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Garibaldi ha scritto un sms a Pasquino. Ecco cosa dice @formichenews

In tutti i governi di coalizione le tensioni sono fisiologiche. Ma alleati e competitor dovrebbero cominciare a preoccuparsi delle elezioni europee della primavera del 2024, e degli appoggi più o meno sovranisti che Meloni sta già trovando… Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica

La notizia è che, letti i giornali sul suo Black Berry, Giuseppe Garibaldi mi ha mandato un sms assicurandomi che l’Italia è già stata fatta e che non saranno né Calderoli né Ronzulli a disfarla. Ha aggiunto che nutre qualche timore in più sui comportamenti dei balneari e dei distributori. Più che europeista molto ante litteram, anzi globalista di sinistra, ma non ditelo al Ministro Sangiuliano, l’eroe dei due mondi sostiene anche che i bastoni fra le ruote del governo Meloni non sono soltanto quelli messi da alcuni forzitalioti in cerca di sopravvivenza e da Salvini in cerca di se stesso prima del Papeete, ma quelli che si trovano in proposte elettoralistiche imbarazzanti sulle quali adesso bisogna che il governo Meloni faccia marcia indietro. Lo ho scritto con grande nettezza Emanuele Felice (Come si evolverà la destra di governo, in “Domani” 15 gennaio 2023). Da italiano che ne ha viste tante, rimanendo con la schiena diritta e rifiutando di farsi ingabbiare nello spoils system, Garibaldi afferma che in tutti i governi di coalizione le tensioni sono fisiologiche. L’opposizione fa il suo mestiere a esagerarne l’importanza, ma la sorpresina è che, denunciando i nervosismi degli alleati, la Presidente del Consiglio un po’ li mette alla berlina un po’ li disinnesca. Questa strategia funzionerà poiché né Forza Italia né la Lega sanno dove andare.

   Ciò detto, poiché da Caprera si riesce a vedere molto lontano, all’orizzonte si stagliano due momenti della verità. Il primo è costituito dalle riforme costituzionali; il secondo dalle elezioni per l’Europarlamento. Combinare l’autonomia differenziata con il semi-presidenzialismo finora indefinito non sarà un giochino da ragazzi poco esperti. Spiegare ad una parte almeno degli elettori patrioti che approfondire i solchi, non quelli tracciati dall’aratro, del regionalismo, rafforza la Patria, richiederà più di qualche conferenza stampa a reti unificate. Quanto al semi-presidenzialismo, l’unica certezza è che gli oppositori stanno dimostrando di non sapere cosa contrapporvi se non allarmismi e formule inesistenti e sbagliate: Sindaco d’Italia o Premierato, di recente diventato flessibile, ma sempre immaginario. Poi toccherà all’elettorato nel quale sicuramente Meloni sembra fare molta più breccia di qualunque competitor.

   Alleati e competitor dovrebbero altresì cominciare a preoccuparsi delle elezioni europee della primavera del 2024 e degli appoggi più o meno sovranisti che Meloni sta già trovando. Una coalizione fra Popolari arrendevoli e Conservatori arrembanti sembra destinata, sulla base di loro varie avanzate elettorali nazionali, ad avere successo. Però, disfare l’Europa, ovvero ridimensionare  le aree di collaborazione, non soltanto non servirà a fare né l’Italia né gli italiani, ma avrà contraccolpi pesanti sull’economia. Allora, davvero, finirà per tutti la pacchia.

Pubblicato il 15 gennaio 2023 su Formiche.net

Le inadeguatezze politiche e identitarie delle opposizioni @DomaniGiornale

Come reagire di fronte alle politiche del governo di destra-centro? (In)comprensibilmente, le opposizioni stanno già dando immediata prova della loro inadeguatezza. Il governo Meloni prosegue in alcune scelte preannunciate dal governo Draghi, ad esempio, il reintegro del personale sanitario NoVax (pochi medici molti infermieri e collaboratori vari), le opposizioni si esercitano sulla critica invece di portare elementi e dati a sostegno di una politica di maggiore cautela. Il governo mette in cima alle sue priorità l’ordine pubblico (gestione e conclusione senza violenza del rave party di Modena), le opposizioni spostano, anche giustamente, l’attenzione sulla marcia di Predappio da loro poco o nulla contrastata nel passato. Il governo Meloni emana decreti, le opposizioni con la coda di paglia non denunciano la decretazione d’urgenza su tematiche sulle quali è lecito chiedere il passaggio parlamentare e sfidare la compattezza della maggioranza. Non so se possono spingermi fino a ricordare a mio rischio e pericolo al Presidente Mattarella che i decreti debbono essere omogenei come materia e che l’omogeneità non può essere data dall’urgenza, peraltro dubbia e talvolta procurata ad arte. Le opposizioni che denunciano le politiche “identitarie” pensano, forse, che l’elettorato di Fratelli d’Italia e della Lega (l’identità di Forza Italia mi è sfuggita da tempo) non apprezzi esattamente gli elementi che fanno di quei due partiti qualcosa di molto lontano e molto diverso dal PD, soprattutto, ma anche, nell’ordine, dal Movimento di Conte e dalle Azioni (proto: al plurale!) di Calenda e di Renzi? E che siano proprio le pallide/issime identità delle opposizioni, a cominciare da quella del Partito Democratico, uno dei loro problemi, quasi il principale? In effetti, il problema principale delle opposizioni è che continuano nella loro campagna elettorale permanente stando nel loro recinto ovvero cercando strapparsi reciprocamente qualche spazio e qualche voto a futura memoria, criticandosi, invece di individuare i punti di contatto e di collaborazione possibile e facendo leva su di loro.   

