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Pasquino: «Di Maio debole ai 5 stelle serve un leader credibile»

Intervista raccolta da Simona Musco

Per il professore «Il Pd non ha recuperato voti, è rimasto fermo e questo è già un successo. Zingaretti? Ancora non ha sviluppato appieno le sue potenzialità…»

Se il M5s ha perso la metà dei consensi in un anno la colpa non è dell’astensionismo. È, piuttosto, frutto di una posizione vaga e di una leadership debole – quella di Luigi Di Maio – che si scontra con la forza titanica dell’altro vicepremier, Matteo Salvini. Mentre il Pd, dal canto suo, «Si trova esattamente dov’era prima», dice al Dubbio Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna. Che però assicura: «Zingaretti non ha ancora sviluppato appieno le sue qualità…».

Professore, secondo Di Maio il M5s è stato penalizzato dall’astensionismo…

È un’affermazione sbagliata. Il calo dipende piuttosto dal fatto che un certo numero di elettori ha trovato la proposta politica europeista del Movimento da un lato non sovranista, scegliendo dunque di dare il proprio voto a Salvini, dall’altro vaga sul tipo di posizione che avrebbe assunto in Europa. Quindi o hanno optato per il non voto o per il Pd, che ha presentato una proposta più europeista.

Il ribaltamento di posizioni tra M5s e Lega mette in crisi il governo?

Io non credo. Di Maio fa bene a ricordare di avere il 33% dei seggi in Parlamento e di essere, quindi, il partner di maggioranza al governo. Deve rivendicarlo. Ciò che emerge, però, è la sua inettitudine a ricoprire il ruolo di capo politico del M5s. Questa sua sconfitta dipende anche dal fatto che, al contrario, la leadership di Salvini si staglia alta e forte, mentre la sua figura appare debole.

Deve cedere il ruolo di leader politico a qualcun altro?

Se fosse un partito allora si dovrebbe aprire un dibattito interno per ragionare su un cambio alla guida e sul futuro. Ma, come sappiamo, le decisioni sono affidate a Casaleggio e Grillo. La base conta poco, sappiamo come vengono gestite le discussioni tra gli 80 mila iscritti sulla piattaforma Rousseau. Di conseguenza credo che Di Maio rimarrà al suo posto, ancora per un po’. Ma farebbero bene, per il loro futuro, a pensare presto ad un’alternativa.

Tipo Di Battista?

Non so, immagino possa continuare a viaggiare per l’America Latina. Credo che a loro serva qualcuno che riesca ad elaborare autonomamente una linea politica, senza essere subalterno, come finora accaduto, a Casaleggio e Grillo. Chiunque sia, deve essere in grado di dare vita ad un’organizzazione robusta e vibrante, per dirla all’americana. Non si può pensare di poter continuare ad affidare la propria azione politica a messaggini e post sul web.

Il M5s, dunque, che futuro avrà?

Se vuole continuare a sopravvivere deve fare leva su quelli che sono gli indiscutibili successi che ha avuto al governo, come il reddito di cittadinanza o la capacità di introdurre un maggiore controllo sul comportamento dei parlamentari. Le dimissioni di Siri, ad esempio, sono un successo della loro linea politica e per avere ancora quel consenso devono sottolineare i temi forti sui quali hanno ottenuto il risultato del 4 marzo.

Il Pd ha recuperato: merito di Zingaretti o del crollo del M5s?

Mah, non credo si possa dire che abbia recuperato, piuttosto credo si trovi esattamente dov’era il 4 marzo: i voti delle europee sono circa 6 milioni, esattamente come lo scorso anno. Non possiamo dire che sia cresciuto, piuttosto il vero successo è che sia stato in grado di mantenere gli stessi voti.

Nessun mezzo miracolo?

Non possiamo dire che queste elezioni abbiamo rilanciato partito. C’è un lungo sospiro di sollievo, quello sì, ma se non si traduce in azione si rimane fermi lì.

E Zingaretti? Che futuro ha?

Credo che non abbia ancora sviluppato appieno le sue qualità. Dovrebbe essere più propositivo, possiamo dire che si è salvato da questo passaggio così delicato. Però non basta dire ogni giorno che il governo non può reggere perché è litigioso, deve dire con chi vorrebbe cambiare, quali sono le alternative possibili a questa alleanza e come vorrebbe farlo. Inoltre deve trovare i temi giusti per rilanciare il partito.

