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Esageruma nen. Richiamo alla moderazione nella lettura del voto @HuffPostItalia
Tre ragioni (non facilmente riproducibili) della vittoria del centrosinistra e tre della sconfitta del centrodestra in Emilia Romagna
“Esageruma nen”. Comincio con una espressione del mio maestro Norberto Bobbio, vale a dire un opportuno richiamo alla moderazione e alla sobrietà. Nella madre di tutte le elezioni regionali, il centro-sinistra vince e Salvini subisce una seria battuta d’arresto.
La vittoria del centro-sinistra è dovuta ad almeno tre fattori significativi, non facilmente riproducibili. In primo luogo, la saggia e opportuna decisione del presidente uscente di mettere l’accento sulla sua opera di governo e sui dati strutturali dell’Emilia-Romagna, da settant’anni positivi, che ne fanno una delle tre regioni meglio governate d’Italia. In secondo luogo, dalla ripresa del Partito Democratico finalmente tornato con meno arroganza sul territorio, a contatto con le persone. In terzo luogo, alla mobilitazione dei dormienti, degli scettici, dei rassegnati elettori di sinistra che avevano disertato le urne nel 2014 (che, incidentalmente, non sono il termine di paragone migliore per valutare la affluenza del 2020, suggerisco di guardare alle elezioni europee del maggio 2019).
A sua volta, la sconfitta di Salvini deriva da tre elementi. Primo, avere voluto fare dell’Emilia-Romagna una sorta di ariete per travolgere il governo nazionale. Chiaro che una parte degli elettori emiliano-romagnoli ha voluto anche difendere l’esistenza di quel governo. Secondo, avere fatto una campagna elettorale sporca e cattiva, senza scrupoli, con esagerazioni di offese e insulti. Terzo, avere scelto una candidata inadeguata priva di qualità e di esperienza amministrativa, che Salvini stesso ha messo ai margini in praticamente tutte le sue numerosissime iniziative. Persino la concessione della dura sconfitta è stata orgogliosamente rivendicata da Salvini in assenza della Borgonzoni.
Naturalmente, nulla finisce qui, a Bologna e in Emilia-Romagna.
Le pur declinanti Cinque Stelle dovrebbero rendersi conto che continuare a sostenere il governo e cercare di attuare altre riforme è l’unica strada per sopravvivere nella speranza che, ristrutturando la loro organizzazione, ritorni almeno parte del molto consenso malamente perduto. Il Partito Democratico non deve gioire troppo poiché l’Emilia-Romagna, non da oggi, non è “generalizzabile”.
Non è affatto un “laboratorio”, ma un’esperienza storica da valorizzare e dalla quale trarre almeno un insegnamento: la politica va davvero fatta sul territorio, tornando a interloquire con i cittadini, proprio come ha faticosamente, ma con successo, provato Bonaccini.
Infine, con insistenza, ma con la consapevolezza che è difficilissimo, incidere sul dibattito pubblico male orientato da un paio di decenni, aggiungo alcune riflessioni. Primo, nessuna elezione regionale può essere utilizzata pro o contro il governo che, nelle democrazie parlamentari, nasce, vive, cambia in base alla fiducia del Parlamento. Secondo, che gli elettori, non solo quelli italiani, sanno distinguere fra i tipi di elezioni: amministrative, regionali, politiche, europee e sanno cambiare il loro voto a seconda dell’offerta politica che viene fatta. Terzo, non dare nulla per scontato in un sistema partitico destrutturato.
C’è chi nasce, chi declina (anche Forza Italia), chi si trasforma. L’Emilia-Romagna dice alto e forte che molti esiti sono possibili, persino quelli favorevoli al centro-sinistra (sic).
Pubblicato il 27 gennaio 2020 su huffingtonpost.it
Né martire né furfante, per ora #gregoretti
Con il voto dei suoi cinque senatori leghisti, Matteo Salvini ha ottenuto quel che, dopo qualche giravolta, voleva. La Giunta delle autorizzazioni a procedere ha deciso di inviare all’aula del Senato la raccomandazione di consentire l’apertura del processo nei suoi confronti per sequestro di persona. Il 17 febbraio saranno, dunque, i senatori a stabilire, non la colpevolezza oppure no del loro autorevole collega, ma l’esistenza di materiale sufficiente a che quel processo si tenga. Finora, l’intera vicenda non è stata edificante. Si è svolta, non all’insegna dell’analisi dei fatti e dei documenti, ma dell’uso più o meno favorevole di quell’evento. Da un lato, Salvini si è fatto guidare dalla sua convinzione di poterne trarre comunque un qualche tornaconto elettorale. Dall’altro, la maggioranza che sostiene il governo ha mirato, disertando la riunione, a evitare che si giungesse alla decisione. In estrema sintesi, il Movimento 5 Stelle e, soprattutto, il Partito Democratico hanno pensato che fosse preferibile procrastinare qualsiasi decisione affinché non “interferisse” con le cruciali elezioni in Emilia-Romagna.