Nelle sue diverse uscite pubbliche, la Presidente Meloni ha richiamato la sua maggioranza alla “compattezza e alla lealtà”. I numeri delle varie votazioni finora avvenute la hanno sicuramente confortata. Forse ha anche sorriso (cosa che agli arcigni oppositori, alcuni dei quali assolutamente privi di sense of humour non riesce proprio) di fronte all’attivismo in parte folkloristico in parte patetico di Salvini che corre sempre a dichiarare per primo. Il body language di Giorgia Meloni rivela una quasi assoluta sicurezza di essere in controllo della sua maggioranza. Vero: non è “ricattabile”. Vale la pena di perdere tempo e fiato per tentare di spingerla all’indietro in un passato che non fa fatica a dichiara che non le appartiene? Si guadagnano voti e si incrina la maggioranza con il richiamo di una storia che probabilmente la maggioranza degli italiani non conosce a sufficienza e certo reputa meno inquietante del prezzo del gas e del costo del carrello della spesa? No, il governo Meloni non cadrà e non cambierà linea leggendo i tweet di Letta, Conte e Calenda e neanche quelli del manovriero Renzi. In una democrazia parlamentare una opposizione intelligente sposta la battaglia nelle Commissioni e nelle aule del Parlamento. Si attrezza per il controllo di quello che il governo fa, non fa (sic), fa male e per la controproposta che farà ossessivamente circolare sui mass media grazie ai suoi intellettuali da talk show e nelle circoscrizioni elettorali grazie ai suoi molti parlamentari paracadutati/e.

Pubblicato il 2 novembre 2022 su Domani

Come fare un buongoverno con il venerabile Manuale Cencelli

Il silenzio di Giorgia Meloni e il suo attendismo sul discutere i nomi dei ministri prossimi venturi sono una buona strategia, raccomandabile anche ai troppi commentatori di lungo corso che si stanno esibendo in poco originali critiche al famoso/famigerato Manuale Cencelli. Per valutare e eventualmente per criticare, meglio tornare ai principi fondamentali sui quali si costruiscono i governi di coalizione. Ai partiti che ne fanno parte viene attribuito un certo numero di ministeri con riferimento ai voti che hanno ottenuto, ma anche al peso e all’importanza dei Ministeri che, sottolineo, il Manuale Cencelli indicava con accurata precisione. Su questo piano, è evidente che Fratelli d’Italia avrà, oltre alla carica di Presidente del Consiglio, anche almeno altre tre o quattro Ministeri importanti. Un ministero importante ciascuno spetterà alla Lega e a Forza Italia. Quali ministeri dipende da valutazioni politiche molto complesse. Farò pochi, ma rivelatori, esempi. Il primo riguarda l’Europa.

   Per mandare un segnale non troppo sovranista, Meloni potrebbe nominare Ministro degli Esteri un esponente di Forza Italia che è il partito europeista della sua coalizione. I contrappesi potrebbero essere i due sottosegretari e, eventualmente, un esponente di Fratelli d’Italia a Ministro dei Rapporti con l’Europa. Sappiamo noi e sa Meloni che sull’europeismo fortissima è la vigilanza del Presidente della Repubblica che l’ha già clamorosamente esercitata (e che l’anticiperebbe anche in maniera confidenziale per telefono!) All’Economia e alla Transizione ecologica dovranno certamente andare due persone di riconosciuta competenza. Meloni è tutt’altro che incline a fare affidamento su ministri “tecnici”, ma in questo caso potrebbe essere costretta a fare una eccezione o due a meno che ricorra a qualcuno non parlamentare che ha già ricoperto la carica di Ministro. Lei stessa molto critica del reddito di cittadinanza vorrà nominare al Lavoro qualcuno che ne attui una profonda revisione. Infine, se le è giunta la preoccupazione di alcuni ambienti esteri sulla inclinazione dei sovranisti ungheresi e polacchi a controllare (manipolare) la magistratura e le università, quei ministri dovranno essere al disopra di ogni sospetto, ma i nomi che al momento circolano, proposti anche dalla Lega, proprio non lo sono.

   Il Manuale Cencelli prevedeva giustamente di includere nell’assegnazione delle cariche anche le Presidenza di Camera e Senato. È possibile sostenere che almeno una di quelle cariche vada, come segno di distensione, a un esponente dell’opposizione che, però, a causa delle sue divisioni e conflittualità, è legittimo pensare non sarebbe in grado di farne un uso benefico per il buon funzionamento delle istituzioni. Combinare competenza e esperienza per un partito che per la prima volta si affaccia al governo della Nazione (della Patria) non sarà facile. Mi rimane un interrogativo, mai preso in considerazione dal Manuale Cencelli: la donna Meloni si orienterà anche verso la parità di genere? 

