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Dove vanno i vicepresidenti USA? Qualche rara volta persino alla Casa Bianca #ParadoxaForum

La domanda è: se e quanto sono stati avvantaggiati i vicepresidenti USA che hanno cercato di succedere ai loro Presidenti? Restringo l’analisi al periodo post-1945 cosicché inevitabilmente dispongo di pochi casi (ma pochissimi furono i precedenti) che, però, mi consentono di dare una risposta precisa. Il successo è arriso ad una sola successione. Nel 1988 il repubblicano George H. Bush ha conquistato la Casa Bianca dopo essere stato per due mandati Vicepresidente di Ronald Reagan. Nel 1960 questa operazione non riuscì Richard M. Nixon che era stato vicepresidente del repubblicano Dwight Eisenhower (1952-1960). Nel 2000 non riuscì neppure al democratico Al Gore che era stato vicepresidente di Bill Clinton (1992-2000).
In circostanze tragiche il Vicepresidente prima entrato in carica per completare il mandato del suo Presidente defunto, rispettivamente Franklin D. Roosevelt e John F. Kennedy, poi ne vince uno in proprio: i democratici Harry Truman (1945-1948; 1948-1952) e Lyndon Johnson (1963-1964; 1964-1968). Il vicepresidente di Truman, il poco noto Alben Barkley, non cercò la nomination alla presidenza; quello di Johnson, il noto e apprezzato Hubert H. Humphrey, la ottenne e perse l’elezione del 1968. Dick Cheney, potente vicepresidente di George W. Bush (2000-2008), falco senza cedimenti e senza compassione, venne considerato impresentabile dagli stessi repubblicani. In estrema sintesi, i vicepresidenti, vi aggiungo il pur competente Walter Mondale, vice del Democratico Jimmy Carter, hanno avuto vita grama.
Le circostanze sembrano più promettenti per Kamala Harris. Rimasta sostanzialmente nell’ombra, incapace di trovarsi una tematica caratterizzante, fino a domenica 14 luglio Harris sembrava, ed era, fuori gioco anche nella campagna elettorale, inutile. La rinuncia del Presidente Baden a cercare il secondo mandato (le) ha aperto una prateria di opportunità, di sfide, di incognite. In quanto vicepresidente è obbligata a rivendicare i successi, che ci sono, del suo Presidente. Però, non può giocare in difesa, tralasciando il non fatto e il malfatto (immigrazione). Al contrario deve portare l’attacco sul fronte di quello che sulla scia di Baden può essere esteso e completato. Soprattutto ha l’opportunità di cambiare il gioco. Non più due uomini bianchi anziani dai quali non può venire nessuna novità, come grandi maggioranze di elettori si lamentavano nei sondaggi lasciando intendere un notevole rifiuto delle urne a prevalente scapito dei democratici. Una ambiziosa donna di colore neppure sessantenne contro un uomo bianco quasi ottantenne con problemi giudiziari e privo della immaginazione politica per andare oltre il vacuo slogan Make America Great Gain: it is another game. La sfida si è spostata sul terreno della mobilitazione di un elettorato molto segmentato, in special modo sul versante progressista. Là Kamala Harris potrà cercare di sfruttare le sue qualità: competenza giuridica, energia politica, biografia anche professionale. Il duello non è più vicepresidente contro ex-presidente alla ricerca della vendetta, uomo bianco con la sua America del passato, che i giudici della Corte Suprema da lui nominati cercano di far rivivere, contro donna di colore, che rappresenta l’America che già c’è, ma sbrindellata e perplessa alla quale offrire una prospettiva. Almeno l’alternativa è crystal clear, cristallina. Il resto è il bello della politica democratica competitiva.