L’ex-Ministro degli Interni, impegnato pancia a terra in queste elezioni, ha prima proclamato di avere difeso gli interessi degli italiani e che, quindi, un eventuale processo avrebbe coinvolto tutti gli italiani. Poi, ha scelto, sempre con lo sguardo rivolto alle elezioni, di presentarsi come vittima di quei “giustizialisti” dei Cinque Stelle e del PD, quasi un martire. In qualche misura, mi pare, ma il mio giudizio non può che essere soggettivo, che Salvini abbia ecceduto –comportamento che gli è alquanto congeniale. Ha addirittura annunciato, in maniera del tutto prematura, che nelle carceri italiane, a lui ex-Ministro degli Interni ben note, si dedicherà a un libro, Le mie prigioni, proprio come quello scritto dal patriota Silvio Pellico, gettato in inospitali carceri austriache. Il lato più sgradevole della “difesa” di Salvini è l’appello al popolo, quasi una chiamata di correo a coloro che lo hanno votato e lo sostengono, contro la magistratura, contro le esistenti norme e regole dei procedimenti giudiziari. Questo elemento non deve essere perso di vista, ma fortemente criticato.
Criticabile, però, in una certa misura, è anche la strategia di entrambi i partiti di maggioranza. Le date erano note perché fissate da parecchio tempo e le intenzioni dell’opposizione e del Presidente della Giunta, Gasparri, chiarissime fin dall’inizio. Votare motivatamente a favore dell’autorizzazione a procedere, ovvero a consentire che prima il Senato poi il Tribunale dei ministri si esprimessero, era procedura più lineare, inoppugnabile. Adesso la parola passa agli elettori emiliano-romagnoli che sanno che l’oggetto della sfida di domenica 26 gennaio non è stabilire se Salvini è un martire o un furfante, ma decidere chi governerà la regione: il presidente in carica Bonaccini o la candidata leghista Borgonzoni (non Salvini)? Il resto a suo tempo.
Pubblicato AGL il 21 gennaio 2020
Chi sta arrivando all’ultima spiaggia?
Milano Marittima che, lo ricordo ai lettori, è una cittadina balneare in Romagna, non ha portato fortuna al Matteo Salvini dell’oramai celebre bagno chiamato Papeete. È molto probabile che ad agosto il Capitano della Lega non pensasse alle elezioni della regione Emilia-Romagna. Dopo la sua dolorosa (auto)esclusione dal governo nazionale e la gioiosa vittoria nella regione Umbria, Salvini ha deciso per molte buone regioni di tentare con una sua candidata di conquistare la Presidenza dell’Emilia-Romagna. Da un paio di settimane “batte” tutto il territorio della regione con una miriade di iniziative. Gli piace fare campagna elettorale, interloquire con chi va ai suoi comizi, prestarsi ai selfie, provocare. È una presenza corposa che i suoi avversari fanno fatica ad arginare. Le elezioni in Emilia-Romagna sono rapidamente diventate un duello “Salvini contro il Partito Democratico”. Per la prima volta dalla nascita dei governi regionali nel 1970 quella che è possibile e corretto chiamare l’egemonia della sinistra è messa seriamente in discussione. La sinistra ha garantito il buongoverno della regione. L’ha fatta crescere e diventare la seconda, prima è la Lombardia, o terza, la competizione è con il Veneto, regione italiana con riferimento agli indicatori che contano: reddito, livelli di occupazione, tessuto industriale, servizi sociali e, naturalmente, benessere.
Nelle elezioni di maggio 2019 per il Parlamento Europeo la Lega è sorprendentemente diventata il primo partito in Emilia-Romagna, superando, seppur di poco, il Partito Democratico. Il Presidente della regione, Stefano Bonaccini, è un politico del PD, sicuramente non-carismatico, ma amministratore capace e esperto. Cerca di portare il confronto proprio sul piano delle sue qualità di governo rispetto a quelle, sostanzialmente ignote, della leghista Lucia Borgonzoni, già sottosegretaria alla Cultura, che tre anni fa obbligò il sindaco del Partito Democratico al ballottaggio.
In un certo senso, il voto degli emiliano-romagnoli che cinque anni fa produssero la sorpresa di un’altissima astensione, votò meno del 40%, come clamorosa protesta contro i non pochi scandali dei rimborsi dei Consiglieri del PD e non solo, conterà doppio. Certo, tutti sanno che si vota per la regione, ma sono anche abbondantemente consapevoli che il loro voto è destinato ad avere conseguenze nazionali. Se vince la candidata della Lega, Salvini si ascriverà la vittoria e sosterrà ancora una volta, ma con più forza, che il governo giallo-rosso è abusivo, non rappresenta la maggioranza degli italiani, deve andarsene. Nelle democrazie parlamentari i governi possono rimanere in carica finché godono della fiducia del parlamento, ma una sconfitta in Emilia-Romagna, dove il Movimento 5 Stelle non ha neppure deciso se presentarsi, sarebbe più che un pessimo segnale per il governo Conte (e per il Partito Democratico). Indicherebbe che la non coesa alleanza che lo sostiene è già quasi arrivata all’ultima spiaggia.