Pubblicato AGL il 30 settembre 2022

Meloni vince, ma il rischio è la Lega debole. Parla Pasquino #intervista @formichenews

Ma quale rischio democratico, spiega il prof. Pasquino a Formiche.net, il problema principale per Giorgia Meloni sarà una Lega sotto il 10% che potrebbe scalpitare per far sentire la sua voce. Il Pd? Altro che occhi di tigre, piuttosto piedi di elefante…

Intervista raccolta da Simona Sotgiu

I numeri non sono ancora definitivi, ma non sono incoraggianti. L’affluenza per queste elezioni politiche è di circa 10 punti percentuali in calo rispetto alle politiche del 2018, attestandosi su poco più del 64%. Al di là dell’astensione, il cui dato non fa certo sorridere, è ormai chiara la vittoria del centrodestra a trazione meloniana sul centrosinistra guidato da Enrico Letta.

Formiche.net ha chiesto un commento al professore emerito di scienza politica e accademico dei Lincei Gianfranco Pasquino.

Professore, cosa dice il calo dell’affluenza?

La crescita dell’astensione è fisiologica, cresce da anni, e certamente non riflette quanto, per molti di noi, queste elezioni siano importanti. Il risultato del voto quindi non riflette il senso che tanti cittadini hanno dato a questo voto. Però dice anche che dare per scontato che gli elettori vadano a votare non paga, che immaginare che un candidato forte possa trascinare l’elettorato storico è un ragionamento ormai sbagliato anzi, forse anche controproducente.

Chi premia l’astensione?

L’astensione non premia nessuno e non punisce nessuno, però se pensiamo al partito che storicamente è riuscito a mobilitare di più sicuramente possiamo dire che a rimetterci di più è il Partito democratico. I candidati e le candidate non hanno lavorato abbastanza per portare gli elettori al voto, e l’astensione lo dimostra. Altro che occhi di tigre, direi piuttosto zampe di elefante!

Professore, con la destra al governo c’è davvero il rischio democratico?

Non ho mai condiviso l’idea di far crescere la percezione del rischio per far rifluire gli elettori al voto, e certamente non c’è un rischio democratico all’orizzonte. Ho due timori, comunque, molto concreti con un centrodestra a trazione Meloni al governo.

Iniziamo dal primo…

Il primo timore riguarda la confusione nel centrodestra. Forza Italia con percentuali molto basse rischia di non essere un contrappeso sufficiente rispetto a Fratelli d’Italia molto forte. Una Lega al di sotto delle aspettative, poi, è una mina vagante: per farsi notare farà la voce grossa, e questo sarà un problema per la tenuta unitaria del centrodestra.

Il secondo?

Il secondo riguarda l’approccio che Giorgia Meloni sceglierà di avere con l’Europa. Se farà la sovranista e si porrà con un muro contro muro con l’Ue per l’Italia sarà un problema, e non piccolo.

Pubblicato il 25 settembre 2022 su Formiche.net

Sic transit Draghi

Alla domanda del Presidente del Consiglio Draghi, solenne e ripetuta tre volte: “siete pronti a costruire un nuovo sincero patto di fiducia?”, la risposta di quel che resta del Movimento 5 Stelle è stata, insinceramente, che il patto non l’avevano rotto loro. La risposta di Lega e Forza Italia è stata: “no, vogliamo negoziare un nuovo governo con un ampio ricambio nelle cariche ministeriali”, implicitamente perseguendo il loro obiettivo principale, ovvero l’emarginazione dei Cinque Stelle. Poiché l’obiettivo di Draghi, condiviso con il Presidente della Repubblica, consisteva nel tenere insieme tutti coloro che avevano dato vita al suo governo, tutti gli spazi di continuazione si sono bruscamente chiusi. Senza possibilità di recupero. Peggio, però: invece, di assumersi a viso aperto le loro responsabilità politiche, Forza Italia, la Lega e il Movimento 5 Stelle hanno annunciato la non-partecipazione al voto. Poiché il voto di fiducia si esprime attraverso l’appello uninominale, gli italiani, in nome e per conto dei quali i parlamentari sostengono di lavorare, rappresentandoli, non sapranno come il “loro” Senatore/trice ha effettivamente votato. II novantacinque “sì” (Partito Democratico e LiberieUguali) ottenuti da Draghi non sono numericamente e, meno che mai, politicamente sufficienti per rimanere in carica. Dobbiamo augurarci che nessuno li utilizzi per qualche oscura manovra parlamentare.