Pubblicato il 25 luglio 2024 su PARADOXAforum
La democrazia non muore: è uccisa dalle élite @DomaniGiornale

Le democrazie non muoiono. Le democrazie vengono uccise. Gli assassini delle democrazie sono le élite. A seconda dei tempi e dei luoghi possono essere prevalentemente le élite politiche, militari economiche, religiose, persino culturali. Qualche volta, quelle élite iniziano a indebolire le democrazie violandone alcuni principi, se volete, promesse, fondamentali: l’eguaglianza, mai di risultati, ma quella di fronte alla legge; il pluralismo di diritti e di opportunità; la libera competizione elettorale e il rispetto dei suoi esiti; la rinuncia alla violenza e il riconoscimento che il monopolio dell’uso della forza spetta, senza se senza ma, allo Stato le cui élite agiscono in trasparenza; l’educazione politica e civile della cittadinanza.
Raffinati indicatori dello stato della democrazia nel mondo hanno colto da tempo il declino di molti degli elementi citati sopra anche negli Stati Uniti d’America che, la classifica dell’Economist Intelligence Unit colloca fra le democrazie difettose al 29esimo posto (Italia 31esima). L’attentato a Trump ha sollecitato molti commentatori a ricordare che alcuni Presidenti e qualche candidato sono stati uccisi. Sarebbe forse stato opportuno fare anche riferimento alle numerose e frequenti stragi di civili, a cominciare da quelle nelle scuole. La frase “violence is as American as apple pie” pronunciata più di cinquant’anni fa da un leader delle Pantere Nere non trova smentite. Il movimento “Black Lives Matter” serve a ricordare a tutti quanto razzismo strisci tuttora nella società americana. Il 6 gennaio 2021 l’assalto al Campidoglio di Washington ha rivelato che l’accettazione della sconfitta elettorale non è più un principio cardine condiviso dalla élite politica, economica, culturale repubblicana. Sullo sfondo si aggirano la cultura della cancellazione (della storia e della memoria dalle quali più non si impara) e il politicamente corretto (perniciosa manifestazione del conformismo nella società di massa denunciato da Tocqueville). Entrambi contribuiscono a istituzionalizzare discriminazioni e barriere cognitive. Non è guerra di culture, ma di pregiudizi e di incultura/e.
Partecipante diretta e potente, in questa guerra, ancorché a lungo ritenuta al di sopra e orientata al futuro, la Corte Suprema, con una solida maggioranza tecnicamente reazionaria destinata a durare per almeno una intera generazione, si è schierata a favore, quando conta, delle modalità con le quali il Presidente Trump (che ha nominato tre di loro) interpreta e ha esercitato i suoi poteri. La Corte sta minando il sacrosanto principio liberale della separazione dei poteri e facendo venire meno proprio il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge nel momento in cui la legge e la Costituzione sono interpretate in chiave originalista con riferimento alle (presunte) intenzioni dei Costituenti.
Naturalmente, non sono mancate le reazioni dei democratici e dei progressisti USA a tutti questi sviluppi e ai casi più controversi. Però, non ci sono stati coordinamenti efficaci e, spesso, i democratici hanno peccato di (eccesso di) permissivismo nel condonare dichiarazioni e comportamenti offensivi e illegali che si sono moltiplicati e hanno prosperato.
Con fior fiore di studiosi condivido il postulato che una, tutt’altro che l’unica, virtù della democrazia consiste nell’apprendimento collettivo. Sono le donne e gli uomini, prima e più fra le élite che nel popolo, che apprendono, reagiscono, cambiano, formulano nuove idee, riequilibrano regimi sull’orlo del disastro Chi, per arroganza, ambizione, connivenza, ignoranza, impedisce la circolazione delle élite si rende responsabile della morte eventuale della democrazia. Sono pallidi e esangui i segnali che consentano di pensare che nelle élite d/Democratiche USA questa consapevolezza sia già sufficientemente diffusa. Si sta facendo tardi.