Pubblicato AGL il 15 novembre 2015
Sull’Emilia-Romagna si gioca la tenuta del governo #EmiliaRomagna #Regionali @formichenews
Dopo la conquista dell’Umbria, una spallata vincente all’Emilia-Romagna da parte della Lega di Matteo Salvini potrebbe portare anche al crollo del governo Conte II. L’opinione di Gianfranco Pasquino
Sappiamo (quasi) tutto sull’Emilia-Romagna. Dal punto di vista socio-economico è una delle due/tre regioni più avanzate d’Italia. I suoi ospedali, le sue scuole, atenei compresi, le sue aziende sono all’avanguardia, invidiabili e invidiate. Continuano a progredire e a migliorare le condizioni di vita e le prospettive dei suoi abitanti. Le sue città sono ben governate. Il buongoverno delle sinistre a prevalenza comunista ha portato l’Emilia-Romagna, dall’essere, nella classifica delle venti regioni italiane nel 1945 intorno al 12esimo/13esimo posto, subito dopo la Lombardia e in costante competizione con il Veneto. La regione rappresenta oggettivamente un’alternativa ad entrambe e una sfida come modello politico, amministrativo, organizzativo. Il suo tessuto sociale, numero, attività e vitalità delle associazioni, è variegato e ricchissimo. Il suo capitale sociale (e, in misura inferiore, politico) rimane diffuso e cospicuo. Quello che, invece, appare, agli occhi degli elettori “di sinistra” e, oggi, meno di sinistra, del Partito Democratico, è il comportamento elettorale dei loro concittadini, che risulta poco premiante, anzi, talvolta, forse ingiustamente, ma questo è il punto controverso, punitivo. Qualche anno fa, lo sfidante più pericoloso del PD fu il Movimento 5 Stelle che, infatti, conquistò Parma. Di recente, Il Movimento ha sfondato nella roccaforte rossa di Imola, mentre, a sua volta, la Lega di Salvini ha conquistato la già traballante Ferrara.
Non faccio mai il torto agli elettori, e certamente non a quelli emiliano-romagnoli, di non sapere distinguere fra i tipi diversi di competizioni elettorali. Lo sanno tutti che il voto servirà a eleggere il Presidente della Regione e il consiglio regionale. Sono consapevoli che la sfida è fra il Presidente uscente, il PD Stefano Bonaccini, e la candidata della Lega, Lucia Borgonzoni, già sottosegretaria alla Cultura nel governo Conte 1, ma, in precedenza colei che portò il sindaco PD di Bologna al ballottaggio cittadino. Bonaccini sta facendo la sua corsa sul bilancio, senza dubbio positivo, dei suoi cinque anni. La proposta forte della Lega (e, per quel che si capisce, del centro-destra) è quella di porre fine al predominio della sinistra. Dopo la conquista dell’Umbria, una spallata vincente all’Emilia-Romagna potrebbe portare anche al crollo del governo Conte 2. Naturalmente, gli elettori emiliano-romagnoli sono ampiamente consapevoli che il loro voto potrebbe avere conseguenze nazionali. Mi riesce difficile valutare fino in fondo se questa consapevolezza esiste anche nei dirigenti nazionali e, soprattutto, regionali del Movimento 5 Stelle.
Personalmente, non avrei mai annunciato, come ha fatto, in maniera, credo, prematura, Dario Franceschini, che bisogna estendere automaticamente l’appena nata alleanza di governo M5S/PD a tutte le realtà locali e, comunque, viste le tensioni del passato, l’Emilia-Romagna non è il contesto più promettente. Adesso, però, dovrebbe essere chiaro a tutti che, in assenza di un esplicito sostegno pentastellato a Bonaccini, le probabilità che la candidata della Lega si avvii alla vittoria crescono molto significativamente, forse decisivamente. L’incertezza del Movimento viene dall’alto, dalle perplessità, forse, addirittura, contrarietà mascherate, del capo politico Luigi Di Maio. Il suo calcolo potrebbe essere che il PD, indebolito dalla sconfitta in Emilia-Romagna, diventerebbe più malleabile a livello nazionale. Certo, una sconfitta del PD potrebbe anche fare piacere a Matteo Renzi (i suoi seguaci negheranno tutto e subito, a parole, ma i comportamenti li valuteremo dopo).
