo condurre una campagna elettorale adeguata. Non furono capaci di insegnare che cos’è l’Europa. Ecco se dovessi dire qual è il problema vero è che molti politici quando vanno in Europa fanno finta di essere europeisti e poi quando tornano nei loro paesi sostengono invece che bisogna evitare di cedere sovranità all’Europa. C’è un atteggiamento ambivalente che non giova assolutamente all’Unione Europea e nemmeno ai politici nazionali, che si trovano poi alle prese con fenomeni di populismo che conosciamo. Questa è una fase di transizione molto complicata, irta di pericoli e senza grandi opportunità, anche perché manca la figura di un grande europeista, di un grande federalista. Ci sono qualche volta dei politici di buona volontà, ma questo non è sufficiente.

Sotto la Commissione Prodi nuovi paesi, principalmente dell’Europa orientale, entrarono nell’Unione. Ciò fu preceduto da un dibattito circa l’opportunità che tale allargamento fosse preceduto da un approfondimento, ovvero da una più incisiva integrazione tra i paesi membri. Alla luce dei recenti avvenimenti, ritiene che si sia proceduto allora in maniera lungimirante?
No, fu tutto meno che lungimirante. Fu comprensibilmente poco lungimirante: si pensò che facendo entrare questi paesi in Europa (tutti ex regimi comunisti) si sarebbe data una spinta al consolidamento di quelle democrazie. Probabilmente questo consolidamento è avvenuto, anche se vediamo che sono stati fatti diversi passi indietro, soprattutto in Ungheria e in Polonia. È stato un allargamento frettoloso, comprensibile ma non governato bene. Le conseguenze di ciò sono oggi sotto gli occhi di tutti. Questi paesi non hanno ancora acquisito una mentalità veramente europea, non hanno acquisito comportamenti autenticamente europei. Spesso costituiscono una palla al piede per coloro che vorrebbero andare più avanti nell’integrazione, ma non possono senza convincere questi paesi che sono rimasti in una situazione in cui lo stato nazione conta di più di qualsiasi progresso verso uno stato federale europeo.

La crisi economico-finanziaria ha dato grande spazio a una galassia di forze politiche che oggi viene genericamente rubricata sotto l’etichetta di “euroscetticismo” o “populismo”. Quali sono a suo avviso le cause del successo e del consenso che riscuotono queste forze politiche?
Se c’è un elemento unico che posso riscontrare è il fatto che tutte possono qualificarsi come populiste e nazionali in quanto fanno campagne essenzialmente contro l’Europa e/o contro l’Euro. Vogliono un ritorno, che oggi è praticamente impossibile, agli stati nazionali. Ma c’è un numero consistente di cittadini-elettori che temono le conseguenze di una maggior unificazione politica e le conseguenze della globalizzazione. Qualche volta hanno anche ragione perché non sono preparati ad affrontarla: ad esempio in materia di istruzione, oppure non hanno le capacità lavorative per fronteggiarla. I populisti fanno leva su questo sentimento e possono arrivare a sfruttarlo fino a un certo punto. Ma che sia chiaro: non dovrebbero. Riescono ad avere un po’ di influenza, non tanta, nei loro rispettivi sistemi politici, mentre nel Parlamento Europeo praticamente non ne hanno. Il populismo è difficile da sconfiggere una volta per tutte, anche perché elementi di scontento ci saranno sempre e i populisti li cavalcano come d’altronde è loro facoltà.