Pubblicato il 17 luglio 2024 su Domani
Lo strapotere della minoranza che minaccia la democrazia @DomaniGiornale


Pensavo che fosse soprattutto espressione di provincialismo mista con il vanto dell’eccezionalismo (positivo) la mole di articoli e libri su Trump pubblicati dagli studiosi USA. Che la loro fosse una preoccupazione temporanea, agitata ad arte per potere affermare con grande fanfara: “la democrazia della più grande potenza che il mondo abbia mai conosciuto USA ha superato anche la sfida del trumpismo”. Alcune altre democrazie si ripiegano su se stesse, declinano, muoiono. La democrazia americana rimbalza e si rinnova. Seppur uomo bianco anziano il Presidente Biden aprirà una nuova fase. Invece, no. La cancel culture ha mostrato tutti i suoi limiti di cultura e di carenza di elaborazione, il trumpismo ha lasciato un’eredità pesantissima, ma soprattutto sta dimostrando di rappresentare qualcosa di molto profondo nella società americana e le istituzioni scricchiolano. Mai pienamente una democrazia maggioritaria, che Madison non volle, gli USA sono diventati una democrazia minoritaria. Grazie ad alcuni meccanismi, a cominciare dal collegio elettorale per l’elezione del Presidente, i repubblicani, da tempo partito di minoranza fra gli elettori, controllano, anche attraverso masse di denaro dei loro sostenitori, una enorme quantità di potere politico. Per un complesso fortuito di circostanze e per la spregiudicata compattezza dei Senatori repubblicani, il Presidente Trump ha cambiato per almeno un’intera generazione, più di trent’anni, la composizione della Corte Suprema, rendendola non solo la più conservatrice di sempre, ma anche palesemente reazionaria, vale a dire predisposta a fare tornare la società e la cultura indietro di almeno cinquant’anni. Negli Stati che controllano, anche grazie al sostegno degli evangelici e di potentissime lobby, i repubblicani stanno aggredendo il diritto fondamentale e fondante di una democrazia: il voto. Rendere molto più difficile, talvolta quasi impossibile la sua espressione: meno seggi meno ore meno iscritti nelle liste, e metterne sempre, anche preventivamente, in discussione l’esito. Non pochi stati degli USA non soddisferebbero, e non solo perché vi si pratica la pena di morte, i requisiti base di adesione all’Unione Europea, ma per carenza di democrazia elettorale e, talvolta, per eccesso di corruzione politica. L’abolizione della possibilità giuridicamente riconosciuta, garantita e tutelata di ricorrere all’interruzione di gravidanza, non meno grave perché anticipata da indiscrezioni, è il culmine dell’attacco ai settori sociali più deboli, le donne delle classi popolari, le latinas, le donne di colore alle quali mancheranno le reti di sostegno e le risorse e alle quali in buona misura viene negato anche il diritto di voto. La leggendaria città che splende sulla collina sta perdendo la capacità di illuminare e attrarre coloro che nel mondo amano la libertà.
Pubblicato il 26giug2022 su Domani
Joe Biden ha preso le redini degli Stati Uniti e sa cosa fare @POTUS
Un uomo di età certa e avanzata, il Presidente Biden, ha già cambiato alcune delle pessime politiche del suo predecessore Trump. Il senatore di lungo corso, otto anni vicepresidente di Obama, sa dove andare e come. Ha subito ri-conosciuto l’Unione Europea come interlocutore importante da favorire anche come partner commerciale, ma soprattutto come entità che condivide i valori democratici. L’ingente pacchetto di stimoli economici rilancerà gli USA, ma avrà effetti positivi per l’Unione Europe. La replica dei repubblicani, a partire dalla Georgia, consiste nel rendere più difficile l’esercizio del voto. Bruttissima storia che finirà alla Corte Suprema dove i giudici nominati dai repubblicani sono 6 contro 3. Tempi ancora bui e duri.