Naturalmente, è lecito e persino costituzionalmente corretto sostenere che nessuna vittoria nelle elezioni regionali può servire a rivendicare conseguenze nazionali immediate, sul governo. Anzi, i governanti ne trarranno nuovi stimoli a fare del loro meglio. In una democrazia parlamentare, i governi traggono, recente sorprendente scoperta del dibattito pubblico, la loro legittimità e fiducia dal Parlamento, i cui numeri ne consentono la continuazione dell’attività. Altrettanto certamente il centro-destra può rilevare a gran voce che si allarga la distanza fra la maggioranza nel paese e quella espressasi alle urne un anno e mezzo fa. Quasi una contrapposizione classica fra paese “reale” e paese “legale” che è, almeno in parte, inquietante. La posta in gioco in Emilia-Romagna è, dunque, molto alta. Nessuna previsione è fattibile, tutte essendo facilmente e inevitabilmente influenzabili dalle proprie preferenze. In qualche modo è possibile che sia l’azione del governo giallo-rosé sia la campagna elettorale (tra un quarto e un terzo degli elettori sono volubili e “volatili”), ufficialmente neppure ancora cominciata, facciano la differenza. Tirerò le somme un’altra volta.
Pubblicato il 4 novembre 2019 su formiche.net
Quasi sindaco: Quel che debbo ricordare, per voi e per me #Politica #Società #Bologna
Di tanto in tanto, ultimamente abbastanza di frequente, qualcuno su twitter ricorda che mi sono candidato a sindaco di Bologna nel 2009 e ho raccolto circa 4 mila voti (4.448 per la precisione), meno del 2 per cento. La mia versione dei fatti, non contraddetta da nessuno, si trova nel volumetto Quasi sindaco. Politica e società a Bologna 2008-2010, Diabasis 2010. Qui di seguito colloco alcune riflessioni successive che mi pare abbiano un certo interesse, non solo personale. Qualunque sia invece l’interesse dei twittatori a corto di competenze e argomenti che brandendo quella sconfitta elettorale credono di disinnescare i miei tweet, il loro risultato si ferma allo 0% virgola niente.
Quasi sindaco: Quel che debbo ricordare, per voi e per me
Ricordo di avere trascorso il mese di agosto 2010 a scrivere dolorosamente il resoconto della campagna elettorale del 2009 della lista “Cittadini per Bologna” da me guidata. Avevo il dovere politico e morale di lasciare una traccia scritta di quello che avevamo fatto, perché, come, con quali conseguenze. Quel libro, poi divenuto libro e pubblicato con il titolo Quasi sindaco. Politica e società a Bologna 2008-2010, fu respinto da Feltrinelli e da Donzelli, ma anche da Pendragon, editrice bolognese di politica, prima di essere gentilmente accettato dal Direttore Editoriale di Diabasis, Alessandro Scansani, scomparso poco dopo la pubblicazione al quale sono enormemente grato. Non ho nulla da cambiare di quel resoconto. A dieci anni di distanza, trovo che è opportuno, per me e per coloro che vogliono saperne di più e non si limitano a contare i non molti voti che la nostra lista ottenne, fare un bilancio articolato. Ci furono conseguenze quasi immediate e conseguenze più lente, tutte interessanti, molto istruttive, per coloro che sono disposti e sanno imparare.
A due mesi dalle elezioni, il Direttore di “Repubblica-Bologna” non si era ancora fatto vivo. Ne ero stato collaboratore abbastanza assiduo per circa vent’anni. Naturalmente, avevo smesso di scrivervi non appena divenni candidato, nel gennaio 2009. Era sottinteso, anzi, concordato, che alla fine dell’avventura avrei ripreso a scrivere e che i tempi li avrebbe dettati il Direttore Aldo Balzanelli. La situazione, però, si era fatta più difficile, in un certo senso anche imbarazzante. Infatti, Balzanelli, in special modo, ma anche i suoi cronisti, la maggior parte dei quali conoscevo personalmente, avevano scelto una linea non proprio equilibrata, non dico equidistante, fra me e il candidato del PD. Il loro sostegno al candidato del Partito Democratico era evidente ed esplicito, fondamentalmente acritico. Nei miei confronti, la linea fu indifferenza oppure racconti sottilmente denigratori, persino a fronte di mie smentite ufficiali, due soltanto poiché non potevo sprecare il mio tempo prezioso, una delle quali clamorosa. Non proposi mai di scambiare il mio sostegno al candidato del PD con cariche (oggi diremmo “poltrone”), meno che mai per me personalmente. Balzanelli si rifiutò di accettare la mia smentita.