   Una legislatura inizialmente dominata dagli opposti populismi di Cinque Stelle e Leghisti, continuata con Cinque Stelle e Partito Democratico, si conclude con la rovinosa sconfitta di uno dei governi italiani migliori di sempre per quello che ha fatto, per quello che ha impostato, per il suo prestigio in Europa e per la autorevolezza e credibilità del suo Presidente del Consiglio. Tutto sostanzialmente irripetibile. Naturalmente in una democrazia parlamentare i governi nascono, si trasformano, muoiono in parlamento. Agli elettori viene regolarmente affidato il compito di valutare quello che i partiti da loro votati e i parlamentari da loro eletti hanno fatto, non fatto, fatto male. Chiedere agli elettori di risolvere i conflitti di Palazzo, illuminare tensioni oscure, stigmatizzare ambizioni inconfessabili non è un modo democratico di operare. Chiamare gli elettori italiani a votare con qualche mese di anticipo rispetto alla scadenza naturale della legislatura, marzo 2023, senza spiegare le conseguenze costose dell’anticipo, prima fra tutte le probabilmente grande difficoltà a completare tutte le opere richieste e abbondantemente finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza, è molto grave. Certamente non serve per educare i cittadini alla complessità della politica. La fine brusca e brutale del governo Draghi segnala che alcuni partiti italiani perseguono il potere in sé prima che il potere per attuare il programma indispensabile al rilancio dell’Italia. La situazione, nazionale e internazionale, è davvero brutta.  

Pubblicato AGL il 21 luglio 2022

I partiti che vogliono la crisi hanno fatto i conti? @DomaniGiornale

Cinque stelle cadenti, fibrillanti, deluse e deludenti, anche se escono dal governo, non riusciranno, numericamente, a privarlo della maggioranza. Politicamente, di certo Mattarella lo ha fatto sapere alto e forte a Conte, faranno un errore e, soprattutto, un torto, più che altro di immagine, quella che deriva da instabilità/inaffidabilità, all’Italia poichè il governo potrà continuare. “Tiremm innanz” dirà Maio Draghi che, giustamente, non vuole fare pagare al paese il prezzo delle bizze di Conte che ha bisogno di fare la faccia feroce per dimostrare di essere quel capo politico che per provata flagrante mancanza di capacità (e di umiltà di apprendimento) non riuscirà mai a diventare. Fuori all’aperto, libero e svincolato, il Conte incontrerà forse il Di Battista errante, ma quante divisioni di elettori avranno mettendosi insieme? E chi di loro due ha in qualche modo dimostrato di saperli raggiungere, convincere, organizzare e motivare ad andare alle urne? Con quali premesse, prestazioni e promesse? Quale “visione” sta elaborando il Conte, con l’aiuto, indispensabile, di chi? Di un paio di giornalisti e qualche sociologo di riferimento?

   Altra storia sarebbe, sarà, se ad andarsene, più o meno inopinatamente, fosse la Lega di Salvini (quella di Zaia, Fedriga, Giorgetti soffrirebbe, ma si presterà all’obbedir tacendo). Preferibile è continuare a vedere il salasso di punti di sondaggi a a favor della granitica Meloni sperando di recuperare quando gli elettori valuteranno positivamente l’operato della Lega di governo oppure andare ad una tambureggiante campagna elettorale all’insegna del “prima gli italiani” che non si fanno di cannabis, che vogliono meno tasse e più lavoro (no, non anni di lavoro in più!), senza concessioni ai figli di immigrati comunque da integrare evitando scorciatoie?

   Il Presidente del Consiglio guarda e va avanti. Gode di una rendita di posizione e, ce lo ha fatto sapere, un altro lavoro è in grado di trovarselo da solo. Però, quel che non ci ha detto è che risanare e rilanciare (Ripresa e Resilienza) è il compito di una vita, quasi una missione. Dunque, che Conte vada, pazienza; che Salvini continui pure a scalpitare, magari essendo più esplicito in richieste ricevibili, ma rimanga, altrimenti il precipizio della crisi di luglio inghiottirà i cauti e gli incauti.

   Chi vede lungo, ma neanche troppo, non può fare a meno di rilevare che nessuno dei potenziali crisaioli ha, stando così le cose, nulla da guadagnare da elezioni anticipate con la campagna elettorale che inizierebbe ad agosto. Con qualche abile e legittima manovra, il Presidente Mattarella potrebbe anche insediare un governo elettorale che terrebbe a bagnomaria i Cinque Stelle, i leghisti di Salvini e gli speranzosi Fratelli d’Italia. A mio modo di vedere c’è ancora un campo molto largo nel quale ognuno abbia la possibilità di portare un tot di penultimatum a suo piacere. Potrebbero anche utilizzare sei-otto mesi non nello sterile e infantile gioco del pianta-bandierine proprie e strappa le bandierine altrui. Addirittura, si inizierebbe a cogliere tutti insieme qualche frutto del buon uso del PNRR. E, per chi ne ha bisogno, forse sarebbe possibile affermare che il sacrificio di stare al governo è servito proprio a make Italy great again. No, non concludo con nessun richiamo al senso di responsabilità e al patriottismo. Ma /i crisaioli qualche calcolo costi/benefici hanno almeno iniziato a farlo?

Pubblicato il 6 luglio 2022 su Domani  

Il governo non cadrà, ma In Italia non nasceranno altri partiti #intervista @euronewsit

Intervista raccolta da Samuele Damilano

“Nessun partito per ora abbandonerà il governo, per tutti è meglio aspettare la fine naturale della legislatura e intestarsi eventuali meriti”. Così Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica presso l’Università degli Studi di Bologna, e autore del volume “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (Utet), fuga ogni dubbio su una sortita di Movimento Cinque Stelle e Lega dall’esecutivo guidato da Mario Draghi. “Dal caos nei pentastellati possiamo trarre un’ulteriore prova del fatto che in Italia non si possono più creare partiti politici”.