The Donald è sconfitto ma il “trumpismo” resta @fattoquotidiano

Liquidata la Presidenza Trump, ma con molte apprensioni per quelli che saranno i suoi velenosi colpi di coda, è più che opportuno riflettere sul trumpismo. Donald Trump è il produttore del trumpismo oppure a produrre Trump e la sua presidenza è stato un grosso onnicomprensivo grumo di elementi già presenti nella politica e nella società USA? Settantun milioni di elettori, nove milioni più del 2016, segnalano che Trump non era un marziano, un misterioso ittito (che occupa l’Egitto/Casa Bianca senza lasciare nessuna traccia), un fenomeno (sì, nel doppio significato) passeggero. Esistono alcuni elementi del “credo americano”, come identificati dal grande sociologo politico Seymour M. Lipset, che costituiscono lo zoccolo duro del trumpismo: l’individualismo, il populismo e il laissez-faire che interpreto e preciso come insofferenza alle regole -per esempio, a quelle che servono a limitare i contagi da Covid. A questi è più che necessario aggiungere un elemento ricorrente: l’aggressione alla politica che si fa a Washington (swamp/palude nella terminologia di Trump) e un elemento sottovalutato e rimosso (anche viceversa): il razzismo. Con tutti i suoi molti pregi, il movimento Black Lives Matter non può non apparire come una risposta di mobilitazione importante, ma tardiva. Le uccisioni di uomini e donne di colore continuano e misure per porre fine alla “brutalità” della polizia sono, da un lato, inadeguate, dall’altro, contrastate da Trump, ma anche dal trumpismo profondo.
La critica sferzante, di stampo populista, alla politica di Washington ha radici profondissime che probabilmente non saranno mai estirpate del tutto. La sua versione contemporanea, che non è stata sufficientemente contrastata, trovò espressione nella famosa frase del Presidente repubblicano Ronald Reagan: “Il governo non è la soluzione; il governo è il problema”. Il terreno favorevole all’innesto e alla espansione del trumpismo è stato abbondantemente concimato dal Tea Party Movement e dagli evangelici. Il primo ha, da un lato, formulato una concezione estrema della libertà individuale per ottenere uno Stato minimo che, naturalmente, non deve in nessun modo intervenire nelle dinamiche sociali, per chiarire: né affirmative action né riforma sanitaria. Dall’altro, ha usato della sua disciplina e del suo potere di ricatto sia nelle primarie repubblicane sia nei collegi uninominali per spostare a destra, radicalizzare il Partito repubblicano nel suo complesso. Dal canto loro, le potenti e ricche confessioni religiose evangeliche hanno provveduto a finanziare le campagne elettorali di un molto grande numero di candidati ottenendone in cambio i loro voti al Congresso, non da ultimo per la conferma dei giudici nominati da Trump. Nominati a vita questi giudici sono in grado di garantire per almeno trent’anni che nella Corte ci sarà una maggioranza conservatrice misogina, indifferente alle diseguaglianze dei neri, contraria a politiche sociali. Le molte centinaia di giudici federali nominati da Trump (molti altri probabilmente riuscirà a nominarne nella frenesia dei suoi ultimi giorni alla Casa Bianca) faranno il resto del lavoro, cioè perpetueranno il trumpismo. Da idee diffuse nel vasto campo trumpista sono discese le politiche di Trump: ambiente, commercio, sanità. Soltanto in parte, però, politiche diverse ad opera del Presidente Biden saranno in grado di incidere sul nucleo forte, sul core del trumpismo. Non è soltanto che nella sua lunga carriera politica Biden non ha proceduto a particolari innovazioni. È che, come gli hanno rimproverato i suoi avversari politici nelle primarie, a cominciare proprio dalla sua Vice-presidente Kamala Harris, la moderazione spesso finiva per mantenere lo status quo o per fare qualche piccolo passo inadeguato, come per quel che riguarda la condizione dei neri e, in parte, delle donne. Non voglio arrivare fino a sostenere che in Biden si annida una componente di trumpismo soft. Sono, però, convinto che non pochi cittadini-elettori democratici pensino che l’individualismo è ottima cosa, che il governo non deve svolgere troppe azioni troppo incisive, che una volta eletti i rappresentanti non si occupano più di gente come loro. Questi sono timori condivisi anche dai commentatori USA progressisti (ad esempio, gli eccellenti collaboratori della Brookings Brief). Da parte mia, non vedo neppure fra gli intellettuali più autorevoli l’inizio di una riflessione su una cultura politica che travolga trumpismo e trumpisti dando una nuova anima agli USA.