Che però si è preso Roma, roccaforte del M5s. Cosa ci dice questo dato?

Nelle grandi città il Pd c’è ed è in grado di raccogliere un consenso significativo, perché è lì che si trova parte consistente suo elettorato. Ma non ha risolto il suo problema più importante: come raggiungere l’elettorato disagiato. Se vuole risalire la china deve essere capace di combinare il consenso delle grandi città con quello delle piccole, dove infatti la Lega si afferma in maniera significativa.

Pubblicato il 28 maggio 2019 su ildubbio.news

Un’estate calda per il governo sovranista

A saperli leggere e contare i numeri, soprattutto quelli dei voti, contengono informazioni limpide e importanti. La Lega di Salvini è senza nessuna riserva la vera vincitrice delle elezioni europee. Salvini è riuscito a farla diventare il più votato partito in Italia e il secondo partito più votato in Europa, in competizione con i socialisti portoghesi, ma chiaramente distaccato dal partito dell’ungherese Orbàn. Ha vinto anche Giorgia Meloni. I suoi Fratelli d’Italia, coerentemente sovranisti e saldamente collocati a destra, riescono quasi a raddoppiare i loro voti e si candidano a far parte di un eventuale governo guidato dalla Lega. Contrariamente a quello che hanno detto e scritto troppi frettolosi commentatori, il Partito Democratico, il più europeista dei contendenti, non è in ripresa, ma in stallo. Ha ottenuto circa 100 mila voti in meno del 4 marzo 2018. Ha ancora moltissima strada da fare. Deve trovare più di un alleato per costruire un’alternativa sia all’attuale governo giallo-verde sia a un possibile, ma non ancora probabile, governo di destra. Ha bisogno di elaborare le proposte giuste per riconquistare i troppi elettori che hanno perso fiducia nella sua classe dirigente e nella sua capacità di rappresentarne preferenze, interessi, bisogni.

Sono soprattutto le Cinque Stelle ad avere perso alla grande, quasi dimezzandosi, a causa sia della loro ambiguità nei confronti dell’EU sia per quella che è oramai la conclamata debolezza della leadership di Di Maio. Il Movimento non è destinato a sparire in tempi brevi anche se l’insoddisfazione degli italiani sulla quale ha costruito le sue fortune elettorali si dirige già verso la Lega, partito di governo e di protesta. Ha perso anche l’ormai superato Berlusconi il cui blando anti-europeismo non poteva essere mobilitante e le cui tematiche, come la riduzione delle tasse, accompagnate da anacronistiche critiche ai comunisti, fanno oramai parte del bagaglio leghista visto che Salvini non ha esitazioni nell’additare il PD come suo nemico principale.

In attesa degli esiti, molto importanti anch’essi, delle elezioni amministrative (con il Piemonte già passato al centro-destra), Salvini festeggia in maniera pacata sapendo che le sue richieste dovranno trovare accoglimento: le nuove autonomie, la tassa piatta e, naturalmente, la designazione del nuovo Commissario italiano. Non ha nessun interesse alla crisi del governo e, come ho ripetutamente scritto, sa di avere una posizione di ricaduta: una nuova coalizione di destra che includa il definitivamente ridimensionato Berlusconi. L’estate sarà calda poiché la Commissione Europea non esiterà a sanzionare le politiche economiche italiane che sfondano il deficit concordato e che non riducono il debito. Per evitare la probabile procedura d’infrazione, non basteranno al sovranista Salvini i molti voti guadagnati, ma le sofferenze più grandi attanaglieranno le Cinque Stelle alla ricerca di un nuovo copione e, forse, anche di un nuovo capocomico.