All’inizio dell’agosto, in occasione della commemorazione della strage di Bologna, 2 agosto, attesi invano la richiesta da parte di Balzanelli di un articolo, quanti ne avevo già scritti in materia per Repubblica! Ero anche stato il presentatore al Senato nella seconda metà degli anni ottanta, unitamente al repubblicano Libero Gualtieri, di un disegno di legge per l’abolizione del segreto di Stato. Il Corriere di Bologna mi aveva variamente fatto sapere che avrebbe gradito la mia collaborazione. Parlai con il direttore Armando Nanni per farmi ospitare una riflessione sulla strage. Pubblicato proprio il 2 agosto con il titolo Il dovere del rito e le lezioni per la memoria fu l’inizio di una lunga serie di articoli. La mia collaborazione cessò “a mia insaputa” subito dopo un articolo nel quale avevo stigmatizzato la decisione del PD di candidare il democristiano Pierferdinando Casini nel Collegio senatoriale di Bologna centro (lo metto qui in appendice) Ne seguì un lungo totale silenzio del direttore Ernesto Franco che in questo modo pose fine senza nessuna comunicazione ufficiale alla mia collaborazione. Me lo confermò in una brevissima telefonata quando a metà marzo 2018 se ne tornò a dirigere il Corriere del Trentino. Quanto a Balzanelli, replicò immediatamente, credo addirittura già nel pomeriggio del 2 agosto, al mio articolo, non con una telefonata, ma con una inopinata, “graziosa” e succinta mail: “Vedo che hai iniziato a scrivere sul Corrierino…” Non molto tempo, nei primi mesi del 2010, Balzanelli venne chiamato/mandato a Roma. Il suo successore, Giovanni Egidio, non mi ha cercato mai. I suoi cronisti mi hanno fatto nel decennio trascorso una sola intervista, non pubblicata perché fuori della linea del giornale (del partito?).
All’inizio di agosto 2009, i vigili mi recapitarono sette-otto contravvenzioni di importo vario dai mille ai 5 mila Euro ciascuna per affissione di manifesti elettorali della lista Cittadini per Bologna fuori dagli spazi appositi. Nessuna fotografia nessuna posssibilità di contestazione, ma le multe dovevano essere convalidate dal Prefetto di Bologna, Angelo Tranfaglia, al quale portai tutta la documentazione convinto che nessuno dei miei collaboratori avesse violato i regolamenti elettorali. Com’era nei suoi poteri, il Prefetto non diede seguito a quella che, qui mi assumo tutta la responsabilità di quello che scrivo, era una palese rappresaglia: “a Pasquino gliela facciamo pagare”. Letteralmente. Per questa piccola cronaca può essere utile aggiungere che il capo della campagna elettorale di Delbono tal Claudio Merighi (che, poi, fu inviato a “lavorare” alla Coop) era proprio un vigile.
Troppi hanno dimenticato che subito dopo l’estate 2009 le voci sulla gestione disinvolta dei rimborsi spese per viaggi e conferenze, da Ischia a Cancún, Messico, con tanto di foto, a opera dell’Assessore al Bilancio e vice-Presidente della Regione Emilia-Romagna Flavio Delbono si fecero più frequenti, più intense, più dettagliate. Non entro nei particolari, ma il Delbono promise e versò soldi alla sua compagna occasionale, dipendente della Regione, per “comprarne” il silenzio. La situazione divenne talmente imbarazzante per il Partito Democratico di Bologna che sotto quelle pressioni il sindaco Delbono si sentì costretto a dimettersi, il 24 gennaio 2010. Le sue dimissioni furono salutate da alcune dichiarazioni che parlano da sole. Il segretario della federazione del PD di Bologna, Andrea De Maria, affermò che le dimissioni erano “un atto di serietà e responsabilità”. Ancora più enfatiche le parole di colui che “Repubblica” (25 gennaio 2010) presentava come, e in effetti era stato, il grande sponsor di Delbono: “Il suo è un gesto di grande sensibilità nei confronti di Bologna. …. [le sue dimissioni] dimostrano un senso di responsabilità verso la comunità che va al di là dei propri obblighi e delle proprie convenienze. Delbono ha confermato, a differenza di altri [riferimento per me non comprensibile, GP], di saper mettere al primo posto il bene comune e non le sue ragioni personali”. In seguito, i magistrati ritennero che Delbono non aveva tenuto in grande conto “il bene comune” utilizzando fondi della Regione proprio per “sue ragioni [spese] personali”. Prodi si adoperò ancora a favore di Delbono facendo pressione sul Direttore del Bologna Center affinché fosse richiamato ad insegnare. L’Academic Council non prese in considerazione questa richiesta. In seguito anche Stefano Zamagni, docente e vicedirettore del Bologna Center, ma anche co-autore con Delbono di un testo di economia che Il Mulino dovette “purgare” di molte pagine che configuravano un plagio, tentò di fare riassumere Delbono. L’Academic Council respinse nuovamente la proposta.
