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Chiediamoci cosa penserebbero della guerra gli intellettuali pubblici che di guerre ne avevano viste e analizzate

L’intellettuale pubblico a modo mio, sulla scia di Orwell, Camus, Aron e Bobbio, definisce la guerra e argomenta che sono giustificabili esclusivamente le guerre di difesa. Sostiene, quel mio intellettuale pubblico, che è giusto sanzionare chi ha lanciato la guerra, con la perdita del potere politico (sì, proprio regime change) e talvolta della vita. I dittatori meritano di essere umiliati purché sia possibile sostituirli con qualcuno meno repressivo e oppressivo di loro. Non bisogna citare Keynes invano. Nel piccolo prezioso libro Le conseguenze economiche della pace (1919), il grande economista liberale inglese criticò come controproducenti le richieste esagerate di risarcimenti imposte alla Germania, non la sostituzione dei governanti. Da ultimo, ho detto senza successo alla Associazione “il Mulino”, chiediamoci sempre cosa penserebbero della guerra gli intellettuali pubblici che ho citato e che di guerre ne avevano viste e analizzate. Se “bisogna immaginare Sisifo felice”, famosa frase di Camus, è perché continua ad adempiere il suo compito pur sapendo che non avrà termine.

Né ipse dixit né parole in libera (remunerata) uscita @DomaniGiornale

Trovo quasi sempre abbastanza interessante seguire, mantenendo qualche distanza, il dibattitto pubblico su tematiche importanti fra studiosi e intellettuali. So che esistono intellettuali e “professoroni” che si fanno pagare interviste e comparsate. Poiché a me, di persona personalmente non è mai capitato mi sono venuti alcuni dubbi sulla mia doppia appartenenza. Qualche indagine suppletiva potrebbe essere utile, si chiama trasparenza. Non nego che ascoltare opinioni diverse sia sempre una buona idea. Da qualunque punto di vista, democratico, il pluralismo è un valore in sé oltre a poter servire ad una miglior comprensione del problema e persino alla prospettazione di soluzioni. Credo che di soluzioni ce ne sia sempre più di una con i loro specifici tempi, vantaggi, costi. Infine, qui termina la mia premessa culturale e metodologica, auspico che anche le opinioni degli intellettuali e dei professori siano sottoposte al fact-checking. Più precisamente, le parole in libertà debbono essere ritenute tali, e basta.

   Quello che, invece, fermamente rifiuto e costantemente suggerisco di evitare è che nell’indispensabile contraddittorio, da un lato, vi sia necessariamente un interlocutore privilegiato. Allora meglio se il formato è quello di una intervista, naturalmente purché l’intervistatrice/tore abbia autorevolezza e preparazione adeguata. Dall’altro, che si eviti il richiamo risolutorio all’ipse dixit, ovvero della citazione che taglia la testa al toro perché è di uno studioso messo al disopra di tutto/tutti. Ne faccio un esempio solo, la dichiarazione di Noam Chomsky a Pressenza, la International Press Agency, pubblicata il 20 marzo 2022: “dovremmo assodare alcuni fatti che sono incontestabili. Il più cruciale è che l’invasione russa dell’Ucraina è un crimine di guerra maggiore, paragonabile all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e all’invasione della Polonia da parte di Hitler e Stalin nel settembre 1939”.

   Credo che tutti abbiamo diritto di chiedere a Chomsky quale è la sua definizione di crimini di guerra e quali sono i suoi criteri di valutazione. Questa è la procedura che dovrebbe guidare e impregnare il dibattito, si parva licet, anche quando ascoltiamo, senza prevenzioni, quanto Alessandro Orsini asserisce in interventi/eventi remunerati. In questa chiave, sento di potere respingere la dichiarazione di Chomsky nell’intervista già citata: “Non c’è commento da fare sul tentativo di Putin di offrire giustificazioni legali per la sua aggressione, tranne che vale zero”. Al contrario, quelle giustificazioni vanno prese sul serio e sottoposte a verifiche fattuali. Proprio come le affermazioni di coloro che vedono nell’aggressione russa all’Ucraina, mi correggo nella “operazione militare speciale”, il fattore scatenante e quelli che al contrario sostengono l’esistenza di prove dell’ambizione espansiva della NATO e, addirittura, delle ambizioni imperialiste di Biden (mi viene da sorridere poiché l’imperialismo intrattenuto dagli ottantenni mi pare, come minimo, piuttosto infrequente).

Il succo è che il dibattito deve essere impostato sull’apertura a una pluralità di opinioni, sulla verifica della loro validità, sul rifiuto dell’eccellenza di una qualunque di loro e, last, ma tutt’altro che least, sul valore di una convivenza giusta che non esclude, tutt’altro, che i responsabili delle operazioni militari, più o meno speciali, vengano chiamati a risponderne, politicamente e penalmente.