I Cinque Stelle nel caos. La Lega che minaccia la guerra contro lo Ius Scholae. Sfogliando le pagine dei quotidiani italiani, sembra che il governo dall’oggi al domani potrebbe cadere. Sensazionalismo all’italiana?

Caduta del governo ed elezioni anticipate… sono solo stupidaggini. Il modo in cui i media italiani riportano quello che succede è sempre un po’ esagerato. Non c’è alcuna alternativa al governo attuale in questa legislatura: M5s non ha nessun luogo dove andare, ma anche gli altri partiti sono costretti ad appoggiare il governo per rivendicarne una parte del successo e ridurre gli effetti degli esiti elettorali, quasi certamente positivi, di Giorgia Meloni. 

Questa chiamata tra Grillo e Draghi c’è stata, ma è plausibile che il presidente del Consiglio abbia chiesto la testa di Conte?

No, non è plausibile. Mi fido di Draghi, che ha smentito questa versione, ma anche questo onestamente non lo ritengo un argomento interessante. Conte sarà particolarmente fastidioso e Draghi si sarà irritato, ma dato che mi pare psicologicamente stabile, avrà al massimo chiesto detto a Grillo “ma cosa pensa di fare Conte?”. Ricordiamo che quest’ultimo è stato additato come “politicamente incapace” dal fondatore del Movimento. Ma tutto ciò non è rilevante per quello che succederà. 

Rimaniamo in casa pentastellata. Di Maio se n’è andato, Conte è in evidente difficoltà e il fondatore parla direttamente con Draghi. Che cosa è oggi il movimento 5 stelle?

Innanzitutto, non è mai stato un partito, ma un raggruppamento eterogeneo di persone espresse dal territorio con motivazioni flebili e labili, cui è mancata una struttura che potesse accomunarlo a un partito. La cosa più rilevante è che non si possono più creare partiti politici nel contesto italiano. Si possono costruire alleanze, e Letta questo l’ha capito meglio di tutti, cercando di costruire un campo largo, o meglio diversi campi larghi, ottenendo un ottimo risultato nelle elezioni amministrative. Ma per ora non vedo le prospettive per la nascita di un partito vero.

Qual è dunque la legge elettorale migliore per favorire questa coalizione a livello nazionale?

Certamente il sistema maggioritario impone di fare le coalizioni nei collegi uninominali, con il rischio però di avere un parlamento “Arlecchino”. La legge proporzionale consente invece ai vari raggruppamenti di misurarsi e poi di fare un governo aggregandosi a livello parlamentare. 

Dipende molto dal tipo di sistema proporzionale, un’emulazione di quello tedesco, con una soglia di accesso al Parlamento di almeno il 5%, può essere una buona idea. 

Così da evitare, magari, di impantanarsi a ogni provvedimento, come lo Ius scholae..quanto dovrà attendere il Paese per una legge adeguata sulla cittadinanza?

Trovo le modalità del dibattito abbastanza assurde. Lo Ius scholae (proposta di legge del Pd per assegnare la cittadinanza a figli di stranieri che sono in Italia prima dei 12 anni e hanno frequentato cinque anni di scuola, ndr) per i figli degli immigrati è uno strumento di libertà da una condizione di soggezione e sottomissione, li pone sulla strada della cittadinanza, dove godranno di diritti e si assumeranno dei doveri.

“Ci sono altre priorità a cui pensare”, dicono i detrattori di questa proposta di legge

È la classica scusa; è sempre il momento buono per garantire diritti civili e politici alle persone. È ovvio che ci sono altri obiettivi, dal Pnrr all’invasione russa dell’Ucraina, passando per la direttiva Bolkestein, ma una cosa non esclude l’altra. Qua si tratta di trovare il modo di costruire un percorso di cittadinanza per persone che non solo vogliono restare nel nostro Paese, ma vogliono far vivere qua figli e figlie. Mi pare una manipolazione immensa di un problema vero, sulla vita delle persone, che vale molto di più di un pugno di voti. 

Tutto questo sembra solo un antipasto di quello che avverrà nei prossimi mesi, a intensità crescente mano a mano che ci si avvicina alle elezioni. Quale sarà l’impatto dell’opposizione interna di Conte e Salvini dei prossimi mesi sull’efficacia del governo?

L’efficacia di questo governo dipende in sostanza dalla capacità dei ministri di guidare i ministeri che presiedono. Salvini è un ballerino, un piede nel governo e uno fuori, un piede nella Nato e uno a casa di Putin. È inaffidabile, ma non va da nessuna parte neanche lui perché la maggior parte degli esponenti del partito non lo seguirebbe in una direzione che non contempli la permanenza nel governo e la conseguente rivendicazione dei successi ottenuti. Conte invece non ha ancora capito dove è arrivato. Ha svolto il ruolo di capo del governo in maniera adeguata, ma non sa come si costruisce un movimento politico, né tanto meno sa guidarlo. Non è in grado di parlare con i parlamentari, né di rivolgersi all’opinione pubblica. Nessuno può ristrutturare il Movimento. Lo potrebbe fare Grillo, dal punto di vista retorico e ideale, ma da quello strutturale non sanno dove andare, volevano fare la democrazia digitale, che fine ha fatto?