Pubblicato AGL il 28 maggio 2019

Il Pd di Zingaretti non si entusiasmi troppo, ha gli stessi voti dello scorso anno #europee2019

Sei milioni erano, sei milioni sono rimasti. Non c’è leffetto della nuova leadership e la vocazione maggioritaria è sparita. Il 22,7% è figlio del crollo del M5S. Una riflessione sul futuro del partito è desiderabile, se non necessaria

 

Qualsiasi sospiro di sollievo tirato dai dirigenti del Partito Democratico e dal neo-segretario alla prima prova elettorale è, almeno parzialmente, giustificato. Subito dopo deve essere temperato guardando all’esito complessivo, al contesto che ne emerge in Italia e al futuro. Ho imparato molto tempo fa che le percentuali possono talvolta essere ingannevoli e che i voti bisogna contarli per valutarne convincentemente il senso e il peso.

UNO SGUARDO AL PASSATO

Due esercizi di comparazione sono necessari e, in larga misura, corretti: quello fra le elezioni europee del 2014 e le attuali e quello fra le elezioni politiche del 2018 e le elezioni europee del 2019. Grosso modo, la prima comparazione dice che il Partito Democratico ha perso quasi 5 milioni di voti fra il 2014 e ieri. Pur tenendo conto dell’eccezionalità del risultato del 2014, la perdita rimane enorme e preoccupante. Se, percentualmente, il confronto fra il 4 marzo 2018 (18,7) e il 26 maggio 2019 (22.7) suggerisce una ripresa significativa, i numeri assoluti raccontano un’altra, meno brillante, storia. Infatti, il consenso elettorale del Partito Democratico è rimasto sostanzialmente lo stesso, all’incirca 6 milioni e centomila voti. Dunque, la leadership di Zingaretti non ha fatto crescere i voti del PD. L’elemento di soddisfazione può venire dal crollo del Movimento Cinque Stelle, ma subito è imperativo interrogarsi sul perché solo una piccola parte di quei voti persi dai pentastellati sia confluita (qualcuno direbbe “ritornata”) sul Partito Democratico.

PERCHÉ IL PD NON PUÒ GIOIRE

In attesa dell’analisi dei flussi che sicuramente l’Istituto Cattaneo comunicherà rapidamente, mi cautelo ipotizzando che abbiano abbandonato le Cinque Stelle gli elettori “sovranisti” (quindi, hanno preferito la Lega), mentre sono rimasti coloro che hanno accettato la posizione, certo non entusiasticamente europeista, espressa da Di Maio e, in realtà, da pochi altri dirigenti. Comunque, l’effetto congiunto “notevole crescita della Lega-grande declino delle Cinque Stelle”, non può affatto fare ringalluzzire il Partito Democratico. Un partito del 20-25 per cento può anche ripetere stancamente che ha una “vocazione maggioritaria”, ma nessuno può neppure intravedere come questa vocazione si tradurrà in una posizione decisiva per la formazione di una coalizione di governo.

QUALE FUTURO PER IL PARTITO DI ZINGARETTI

Quali sarebbero/saranno gli alleati del PD per dare vita a una coalizione alternativa all’attuale governo oppure in grado di competere con qualche chance di successo con lo schieramento di centro-destra che è una opzione sempre praticabile da Salvini? Naturalmente, se il PD non comincia neppure ad interrogarsi sulle ragioni della sconfitta del 4 marzo 2018 e si compiace di quella che non è affatto definibile come una inversione di tendenza attuale, non farà nessun passo avanti.

IL TEMPO DELLA RIFLESSIONE

Il risultato numerico di ieri ha, a mio modo di vedere, una spiegazione relativamente semplice, certamente positiva. Nonostante qualche sbandatina, il Partito Democratico è stato in tutti questi anni sinceramente, coerentemente, convincentemente europeista. Gli elettori di opinione, quelli che valutano le alternative, di posizioni e di persone, in campo, lo hanno giustamente prescelto per il suo europeismo. Questo è un segnale importante, positivo e apprezzabile (con l’apprezzamento esteso anche a quegli elettori). Non consente, però, di pensare che il PD abbia superato i suoi problemi e le sue inadeguatezze. C’è un tempo, ha lasciato detto l’Ecclesiaste, per tirare i sospiri di sollievo e un tempo per la riflessione e il rilancio dell’azione.

Pubblicato il 27 maggio 2019 su formiche.net

Campagna elettorale permanente o inesistente?