Pubblicato il 10 aprile 2022 su Domani

Gli intellettuali hanno deciso di cancellare il dibattito? @DomaniGiornale #DibattitoPubblico

“Gli editorialisti di questo giornale non debbono criticarsi a vicenda nei loro articoli”. Questa frase, ripetutami più volte, mi è rimasta impressa. Ho prestato maggiore attenzione a quello che gli editorialisti di quel quotidiano e del suo concorrente più diretto scrivevano e ne ho trovato conferma. Talvolta i loro articoli argomentavano in maniera diversa e offrivano interpretazioni divergenti, persino anche se raramente, in maniera plateale. Tuttavia, l’interlocutore non veniva citato. Difficile dire se i lettori cogliessero le differenze e considerassero positivo il silenzio sui nomi degli autori che si contrapponevano.

Se la buona informazione democratica passa anche, direi soprattutto, da un dibattito pubblico di idee e di interpretazioni, non è questo che trovo sui quotidiani italiani. Leggo, invece, di frequente quegli stessi editorialisti che, con opportuna distanza temporale, recensiscono i loro rispettivi libri quasi mai sollevando dubbi, rilevando mancanze, individuando problemi. Anche questo è in linea con il forte consiglio (sic) a non criticarsi reciprocamente. Impossibile, non solo per il lettore medio abituale, ma anche per lo specialista, sapere da quella recensione se quel libro apporta davvero qualcosa di nuovo, contribuisce a spiegare avvenimenti, fornisce visioni alternative. Sicuro, però, che considerevole è l’effetto pubblicitario di una recensione a tutta pagina, magari non direttamente sulle vendite, ma sulla visibilità. L’autore, chiedo scusa, l’autrice sarà chiamata a parlare del suo libro in due/tre salotti televisivi nei quali sarà messa in bella mostra la copertina del libro. Poiché è improbabile che conduttrice e conduttore né gli altri ospiti abbiano letto il libro, non ne seguirà nessuna discussione. Nessuna conseguenza possibile in termini di arricchimento delle conoscenze che non esclude affatto che quel libro sia originale, colto, bello da leggere, gratificante. Non lo sapremo da quei salotti. Eppure gli invitati dovrebbero essere interessati a saperne di più, a discutere. Per lo più si trattengono. Se la discussione vertesse prima o poi sul libro che hanno scritto meglio non essersi creati nemici con eventuali critiche passate. Ciascuno degli invitati parlerà solo se interpellato da chi presiede al salotto. Dopo avere sistematicamente lodato l’eventuale servizio esterno dal quale prende le mosse il dibattito, l’invitato, tranne se politicamente schierato, darà sistematicamente ragione, con qualche rara, ma prevedibile eccezione, a chi gli/le ha fatto la domanda: “Assolutamente, sì!” Gli ospiti che intervengono successivamente non menzioneranno chi li ha preceduti, troppo onore, meno che mai se sono in dissenso. Più facile dirsi d’accordo il che per lo più conduce alla menzione del proprio intervento da parte dell’ospite successivo. Non so quanto sia vero che i telespettatori dei talk show televisivi vi assistono distrattamente salvo fare salire la curva dell’audience quando gli ospiti si accapigliano. So che ci sono guastatori di mestiere, spesso invitati per questa loro precipua propensione. Naturalmente, da questi incidenti non scaturisce mai informazione, non discendono elementi conoscitivi, non si costruisce un dibattito pubblico istruttivo.

Scrivo questo articolo mentre sui giornali si ricorda il centesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini. Mi trovai spesso in disaccordo sulle sue prese di posizione nelle quali riconobbi sempre vera sostanza. Dove (su quale quotidiano?, oso: in quale salotto televisivo?) sono finiti gli intellettuali pubblici in grado di discutere con Pasolini?

Pubblicato il 23 febbraio 2022 su Domani

Saltare giù dal carro dell’opposizione

Il procedimento, già sperimentato in altre, non altrettanto eclatanti, situazioni, è relativamente semplice. Prima si costruisce l’avversario, anzi, in, più o meno consapevole, omaggio al detto “molti nemici molto onore”, se ne mettono tanti, senza nessuna distinzione, di avversari in una grande sacca. Non ci si deve curare in nessun modo della loro provenienza, di quello che hanno effettivamente detto ed eventualmente scritto, delle loro differenze passate, della loro cultura, dei loro obiettivi. Trovato (o, meglio, costruito) un minimo comun denominatore, ecco che si può stilare, come ha fatto Paolo Mieli una decina di giorni fa sul “Corriere della Sera”[14 marzo 2018 ndr], ma come hanno prontamente “copiato” altri giornalisti, una lista di intellettuali che agilissimamente sarebbero/sono pronti a saltare sul carro del vincitore, tale essendo reputato il Movimento Cinque Stelle. Se poi, c’è anche un caso esemplare, voilà, gli si dedica un profilo in prima pagina: Aldo Grasso, Stare all’opposizione? Per il Prof è eversivo, “Corriere della Sera”, 11 marzo 2018, con tanto di foto mia e di titoli accademici. Il messaggio non proprio subliminale è: “Vedete dove si può finire oppure, peggio, come ha fatto mai questo tale a ottenere tutti questi ‘onori’ e poi scrivere che in una democrazia parlamentare chi (il due volte ex-segretario del Partito Democratico) si chiama fuori dal sistema compie un atto eversivo?” Naturalmente, “eversione” non è stare all’opposizione, ma stravolgere le regole della democrazia parlamentare negandosi a qualsiasi confronto. Eversione è anche imporre ai propri parlamentari nominati un comportamento oppositivo in spregio al dettato costituzionale dell’art. 67: rappresentare la nazione “senza vincolo di mandato”.