Pubblicato il 10 novembre 2020 su il Fatto Quotidiano
Contare i voti, salvare l’anima degli USA
Almeno una previsione pre-elettorale è risultata corretta: il conteggio dei voti per l’elezione presidenziale USA è in effetti già molto lungo e angosciante. Entrambi i candidati si sono frettolosamente dichiarati vincitori. Trump ha addirittura sottolineato di avere vinto “alla grande” aggiungendo che stanno cercando di rubargli la vittoria e preannunciando un ricorso alla Corte Suprema dove, grazie ai tre giudici da lui stesso nominati, gode di una maggioranza confortevole. La situazione è delicatissima poiché riguarda le condizioni della democrazia negli Stati Uniti e, da non dimenticare, le sue possibili conseguenze sul resto del mondo.
Sarebbe sbagliato attribuire all’intero sistema istituzionale della Repubblica presidenziale gli inconvenienti elettorali e i problemi politici ai quali stiamo assistendo con grande preoccupazione. Le modalità con le quali votare, ad esempio, il voto postale, e i tempi e i modi del conteggio sono determinati dagli Stati. Questa è una delle implicazioni del federalismo che consente una varietà di soluzioni fino a quando non sarà una legge federale a stabilire l’uniformità. Qui sta il problema politico poiché i repubblicani dispongono tuttora di maggioranze nelle assemblee rappresentative di trentacinque stati su cinquanta. Quindi, si opporranno a qualsiasi richiesta di uniformità nella legislazione elettorale.
Vinca oppure no Trump non avrà comunque ottenuto, come nel 2016, una maggioranza del voto popolare. Continueranno ad essere i Grandi Elettori designati in ciascuno degli Stati a decidere il vincitore. Anche questa è una conseguenza del federalismo. Per rassicurare gli Stati piccoli in termini di popolazione che non sarebbero stati schiacciati dagli Stati grandi i Costituenti sancirono che vincere la Presidenza avrebbe richiesto una convergenza fra più Stati e che i piccoli non sarebbero risultati emarginati. Soltanto con un emendamento alla Costituzione si potrebbe stabilire l’elezione popolare diretta del Presidente, ma qualsiasi emendamento costituzionale richiede l’approvazione ad opera di tre quarti delle assemblee statali, un quorum irraggiungibile per i democratici.
Ciò detto, l’elemento politico più importante per spiegare il (cattivo) funzionamento della democrazia USA è rappresentato dalla radicalizzazione a destra del Partito repubblicano da più di vent’anni. Consapevoli di essere oramai diventati minoranza nel paese, ma non negli Stati del Sud e, in parte, del Midwest, difendono con le unghie e con i denti le loro posizioni. Disciplinatamente e senza nessuna concessione, approfittando dell’eterogeneità dei Democratici, sono finora riusciti ad esercitare un potere sproporzionato. Conquistata la Corte Suprema per un lungo periodo di tempo poiché i giudici rimangono in carica a vita, i repubblicani potranno cancellare la riforma sanitaria di Obama e rendere praticamente impossibile l’interruzione della gravidanza. La posta in gioco dell’esasperante conteggio di qualche milione di voti già difficoltosamente espressi è l’anima della società americana.
Pubblicato AGL il 5 novembre 2020
Trump ha messo in crisi il tanto lodato sistema istituzionale americano @domanigiornale

La Presidenza di Donald Trump ha rivelato alcuni seri inconvenienti nel molto lodato sistema politico istituzionale USA. Uno dei principi del federalismo, vale a dire che per vincere i candidati debbono ottenere la maggioranza dei voti nel Collegio Elettorale, fatto per impedire agli Stati grandi di avere un’influenza decisiva sull’esito, si è rivelato tremendamente significativo per gli Stati medio-piccoli. Molto più di George W. Bush, che ottenne mezzo milioni di voti meno del democratico Al Gore, il meccanismo del Collegio ha consentito a Trump di diventare presidente con tre milioni meno di voti di Hillary Clinton. Dunque, di essere tecnicamente un Presidente di minoranza. Grazie all’esistenza di una maggioranza repubblicana in Senato, il Presidente Trump ha praticamente travolto il principio liberale della separazione dei poteri. Il suo potere esecutivo condiziona in maniera sostanziale il potere legislativo a partire dal Senato e si è esteso alla Corte Suprema. Infatti, Trump ha sfruttato l’inusitata opportunità di nominare alla Corte addirittura tre nuovi giudici, tutti con un ineccepibile pedigree molto conservatore. Se sarà confermata la terza nominata, i repubblicani potranno contare su una maggioranza 6 a 3 per i prossimi trent’anni [i giudici sono nominati a vita]. I democratici hanno annunciato la loro intenzione di aumentare il numero dei giudici e di conferire loro un mandato fisso di diciotto anni per garantire un ricambio fisiologico più frequente.