Ripetendo ossessivamente, come fanno troppi giornalisti e commentatori, che Salvini più di Di Maio sono in campagna elettorale permanente, che cosa abbiamo svelato e/o imparato?: che la campagna elettorale permanente ha poco non ha quasi niente a che vedere con le prossime importanti votazioni per eleggere il Parlamento europeo. Quante e quali informazioni utili per la loro scelta europea otterranno gli elettori italiani da come sarà risolto il caso Siri, sottosegretario leghista indagato per corruzione? Che cosa di rilevante per l’Unione Europea dice loro la fotografia di Salvini che parla dal balcone del comune di Forlì dal quale si affacciava Benito Mussolini? Specularmente, che cosa penseranno i governanti degli Stati-membri dell’UE, nessuno dei quali cambierà di qui ad ottobre, poiché non ci saranno altre elezioni nazionali dopo quelle recenti in Spagna, della posizione dell’Italia rispetto all’UE? Sono certamente interessati a conoscere quanto potere ha il Presidente del Consiglio Conte, da qualcuno accusato di essere un burattino nelle mani di Salvini e Di Maio. Infatti, burattino o no, Conte dovrà decidere, salvo imprevisti non del tutto improbabili (autodimissioni di Siri), dimostrando le sue preferenze e reali capacità, non di avvocato del popolo, ma di capo di un governo di coalizione. Avere un capo di governo credibile nell’UE sarebbe una buona notizia per gli italiani che, dalla campagna elettorale permanente, non hanno finora avuto elementi utili per eleggere con un utilissimo voto gli europarlamentari italiani. Da Giorgia Meloni viene la richiesta di un voto per andare “in Europa per cambiare tutto”. Lo slogan, che proposta programmatica non è, del PD di Zingaretti pone l’accento sul lavoro affidando a più rappresentanti del PD nel Parlamento europeo il problema di come affrontare e risolvere il problema del lavoro in Italia. Candidato capolista in quattro circoscrizioni su cinque, Berlusconi si presenta come colui che darà vita a una coalizione contro le sinistre, i verdi, i liberali e che comprenderà Popolari, Conservatori e, grande novità, i non meglio definiti sovranisti “illuminati”. Non sarà, però, facilissimo convincere l’ungherese Orbán ad abbandonare la sua autodefinizione di democratico illiberale e “illuminare” il sovranista Salvini affinché, poi, torni nel suo alveo naturale italiano: il centro-destra. Tra chi vuole “più Europa” (la lista di Emma Bonino), chi ne vuole meno a casa propria (i sovranisti delle varie sfumature), chi (Calenda) sostiene di “essere [già] europeo”, ma vuole uno Stato nazionale forte, e chi vuole cambiarla tutta l’Europa (Fratelli d’Italia) senza dirci come, è difficile che l’elettorato italiano sia in grado di scegliere a ragion veduta chi rappresenterà meglio le sue preferenze, anche ideali, e i suoi legittimi interessi in sede europea. Fin d’ora è possibile dire che la campagna elettorale permanente combattuta fra Cinque Stelle e Lega su tematiche italiane, comunque vada a finire, non rafforzerà le posizioni italiane a Bruxelles.

Pubblicato AGL il 8 maggio 2019

“La crisi è più vicina ma che assurdità cadere sulle inchieste” #Intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giulia Merlo

«Oggi la crisi è meno improbabile”, ma Mattarella eviterà in tutti i modi il ritorno alle urne. Gianfranco Pasquino, politologo e accademico, analizza i nuovi focolai di scontro che sconquassano il governo gialloverde e ammette che la corda sottile che tiene a galla l’Esecutivo, ora, è pericolosamente tesa.

Davvero il governo potrebbe cadere sull’inchiesta a carico del sottosegretario Siri?

Non è inchiesta a scaldare il fronte, ma è il comportamento dello stesso Siri e del vicepremier Matteo Salvini, che non solo difende Siri a prescindere, in assenza di qualsiasi tipo di evidenza sia a suo favore che contro di lui, ma usa questo per attaccare la sindaca di Roma, Virginia Raggi.

Fino a quando il Movimento 5 Stelle sopporterà questo clima?