A seguire, su quel carro mi ci mise prontamente, senza nessun controllo del fatto, anche Mieli. Naturalmente, né le motivazioni né le argomentazioni vengono minimamente esplorate e offerte ai lettori. Che poi, da un lato, il Movimento Cinque Stelle abbia avuto i voti di un terzo degli elettori italiani è un elemento raramente menzionato. Che, dall’altro, la linea di un partito non possa e non debba essere dettata da un segretario che ha pesantemente perso le elezioni è un elemento considerato irrilevante. Che, inoltre, esista, seppure sotterraneo, un dissenso su quella linea protervamente oppositiva dentro il PD, lo si può ignorare esclusivamente a scapito di una corretta informazione. Che, infine, nessuno si preoccupi di delineare le alternative per quel partito, ma, in special modo, per dare un governo al paese, è davvero preoccupante.

La mattina in cui i dirigenti del PD salgono al Colle per le consultazioni con il Presidente Mattarella, Mieli giunge a occuparsi de “Le baruffe senza fine in casa PD” [Corriere della Sera 4 aprile 2018 ndr]. Troppo poco, forse troppo tardi. Forse è il caso di interrogarsi se il problema sono le baruffe oppure è l’oggetto (forse anche al plurale) delle baruffe? Ovvero che si tratti proprio di quello che alcuni dei presunti saltatori avevano concretamente posto, vale a dire quale politica deve fare un partito che, pur avendo chiaramente e nettamente perso le elezioni, dispone di circa il 20 per cento dei seggi in entrambe le camere? Di un partito che non può dire “fate voi che avete vinto. Noi andiamo all’opposizione (di quale governo non si sa, quindi, “a prescindere” avrebbe detto il principe de Curtis); sulla base di quale analisi del voto, delle preferenze degli elettori che lo hanno ostinatamente votato, delle motivazioni con le quali due milioni e mezzo di elettori sono andati verso altre scelte, in quantità maggioritaria verso le Cinque Stelle; con quali potenziali proposte, ovviamente bisognerebbe anche conoscere le attualmente inesistenti proposte del governo che non c’è; e ci andiamo soprattutto per rinnovare il partito. Poi magari rifletteremo se stare all’opposizione preconcetta sia (stata) la premessa del rinnovamento di qualsiasi partito.

Comunque, quello che Mieli non ci dice è proprio quello che alcuni degli intellettuali più o meno elastici saltatori hanno cercato di discutere, meglio di imporre alla discussione di quel partito, non solo dei suoi dirigenti, tutti saldamente tornati su comode poltrone grazie ad una legge elettorale che il relatore Rosato (inopinatamente già promosso a vice-presidente della Camera) continua a difendere e per cambiare la quale alcuni addirittura vorrebbero un governo di (mono)scopo. Ci sono baruffe e baruffe, ma se, ipotesi del terzo tipo, la baruffa riguardasse la formazione del prossimo governo che, sicuramente, a Paolo Mieli fautore della governabilità (non, come scrive maliziosamente, del coinvolgimento “in qualche combinazione governativa” che, incidentalmente, è proprio quello che succede nelle democrazie parlamentari) che, secondo lui e molti altri collaboratori del “Corriere”, sarebbe miracolosamente derivata dalle riforme costituzionali renziane, non sarebbe adesso giusto riconoscere che almeno alcuni degli intellettuali hanno posto il problema per tempo e non sarebbe opportuno chiedere al PD che il dibattito interno, i cui effetti riguardano molti milioni di elettori, affronti in maniera democratica senza indugi e senza sotterfugi l’argomento?

Pubblicato il 5 aprile 2018 su PARADOXAforum

Davvero gli intellettuali di sinistra sono saltati sul carro a cinque stelle del vincitore?

Abilmente destreggiandosi (sic), gli intellettuali di sinistra, nonostante l’età non più verde, sono saltati sul carro a cinque stelle del vincitore. Questo sostengono maldestramente gli editorialisti del “Corriere” e de “La Stampa”, in parte minore quelli di “Repubblica” poiché lì si annidano alcuni di quegli intellettuali. Pur guardandosi fra loro in cagnesco, c’è sempre chi è più intellettuale e più di sinistra di altri, tutti vorrebbero, secondo commentatori “democratici” e destrorsi, un rassicurante ritorno al passato e alla società chiusa. Chi sa se, invece, non sia possibile pensarla come un grande intellettuale, certo non di sinistra, Isaiah Berlin, che fra due mali si debba scegliere il male minore?