Nel frattempo, Bologna fu inevitabilmente commissariata, un fenomeno impensabile che ha macchiato la storia di una città considerata un modello di buongoverno e progressista. Dal 17 febbraio 2010 al 24 maggio 2011 il prefetto Annamaria Cancellieri fu il commissario governativo in carico degli affari correnti e di preparare nuove elezioni. Cancellieri, spesso definita “papessa”, acquisì notevole popolarità, probabilmente anche effetto di una ripulsa della politica e dei politici del PD, tanto che molte voci della “società civile” si levarono per una sua candidatura a sindaco che le consentisse di proseguire il lavoro iniziato. Alcuni nel PD chiesero, però, che si sottoponesse alle primarie. Fra i nomi che circolarono riscuotendo approvazione c’era quello di Maurizio Cevenini, a lungo consigliere comunale, presenzialista vero poiché partecipava in effetti a una pluralità di cerimonie non solo politiche, ma sociali e culturali della città, soprattutto notissimo per celebrare un numero molto elevato di matrimoni (già nell’ottobre 2009 superò la cifra di 4 mila) con grazia e gentilezza nella Sala Rossa del Comune. Per sbarazzarsi della sua ingombrante presenza a Palazzo Accursio, la sede del sindaco, il PD decise in conformità a una astrusa regola sul numero dei mandati, di imporgli di candidarsi al Consiglio Regionale. Fu eletto con il record di preferenze: più di 19 mila.
La sua candidatura alle primarie con le quali il PD si sentiva costretto a cercare il candidato sindaco era un fatto naturale. Cevenini iniziava quella che si suole chiamare la corsa in sicuro vantaggio: notissimo, apprezzato, impeccabile. La prima incrinatura si ebbe quando le telecamere in occasione della sfilata del 2 agosto per la strage alla stazione di Bologna inquadrarono uno scambio fra il segretario nazionale del PD, Pierluigi Bersani, e il segretario di Bologna Raffaele Donini nel quale entrambi facevano commenti molto poco lusinghieri (sì’, questo mio aggettivo è un gigantesco eufemismo) sulle qualità politiche di Cevenini, commenti subito riportati dalla stampa locale. Il 25 ottobre 2010 Cevenini ebbe un malore, fu ricoverato in clinica, annunciò il suo ritiro dalle primarie spianando la strada alla vittoria di Virginio Merola nel maggio 2011 alla quale contribuirono anche le 13 mila preferenze ottenute da Cevenini stesso, (ri)candidato al Consiglio comunale. Un anno dopo, l’8 maggio 2012, Cevenini si suicidò buttandosi dal settimo piano della torre della Regione Emilia-Romagna. Conservo con cura e commozione una copia da lui regalatami della sua autobiografia politica, scritta con la figlia Federica: Bologna nel cuore. Il Cev raccontato a mia figlia, Bologna, Pendragon, data di pubblicazione 10 gennaio 2011. La dedica di suo pugno legge: “Da quasi sindaco a quasi sindaco. Non sanno che cosa si sono persi”. Non lo sapranno mai, ma non hanno neppure mai mostrato un minimo interesse a sapere qualcosa.
Post-scriptum. Nelle elezioni politiche nazionali del febbraio 2013 Andrea De Maria fu candidato alla Camera dei deputati unitamente a Sandra Zampa, l’assistente di Romano Prodi. Entrambi in posizioni nelle liste bloccate che ne garantivano l’elezione. Dichiarai che la presenza di queste due candidature rendeva impossibile il mio voto al PD alla Camera dei deputati.
Il 19 giugno 2016 Merola è stato rieletto sindaco sconfiggendo al ballottaggio 54,64 contro 45,36% la candidata della Lega Lucia Borgonzoni (divenuta sottosegretaria alla Cultura nel governo Conte).
Nel marzo 2018 De Maria è stato rieletto alla Camera dei Deputati e rimane l’uomo forte del PD di Bologna.
Questo vi dovevo, care elettrici e elettori della Lista “Cittadini per Bologna”. No, purtroppo, no, proprio non siamo riusciti a cambiare la politica (e le persone) del partito che ha dominato la città. Certamente, abbiamo salvato la nostra anima.
Appendice
Sacrifici da meritare
Vorrei offrire ai dirigenti locali del Partito Democratico qualche argomento da contrapporre alla segreteria nazionale per evitare troppi sacrifici in termini di candidature al Parlamento nazionale. Primo, fare valere il criterio di una sana rotazione dopo i famosi/famigerati due mandati, non in maniera automatica, ma esprimendo anche una valutazione sull’operato del/la parlamentare uscente-entrante. Secondo criterio, inteso a dare buona rappresentanza politica agli elettori, ricandidare chi viene ripresentato nello stesso collegio della precedente elezione. Lì potrà spiegare ai suoi elettori le molte cose successe nella delicata, soprattutto per il PD, legislatura che si è conclusa, chiarendo, mio mantra, che cosa ha fatto, non fatto, fatto male e perché. Sarebbe un’ammirevole e utilissima operazione pedagogica che restituisce dignità alla politica. Terzo, scegliere le nuove candidature, anche valutando quelle che da Roma vorrebbero paracadutare, in base a due elementi essenziali: la storia politica, sociale, professionale e la sua rappresentatività delle idee del PD, della sua storia, del suo progetto. Naturalmente, da parte del paracadutato/a dovrebbe anche esserci una disponibilità a garantire la sua presenza sul “territorio”, non solo a fare passerella, ma a interloquire con gli elettori tutti, con le associazioni, persino con le banche. A questo punto, a PierFerdinando Casini (eletto alla Camera per la prima volta nel 1983) fischieranno le orecchie, ma so che personalmente se ne infischia. Tuttavia, da un lato, mi pare difficile inserire Casini nella storia del PD; dall’altro, mentre serpeggia l’inquietudine nella “base”, fra malumori e maldipancia, è giusto chiedersi se la candidatura di Casini, quanti voti porterà?, non segnali la direzione di marcia del PD, verso il centro-destra. Infine, per chi ritiene che la buona rappresentanza parlamentare è la premessa di qualsiasi governabilità decente, le candidature vanno scelte in base alla loro qualità, non perché sono “in quota di” qualcuno, né di Prodi né di Franceschini, ad esempio, ma perché rappresentano le idee del Partito Democratico. Si tratta di elezioni nazionali che, dunque, non dovrebbero in nessun modo avere riflessi sulla composizione della giunta di Bologna. Qualsiasi rimpasto andrebbe fatto con riferimento alle esigenze di garantire un miglior funzionamento del governo locale, non a ricompensare qualcuno perché non ha “ottenuto” candidature al Parlamento né a produrre un qualche riallineamento fra chi ha vinto e chi ha perso nel Partito Democratico. Che brutta storia.