Sono arrivati al limite. Di Maio ritiene di aver già fatto moltissimo per andare in contro alla Lega, evitando a Salvini di finire sotto processo per il caso Diciotti. Ora i 5 Stelle stanno facendo capire a Salvini di non esagerare, anche perché il movimento ha fatto già molta fatica a ingoiare il rifiuto dell’autorizzazione a procedere per Salvini.

Si arriverà alla crisi?

All’inizio pensavo che la crisi sarebbe stata improbabile e che i due contraenti volessero arrivare fino alla fine del mandato. Invece, ora, mi sembra che la corda venga tirata in modo esagerato. Del resto, di solito le crisi di governo arrivano improvvisamente, perché qualcuno ha valutato in modo errato il peso delle sue parole, oppure non le ha pesate a sufficienza. Se lei mi chiede un’opinione, dire che la crisi è meno improbabile rispetto al passato.

Però?

Però sia la Lega che i 5 Stelle sarebbero responsabili nei confronti dei loro elettori e di ciò che hanno promesso loro. Anche perché si tratterebbe di una crisi non dettata dall’inattuabilità del contratto di governo, ma da fattori esterni con cui il contratto non ha nulla a che fare.

Il governo è lacerato dalle vicende giudiziarie: è un sintomo della politica di oggi?

Sono trent’anni che in Italia i giudici hanno grande operatività: intervengono sulle malefatte vere o eventuali dei politici e poi i fatti vengono gonfiati dalla stampa. La giuridicizzazione della politica, però, è in corso ovunque. In Italia il fenomeno è più forte perché il paese è mediamente più corrotto e in particolare lo è la nostra politica.

Ha ricordato prima il caso della sindaca di Roma, anche lei al centro di vicende giudiziarie. È corretto metterla sul piatto della bilancia contro Siri?

No, si tratta di una pura costruzione politica. La corruzione e le malefatte giudiziarie debbono essere valutate ognuna singolarmente. Le dico di più, è sbagliatissimo anche dire che “si stanno usando due pesi e due misure” con Raggi e Siri, perché bisognerebbe usare invece cento pesi e cento misure diverse: ogni caso giudiziario ha una sua specificità. Siri è un sottosegretario, Raggi invece è una sindaca e porta maggiore responsabilità amministrativa, dunque non sono paragonabili. Lo stesso si dica per Salvini e Siri: il primo è uomo di governo che – secondo il Parlamento – ha agito per interessi generali del paese; il secondo, se colpevole, agiva per se stesso.

Queste vicende influenzeranno il voto alle Europee di maggio?

Guardi, io sono spesso critico sugli elettori italiani. Tuttavia, credo che sappiano cosa stanno andando a votare e che decideranno sulla base dei profili dei contendenti. L’elettorato deciderà se essere sovranista con la Lega, blandamente europeista con il Movimento 5 Stelle o più convintamente anche se meno brillantemente europeista col Pd. Poi è chiaro che le percentuali in cui si distribuiranno avranno un peso importante.

Se non saranno queste vicende giudiziarie, è possibile quindi che a far cadere il governo sia l’esito delle Europee?

Se i 5 Stelle riusciranno a rimanere sopra il 22% e a non farsi superare dal Pd e se la Lega rimarrà sotto il 30%, non succederà nulla. Diverso invece se la Lega fosse sopra il 30% e i grillini sotto il 20%. In questo caso, potrebbero esserci delle conseguenze immediate.

Con quali esiti?

Allargo l’analisi: una crisi di governo immediata in Italia dopo le Europee indebolirebbe il paese a livello europeo, peggiorando ancora le aspettative di crescita, perché gli operatori economici – Cina in testa – si ritrarrebbero da un paese politicamente instabile, non potendo prevederne la politica economica.

Quindi?

Per fortuna, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è in grado di convincere i due contraenti che anche se può esserci una crisi, questo non può portare allo scioglimento delle Camere. Ci sono molte opzioni sul tavolo: si può procedere a un rimpasto, sostituire il premier, oppure cambiare alcuni ministri nominando magari dei tecnici. Insomma, esistono alcune operazioni intermedie prima di arrivare ad elezioni anticipate, che sarebbero disastrose.

Ma Salvini, con il vento in poppa dei sondaggi, non potrebbe andare all’incasso e liberarsi dei 5 Stelle?