Eppure il Movimento sembrava poter rivoluzionare la politica italiana. Perché, in conclusione, non esisteranno più i partiti nel nostro Paese?

Basta partire da una semplice definizione: un partito è un’organizzazione di uomini e donne che presentano candidati alle elezioni, ottengono voti e vincono seggi e cariche. Ma, a monte, deve esserci un’organizzazione di uomini e donne che credono in qualcosa. C’è un’ideologia, o una cultura politica di riferimento? Ovviamente no. Non vedo prospettive nemmeno per un partito europeista, perché per tre quarti questo spazio è occupato dal Partito democratico. Restano altre tematiche? Il sovranismo, che sembra avere un po’ tirato la corda. Si possono mettere insieme ecologia e diritti per le persone transessuali, ma non è certamente su questo che si costruisce un partito.

Pubblicato il 1 luglio 2022 su euronewsitalia

Meglio non sballottare il voto francese @formichenews

Sconsiglio gli esercizi di comparazione con la situazione italiana fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno, e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei

Le notizie su Emmanuel Macron “sorpassato” da Marine Le Pen si sono rivelate largamente esagerate, cioè sbagliate. Le già non elevate probabilità che il Rassemblement National, almeno apparentemente diventato meno sovranista e anti-Unione Europea, riesca a portare all’Eliseo la sua leader sono chiaramente diminuite. I numeri, direbbero i francesi, cantano. Possiamo ascoltare più di una canzone. La prima è rimasta sottovoce. Quando vanno a votare quasi il 75 per cento dei francesi, tre su quattro, intonare la ripetitiva melodia sull’aumento dell’astensionismo significa, chiaramente, “steccare”. Dopodiché, ovviamente, al ballottaggio la partecipazione elettorale diminuirà poiché un certo numero di francesi, avendo perso il loro candidato/a preferito/a si asterrà- Macron/Le Pen? ça m’est égal! La seconda canzone viene proprio dai numeri. Nel pur molto affollato campo dei concorrenti il Presidente Macron aumenta i suoi voti di quasi un milione rispetto al 2017, mentre l’aumento di Marine Le Pen è di circa 500 mila. A sua volta anche Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto mezzo milione di voti in più rispetto a cinque anni fa. Tutti gli altri candidati, a cominciare dal destro Eric Zemmour, sono chiaramente perdenti, talvolta come la repubblicana gollista Pécresse e la socialista Hidalgo, in maniera umiliante più che imbarazzante.

   Registrato il non troppo ammirevole affanno con il quale i commentatori italiani tentano di trarre qualche lezione francese, risulta opportuno segnalare che domenica 10 aprile si è svolto il primo turno dell’elezione popolare diretta in una repubblica semi-presidenziale. Gli elettori hanno votato, come sanno gli studiosi, in maniera “sincera”, senza nessun calcolo specifico scegliendo il candidato/a preferito/a. Al ballottaggio, invece, una parte tutt’altro che piccola di loro, addirittura quasi la metà, sarà costretta a votare “strategicamente”, in buona misura contro il candidato/a meno sgradito/a. Rimanendo nel campo musicale, il “là” lo ha già dato Mélenchon: “mai la destra”. Naturalmente, nient’affatto tutti i suoi 7 milioni e seicentomila elettori torneranno alle urne. Tuttavia, è molto improbabile che coloro che lo hanno votato perché “anti-sistema” ritengano gradevole che il sistema venga fatto cadere sotto i colpi della destra lepenista.

   Non c’è quasi nulla di cui le destre italiane abbiano di che rallegrarsi. Certamente, Meloni potrebbe sostenere che con il presidenzialismo, che i suoi titubanti alleandi (Salvini e Bersluconi) non le hanno sostenuto, la sua leadership apparirebbe molto visibile (ma poi improbabilmente vincente). Non so quanto Fratoianni, sicuro anti-semipresidenzialista, voglia e possa godersi il voto conquistato da Mélenchon. Sono sicuro che Letta può tirare un sospiro di sollievo, ma saggiamente sa che, guardando oltre il ballottaggio, conteranno i voti per le elezioni legislative francesi che con molta probabilità confermeranno una maggioranza operativa per un vittorioso Macron.

In conclusione, tuttavia, sconsiglio questi esercizi di comparazione fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno (che, forse, Formiche mi inviterà a commentare) e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. “Mogli e voti di casa tua” (antico detto provenzale).