Corriere di Bologna, 11 gennaio 2018
Breve manuale per le opposizioni
Sicuramente, marceranno divisi gli oppositori di Merola in Consiglio Comunale, e neanche abbastanza allegramente. E’ davvero improbabile che i due pentastellati, Manes Bernardini, Scelta Civica e Lucia Borgonzoni, che meriterebbe il ruolo di sindaco-ombra, riescano a trovare accordi strategici e neppure tattici. Forse il centro-destra cercherà almeno qualche punto di convergenza, ma Bugani, magari benedetto da Grillo, se ne andrà per un’altra strada. D’altronde, le distanze programmatiche, politiche e di ambizioni personali sono molte, non facilmente ricomponibili. Ciascuno dei protagonisti potrebbe fare riferimento al programma presentato agli elettori e su quello, ovvero sui punti salienti, fare leva per criticare il sindaco Merola e la sua giunta e per controproporre purché quei punti offrano un’alternativa vera alle politiche del sindaco e siano convincentemente comunicabili non esclusivamente ai loro specifici elettorati. I consiglieri dell’opposizione potrebbero anche cercare di portare le loro critiche precise e le loro controproposte mirate fra i cittadini, non solo nelle periferie. Il collegamento fra quanto si fa o no in Consiglio e quanto viene percepito dagli elettori è abitualmente uno dei più difficili da costruire, ma è essenziale sia per sindaco e giunta sia, ancor più, per l’opposizione. Un comportamento, facile, ma poco efficace, tutti gli oppositori dovrebbero evitare: la spettacolarizzazione delle loro attività con l’obiettivo di acquisire visibilità nei confronti degli altri oppositori, una lotta che non porta da nessuna parte, ma che è destinata a confondere e deludere anche l’elettorato, che è molto, che non ha votato Merola.
Altrove, in qualche caso, non del tutto sporadico, ma in altri tempi, l’opposizione, se rappresentato da un unico partito o lista poteva cercare di costruire con pazienza e sapienza un’alternativa praticabile al governo in carica. A Bologna, l’esempio più altisonante è stato rappresentato dai democristiani eletti con Dossetti nel 1956. E’ difficilissimo da imitare anche perché persino il sistema politico locale bolognese sta diventando tripolare, l’assetto peggiore per qualsiasi opposizione si candidi a governare. Addirittura intravvedo un altro tallone d’Achille. Manca ai variegati oppositori bolognesi un uomo/una donna considerabile come colui/colei che nel Consiglio comunale diventa la figura di spicco che costruisce l’alternativa per la prossima consultazione elettorale quando Merola non sarà rieleggibile. Purtroppo per i bolognesi senza un’opposizione incisiva il governo cittadino non sarà stimolato a dare il meglio (che non so quanto sia) di se stesso.
Sogni di ballottaggio
Ringalluzzito dal successo della manifestazione congiunta con Berlusconi e Meloni, organizzata qui due settimane fa dalla Lega, è comprensibile che Matteo Salvini si proponga l’obiettivo più ambizioso: la conquista della carica di sindaco di Bologna. E’ anche un buon obiettivo propagandistico. Concretamente, comunque vada, servirà ad aumentare i voti e a evidenziare ulteriormente che la sua leadership ha più che rivitalizzato la Lega. A fronte delle non giovanili incertezze del leader di Forza Italia e del suo gruppo molto poco dirigente, sia in Emilia sia a Bologna, Salvini può addirittura mostrarsi molto generoso. Se emergerà una candidatura più convincente della leghista Lucia Borgonzoni, lui (un po’ meno lei) è disposto a prenderla in seria considerazione. Salterebbe così anche la candidatura del consigliere regionale di Forza Italia Galeazzo Bignami, più disponibile a rinunciarvi poiché saggiamente consapevole che le probabilità di vittoria per chi corre diviso sono ridotte al lumicino. Salvini che, nonostante le sue frequenti incursioni cittadine, non sembra conoscere adeguatamente i rapporti di forza politici, snobba il Movimento 5 Stelle e il suo candidato ufficializzato, Massimo Bugani. Di più, sembra convinto, contro i sondaggi finora noti, che una candidatura del centro-destra, unitario, ma non troppo, dato che permane il suo veto contro NCD, riuscirebbe a costringere Merola (se sarà lui il candidato del PD), al ballottaggio.