Due altri elementi molto preoccupanti hanno fatto la loro comparsa con la Presidenza Trump. Come notato quasi trent’anni fa dal sociologo-politologo spagnolo Juan Linz, nelle democrazie parlamentari i capi di governo inadeguati, che provocano danni, sono facilmente sostituibili. Nel presidenzialismo può succedere che l’alta carica venga conquistata da un outsider, e Trump sicuramente lo era, il quale, poi, potrà comportarsi in maniera irresponsabile poiché il suo mandato è fisso e rigido. Se si rivela incompetente, imbarazzante, nepotistico, corrotto, pericoloso, sarà comunque difficile persino per il suo partito sostituirlo tranne in caso di impeachment per violazione della Costituzione. In effetti, l’impeachment è stato tentato dai democratici contro Trump, ma i repubblicani hanno fatto muro. Soltanto negli ultimi quattro-cinque mesi un piccolo numero di repubblicani ha preso le distanze dal Presidente.
Spesso gli studiosi e i politici criticano alcune democrazie perché non rispettano i diritti, eliminano i freni e i contrappesi, l’esecutivo travolge il Parlamento e manipola il potere giudiziario. Quelle democrazie vengono ritenute di qualità inferiore e definite “elettorali” poiché si vota anche se le elezioni non sono propriamente e del tutto libere e eque. Negli USA, non da oggi, i repubblicani negli Stati mettono in atto una vera e propria “soppressione del voto”. Ancora di recente la Corte Suprema si è rifiutata di esprimersi in materia di gerrymandering, cioè di ridisegno truffaldino dei collegi elettorali, lasciando la decisione alla politica (cioè al Congresso) e alle assemblee dei singoli Stati, trentacinque dei quali hanno maggioranze repubblicane. Queste maggioranze si sono attivate per rendere difficilissimo votare a partire dalla registrazione degli elettori a continuare con la riduzione degli orari in cui si può votare (di martedì) con l’allestimento di un numero limitato di seggi elettorali e così via. Da ultimo, il Presidente si è scagliato contro la possibilità di votare per posta, asserendo mai provate frodi elettorali dei Democratici e rifiutandosi di assegnare fondi a questo tipo di voto la cui richiesta in tempi di Covid è molto aumentata. Il Postmaster General, da lui nominato in quanto suo generoso finanziatore, ha frequentemente sostenuto che potrebbero esserci problemi di arrivo tempestivo delle schede spedite per posta (le stime parlano di un 40 per cento dei voti espressi, in alcuni Stati molti elettori hanno già espresso il loro voto) e di inevitabile lentezza dello scrutinio. Insomma, con grande scandalo, anche di alcuni politici italiani, potremmo non conoscere il nome del vincitore la sera stessa del voto. Last but not least, Trump si è rifiutato di dichiarare che accetterà il risultato e agevolerà la transizione.
In definitiva, il presidenzialismo USA sta mostrando non pochi inconvenienti ai quali soltanto politici lungimiranti che trovino accordi significativi potrebbero porre rimedio. Purtroppo, per i cittadini USA, ma anche per noi, l’irresistibile scivolamento dei repubblicani su posizioni fortemente conservatrici ha dato vita a una democrazia maggioritaria polarizzata. Con tutti i rischi che ne conseguono. I Padri Costituenti stanno incrociando le dita.
Pubblicato il 20 ottobre 2020 su Domani