Pubblicato il 11 aprile 2022 su Formiche.net

Francia, Pasquino: “Rivincerà Macron. Boom antipolitico? Fa bene a Fratoianni” #intervista @Affaritaliani

Intervista al professore emerito di Scienza politica: “Se ci saranno scossoni per il governo, non verranno certo dalla Francia” di Paola Alagia

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica: “Nessuna influenza sui partiti di destra in Italia perché Le Pen perderà, Zemmour è andato piuttosto male e Mélenchon, casomai, è antisistema di sinistra. Da noi, quindi, dovrebbe ringalluzzire piuttosto Fratoianni”

I francesi hanno archiviato il primo turno delle presidenziali. L’esito della sfida tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen è rimandato ai ballottaggi tra due settimane. E’ vero che l’attuale inquilino dell’Eliseo è in vantaggio, ma è altrettanto evidente che il consenso raccolto dal fronte dei partiti antisistema, da Le Pen all’estrema destra di Eric Zemmour, alla sinistra di Jean-Luc Mélenchon, sommati agli altri meno rappresentativi, ha superato la soglia del 50%. Quanto basta, soprattutto dopo la vittoria di Orban in Ungheria, per ringalluzzire i partiti di destra in Italia, a cominciare dalla Lega di Salvini? Affaritaliani.it lo ha chiesto a Gianfranco Pasquino. Il professore emerito di Scienza politica non ha dubbi al riguardo: “Nessuna influenza perché sostanzialmente Le Pen perderà, Zemmour è andato piuttosto male e Mélenchon, casomai, è antisistema di sinistra. Da noi, quindi, dovrebbe ringalluzzire piuttosto Fratoianni”.

Professore, la partita comunque rimane aperta e il dato dell’elettorato antisistema significherà qualcosa. Che ne pensa?
E invece no. La partita non è aperta. È assolutamente poco aperta, direi quasi chiusa. A favore di Macron.

Spostiamoci in Italia. Lei, dunque, guardando al governo Draghi escluderebbe fibrillazioni come riflesso del voto francese? Mi riferisco alla tentazione del voto per esempio da parte della Lega che potrebbe portare Salvini ad abbandonare la maggioranza.
Non possiamo trascurare un elemento saliente e cioè che l’elettore è sufficientemente intelligente da capire che vota per il Parlamento italiano e quindi guarda i dati francesi con sufficienza. Da noi i cittadini, questo sì, sarebbero molto più preoccupati se Le Pen fosse in testa e Zemmour fosse andato molto bene. Comunque, i voti francesi sono francesi, punto. E quando voteremo a febbraio-marzo del 2023 saranno ampiamenti dimenticati.

Conclusione: nessuno scossone. E’ così?
Gli scossoni non vengono dalla Francia. Se ci saranno è perché ce li daremo noi da soli.

Soffermiamoci un attimo su Giorgia Meloni e Marine Le Pen. E’ vero che la leader di FdI non ha voluto un gruppo unico con quello di Salvini e Le Pen. Tuttavia, c’è qualche similitudine nella parabole di queste due donne?
La prima similitudine è appunto che sono due donne, la seconda è che sono due donne di destra che si sono fatte in qualche modo da sé, anche se Le Pen ha avuto un vantaggio, suo padre, rispetto a Giorgia Meloni. Dopodiché rappresentano due tipi di nazionalismo, ma quello francese è sempre stato molto aggressivo. A eccezione dell’aggressività ai tempi del fascismo, invece, Meloni ha saputo distaccarsene, ha usato anche le parole giuste, patriota invece che nazionalista. E comunque poi a fare la differenza è il sistema elettorale: nella Repubblica semipresidenziale francese, infatti, Le Pen convoglia i consensi su di sé.

Nel campo del centrosinistra italiano, da un lato c’è il segretario del Pd Enrico Letta che ha parlato apertamente di rischio terremoto per l’Europa e impatto sull’Italia, in caso di vittoria di Marine Le Pen. Dall’altro c’è il leader del M5s Giuseppe Conte che, invece, al netto delle differenti visioni ha sottolineato la vicinanza rispetto ad alcuni temi posti. Cosa raccontano queste sfumature?
Conte non conosce abbastanza la politica e quindi quando si esprime su argomenti che non conosce dice cose che sono sbagliate. Tutto qui.

E’ vero pure che la questione del potere d’acquisto è sentita anche in Italia. Così come è abbastanza conclamata una distanza tra i partiti di sinistra e il loro storico elettorato, non le pare?
La sinistra che non ottiene i consensi a sinistra? Non lo so. Qui il problema è a monte: dovremmo definire bene cosa sia la sinistra. Quali sono i suoi temi? Le classi popolari non hanno solo problemi economici, ma anche culturali, a cominciare dall’accoglienza, che prescinde da quella dei profughi ucraini. Una questione, appunto, che la sinistra ha affrontato malamente. C’è un multiculturalismo inadeguato e questo ha allontanato alcuni elettori.

Pubblicato il 11 aprile 2022 su Affaritaliani.it

Democrazia Futura. Draghi Presidente. Da Palazzo Chigi al Quirinale a quali condizioni? @Key4biz #Quirinale22

L’elezione per il Colle e la tentazione di eleggere direttamente il Presidente della Repubblica senza uno specifico progetto costituzionale di superamento della democrazia parlamentare. Le riflessioni di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna.