Data la natura sovranazionale dei principali problemi che gli stati e le società europee si trovano oggi a dover affrontare, nonché la presenza di una giuntura critica interna che dovrebbe promuovere l’adozione di un più coraggioso approccio ai problemi, come spiegare il mancato approdo a meccanismi e soluzioni comunitarie? Come mai l’approccio neo-funzionalista sembra non esser più applicabile? Perché oggi il metodo intergovernativo prevale su quello comunitario?
Il neo-funzionalismo non è più applicabile perché ha avuto successo, ha fatto praticamente tutto quello che poteva: ha allargato le aree di collaborazione e cooperazione, ha prodotto prosperità diffusa. Tutti i paesi che sono entrati nell’Unione Europea sono cresciuti dal punto di vista economico. Il neo-funzionalismo è arrivato per così dire al soffitto. Per sfondare il soffitto, tuttavia, non basta il modello intergovernativo che prevede la collaborazione tra gli stati così come sono e l’utilizzo di risorse che già ci sono. Solo il federalismo garantisce maggiori risorse e una loro migliore distribuzione. Insisto: i governanti nazionali continuano a giocarsi le proprie carte sui rispettivi territori nazionali. Non c’è nessuno politico che scommetta sulla sua carriera in Europa. A dire il vero mancano anche i meccanismi adeguati. Per esempio, per un presidente eletto dai cittadini europei forse ci sarebbero gli uomini e donne disposti a entrare in competizione. Quindi il federalismo è una carta che può essere giocata, ma che richiede che ci siano quattro, cinque, sei o sette governanti nazionali disposti a giocarsela fino in fondo. E purtroppo non ci sono.

Fino a pochi anni fa l’Italia era annoverata tra più entusiasti stati membri dell’Unione. La solidità dei suoi valori europeisti non era in discussione (il referendum consultivo del 1989 e l’adesione all’euro ne furono i principali simboli). Come è stato gestito e investito quel capitale di autorevolezza dai governi italiani della cosiddetta ‘Seconda Repubblica?
Quel capitale era un capitale di emozioni e di affetti. In un certo senso, si trattava di attaccamento a un’idea. Ma non è stato messo a frutto in alcun modo. C’era una specie di mandato ai governanti di fare il possibile in Europa, senza spingersi oltre. Forse quello che era possibile è stato anche fatto. L’Italia è sempre entrata nei trattati in maniera un po’ passiva e subalterna. Poi qualcuno ha iniziato a fare campagna contro l’Europa. Berlusconi e il centrodestra hanno fatto campagna contro l’Europa e una parte di elettori ha cambiato le sue opinioni in merito. Oggi se sono europeisti, sono tiepidamente tali; altrimenti sono euroscettici o addirittura euro-ostili. La sostanza è che la maggioranza degli italiani non è più favorevole all’Europa e considera spesso l’Europa un problema e non una soluzione ai problemi.

Cosa ne rimane oggi dell’eredità del federalismo europeo? Quali sono i principali motivi della sua attuale scarsa popolarità? Secondo lei è possibile e auspicabile rilanciare una prospettiva di integrazione federale in Europa? Se si, su quali basi e con quali modalità?
Rimangono milioni di persone che credono in un’Europa federale. Rimangono dei partiti che, almeno dal punto di vista programmatico, esprimono posizioni favorevoli ad un’Europa federale. Ci sono inoltre molti parlamentari europei che condividono questa prospettiva. Purtroppo non c’è nessun capo di stato europeo che su questa prospettiva sia disposto a giocarsi la sua carriera politica. Lo vediamo in continuazione. Seppur blandamente, la Merkel potrebbe muoversi i questa prospettiva federalista. Il problema è che la Merkel governa la Germania, che è troppo grande per essere la guida di un progetto federalista europeo e che alla fine esprimerebbe una guida egemonica tedesca. Resta però il fatto che oggi il federalismo è l’unica prospettiva che può ancora essere seguita. Le altre no. Il metodo intergovernativo è quello che vediamo in azione nel Consiglio europeo. Produrrebbe forse un po’ di più di quello che oggi abbiamo (more of the same). Il neo-funzionalismo, invece, ha già dato tutto quello che poteva dare. Il problema è il passaggio federale, e il passaggio federale può essere realizzato purché ci siano donne e uomini che si impegnino a fondo. Io non li vedo purtroppo. Qualcuno dice che il passaggio federale sarebbe possibile facendo prima un passo indietro: creando una cerchia di stati disposti ad andare molto avanti nell’integrazione che dimostrerebbero così a quelli che sono meno disposti che, qualora si unissero, potrebbero fare molti progressi. È una strategia plausibile ma non facile. Non ne vedo il leader.

Pubblicato il 29 settembre 2016 su Pandora