La campagna elettorale dei Cinque Stelle è già cominciata e sbaglia alla grande chi pensa che la selezione dall’alto di Bugani, in verità, piuttosto la ratifica di una candidatura naturale, sia qualcosa di scoraggiante per i cultori pentastellati della democrazia attraverso la rete. Attivisti e elettori del Movimento hanno imparato, oramai da qualche tempo, che fare politica richiede anche parecchia flessibilità (e qualche volta anche contraddittorietà). Per le Cinque Stelle, Bologna, pur non essendo un obiettivo a portata di mano tanto quanto sembra Roma, ha già dato non poche soddisfazioni al Movimento. In più, rispetto a qualsiasi candidato/a del centro-destra che dovrebbe fare il pieno dei suoi voti con un’opera di mobilitazione della quale non s’è mai mostrato capace, se fosse Bugani ad andare al ballottaggio, i giochi sarebbero apertissimi. Difficile che gli elettori delle Cinque Stelle votino candidature berlusconiane o salviniane (e il “civico” di centro-destra non è ancora apparso all’orizzonte). Più probabile, lo dicono alcune esperienze recenti, che una parte di elettorato del centro-destra, a cominciare dai leghisti, sia disposta a convergere sul candidato del Movimento 5 Stelle. A Parma quell’elettorato si è espresso con successo. Insomma, i giochi sono tutt’altro che fatti, ma la strada del centro-destra bolognese, persino per arrivare al ballottaggio, è lunga e accidentata.
Pubblicato il 22 novembre 2015
Investimenti o boutade?
E’ dal 1999, cioè, da quando il centro-destra con un colpo di fortuna (suo, non di Giorgio Guazzaloca che aveva costruito la sua candidatura e condotto la sua campagna elettorale in maniera molto accurata), che non emerge da quel settore uno sfidante competitivo per gli ex-comunisti, oggi democratici. L’evanescenza del centro-destra ha consentito al Partito Dominante (PD) di farne di tutti i colori fino al commissariamento della città. Molti pensano che il centro-destra, a cominciare da Berlusconi, dia regolarmente Bologna per persa e si occupi d’altro. Subito vengono le smentite da alcuni esponenti del centro-destra, ad esempio da Deborah Bergamini che di candidature dovrebbe per l’appunto (pre)occuparsi. Dall’intervista a questo giornale apprendiamo che Forza Italia e il suo leader non escludono le primarie anche se finora le hanno viste come fumo negli occhi e non hanno mai provato ad organizzarle. Proprio quando sembrava che Deborah Bergamini, avesse trovato e addirittura intendesse mettere in pista un candidato dotato di esperienza politica e di conoscenza della città: Galeazzo Bignami, si è prodotto un fatto nuovo. Intervistato dal Corriere di Bologna, il critico d’arte, già parlamentare del centro-destra, già candidato a sindaco di Ferrara, già sindaco di Salemi, cittadina siciliana commissariata per infiltrazioni mafiose, già assessore in qua e in là, noto per il garbo delle sue esternazioni, Vittorio Sgarbi ha lanciato la sua candidatura a sindaco di Bologna. Ha addirittura iniziato a formare la giunta con due nomi di sinistra, immagino neppure consultati, offrendo con grande generosità la carica di vice-sindaco a Merola. Sgarbi sarebbe ovviamente un (auto)paracadutato che, per ricorrere ad un lessico già usato nel passato per candidati che gli ex-comunisti non riuscivano a trovare, meriterebbe la definizione di briscolone. Subito ritenuta buona da un parlamentare di Forza Italia, l’eventuale candidatura di Sgarbi contribuisce a mettere in evidenza la perdurante confusione del centro-destra bolognese. Al di là di qualsiasi altra considerazione, se candidasse Sgarbi, al quale non è affatto detto che andrebbe il sostegno della Lega, che già ha una sua candidata ufficiale, Lucia Borgonzoni, il centro-destra rinuncerebbe a costruire una sua politica di medio-lungo termine. Sembrerebbe più opportuno che il centro-destra investisse fin d’ora su un candidato radicato nel tessuto politico e sociale bolognese il quale, se sconfitto, opererebbe in Consiglio comunale come leader dell’opposizione che critica, controlla, contropropone preparandosi alla prossima volta. Ecco, questo si chiamerebbe davvero fare politica contribuendo a migliorare il governo della città.
Pubblicato il 21 agosto 2015