Mai nella storia delle dodici elezioni presidenziali italiane un Presidente del Consiglio è passato da Palazzo Chigi al Quirinale diventando Presidente della Repubblica. Nulla osta a questa transizione, ma è opportuno valutarne le premesse, le implicazioni, le conseguenze. Con tutta probabilità, Mario Draghi non sta ragionando in termini di pur legittime ambizioni personali. La sua riflessione si basa sulla necessità/desiderio di portare a realizzazione completa con successo il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Rimanendo a Palazzo Chigi riuscirà a ottenere l’esito voluto entro il marzo 2023 oppure rischia di essere estromesso prima o comunque sostituito subito dopo le elezioni politiche del 2023 a compito non ancora soddisfacentemente adempiuto? In questo caso, potrebbe apparirgli preferibile accettare l’elezione alla presidenza nella consapevolezza che dal Colle sarà in grado di sovrintendere al PNRR anche grazie al suo enorme prestigio europeo. Quello che è certo è che non accetterebbe di essere eletto al Quirinale se gli si chiedesse in cambio lo scioglimento immediato del Parlamento (richiesta adombrata da Giorgia Meloni). Certo, il centro destra compatto potrebbe prendere l’iniziativa di votare il suo nome fin dalla prima votazione quasi obbligando quantomeno il Partito Democratico a convergere. Lo scioglimento del Parlamento sarebbe, però, la conseguenza quasi inevitabile dell’abbandono del governo ad opera della Lega e di Forza Italia. D’altronde, Draghi non potrebbe porre come condizione di una sua eventuale elezione alla Presidenza che i partiti dell’attuale coalizione gli consentano di scegliere e nominare il suo successore a Palazzo Chigi. Anzi, come Presidente avrebbe il dovere costituzionale di aprire le consultazioni nominando la persona suggeritagli dai capi dei partiti a condizione che il prescelto sia in grado di ottenere la fiducia in entrambi i rami del Parlamento. Sappiamo anche, lo ha detto il Presidente Mattarella ed è opinione diffusa a Bruxelles, che il potenziale capo del governo deve avere solide credenziali europeiste.

   Il Ministro leghista Giancarlo Giorgetti ha sostenuto che se Draghi nominasse il suo successore il sistema politico italiano entrerebbe in una situazione definibile come “semipresidenzialismo di fatto”. Fermo restando che nessuna elezione e nessuna carica sono tanto importanti da produrre di per sé un cambiamento nel modello di governo di qualsiasi sistema politico, meno che mai di una democrazia, sono in disaccordo con Giorgetti e ancora di più con i critici che l’hanno accusato di auspicare un qualche sovvertimento costituzionale. Il fatto è che il Presidente della Repubblica Draghi che nomina il Presidente del Consiglio è la procedura esplicitamente prevista nella Costituzione italiana all’art. 92. Quanto al Parlamento l’art. 88 ne consente lo scioglimento “sentiti” i Presidenti delle Camere i quali debbono comunicare al Presidente che non esiste più la possibilità di una maggioranza operativa in grado di sostenere l’attività del governo. Peraltro, come abbiamo imparato dai comportamenti di Scalfaro, che negò lo scioglimento richiesto da Berlusconi nel 1994 e da Prodi nel 1998, e di Napolitano, che non prese neppure in considerazione lo scioglimento nel novembre 2011 probabilmente gradito al Partito Democratico, il vero potere presidenziale consiste proprio nel non scioglimento del Parlamento obbligando i partiti a costruire un governo e a sostenerlo, obiettivi conseguiti in tutt’e tre i casi menzionati.

    Lungi dal configurare una situazione di semipresidenzialismo di fatto la dinamica costituzionale italiana rivela uno dei grandi pregi delle democrazie parlamentari: la flessibilità. Al contrario, il semipresidenzialismo, come lo conosciamo nella variante francese, è relativamente rigido. Ad esempio, il Presidente non può sciogliere il Parlamento se questi non ha compiuto almeno un anno di vita. Poi, lo può sciogliere giustificando la sua decisione con la necessità di assicurare il buon funzionamento degli organi costituzionali. Solo quando sa che nell’Assemblea Nazionale esiste una maggioranza a suo sostegno, il Presidente francese può nominare un Primo ministro di suo gradimento. Altrimenti, è costretto ad accettare come Primo ministro chi ha una maggioranza parlamentare. Questa situazione, nota come coabitazione, si è manifestata in tutta evidenza nel periodo 1997-2002: il socialista Lionel Jospin Primo ministro, il gollista Jacques Chirac Presidente della Repubblica. Ipotizzo che, parlando di semipresidenzialismo di fatto, Giorgetti pensasse alla fattispecie di un Primo ministro che diventa Presidente della Repubblica. Certo quasi tutti i Primi ministri francesi hanno intrattenuto questa aspirazione e alcuni, pochissimi (Pompidou e Chirac) hanno potuto soddisfarla. Troppo pochi per farne un tratto distintivo del semipresidenzialismo.

   In conclusione, non credo che il tormentato dibattito italiano sia effettivamente arrivato alle soglie del semipresidenzialismo, modello complesso che richiederebbe anche una apposita legge elettorale. Temo, invece, che confuse, ripetute e prolungate votazioni parlamentari per il prossimo Presidente della Repubblica finiscano per dare fiato ai terribili semplificatori che vorrebbero l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica italiana senza avere uno specifico progetto costituzionale di superamento della democrazia parlamentare. Esito: confusione de facto. Con un po’ di retorica concluderò che non è questo che ci chiede l’Europa.  

Pubblicato il 23 gennaio 2022 su Key4biz