L’unico ad avere interesse alle elezioni anticipate sarebbe Salvini, questo è vero. Ma lui non le può chiedere, perché storicamente gli elettori puniscono chi li chiama alle urne troppo spesso.

Pubblicato il 20 aprile 2019 su IL DUBBIO

I nodi del Governo. Distrazione di massa: luci spente sul default

Questa effervescente società italiana! Altro che stare sdraiata sul divano a divorare popcorn e aspettare il reddito di cittadinanza: si organizza, scende in campo, manifesta. Forse, però, non per colpa sua, ma un po’ degli eventi un po’ per inadeguata informazione, manifestanti e contromanifestanti non colgono il bersaglio grosso. È lecito organizzare un congresso sulla famiglia tradizionale, meglio se usando toni e modi non oltranzisti che dileggiano le nuove forme di convivenza e aggrediscono leggi esistenti come la 194 sull’interruzione della gravidanza. È opportuno sostenere le conquiste di civiltà in tutte le materie relative alle unioni. È giusto sostenere la legittima difesa, non necessariamente armata e privatizzata, talvolta prevedendo pene, in una fattispecie allargata, per l’uso di filmini intimi che mettono alla berlina l’ex-compagna (revenge porn; vendetta porno). Persino encomiabile è concedere, sarebbe preferibile dire “riconoscere”, a determinate condizioni, la cittadinanza agli adolescenti i quali, con grave rischio personale hanno salvato le vite dei loro giovanissimi compagni. Che poi anche prendendo le mosse da questo avvenimento il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte senta, “benvenuto!”, il bisogno di “riflettere” sullo ius soli, ovvero sulla cittadinanza a chi è nato in Italia, ancorché da genitori non italiani, è una buona notizia. Però, i capi di governo non si limitano a riflettere. Hanno il dovere di proporre e il compito di decidere. Tutte queste, alla rinfusa, sono tematiche importanti, ma non determinanti, in una società che desideri diventare e rimanere civile, e non sarà neppure la Commissione Banche, ultima trovata del Movimento Cinque Stelle per darsi un po’ di visibilità, a risolvere il problema dei problemi italiani: come rilanciare la crescita economica.

La buona notizia per i governanti pentastellati è che le domande per il reddito di cittadinanza sono alquanto inferiori alle previsioni e quindi, almeno quest’anno, saranno necessari meno fondi di quelli previsti e stanziati. Tuttavia, quei fondi non potranno essere subito destinati a investimenti pubblici e all’ammodernamento delle infrastrutture che soli potrebbero iniziare il rilancio delle attività economiche e la produzione di posti di lavoro. L’effervescenza della società sui diritti da mantenere e, eventualmente, da ampliare (cittadinanza) rischia di essere sfruttata come arma di distrazione di massa fino alle elezioni del Parlamento europeo, 26 maggio, dopodiché sono tutti oramai convinti che vi sarà una resa dei conti con numeri veri fra Lega e Cinque Stelle. No, neppure quelle elezioni spasmodicamente attese risolveranno la tensione fra, da un lato, le politiche redistributive perseguite da Di Maio e securitarie imposte da Salvini e, dall’altro, la necessità assoluta per l’Italia di rovesciare la tendenza e incominciare a crescere. Questo è davvero il bersaglio grosso (di qualsiasi governo) che gli italiani non dovrebbero perdere di vista.

Pubblicato AGL il 1°aprile 2019

L’Abruzzo non è l’Ohio, ma non è da sottovalutare

Si dice che l’Ohio sia uno Stato chiave nelle elezioni presidenziali USA. In effetti, spesso i suoi voti sono stati decisivi per la vittoria, in particolare, dei candidati repubblicani alla Presidenza. Sconsiglio dall’assimilare l’Abruzzo all’Ohio. Per quanto interessante, l’esito del voto in Abruzzo non prefigura necessariamente un eventuale, peraltro, a mio modo di vedere, del tutto improbabile, voto politico nazionale. Tuttavia, non è neanche da sottovalutare. Senza fare il populista (non mi riesce difficile), quando il popolo, meglio, i cittadini parlano con il loro voto, nel quale hanno investito energie, tempo, forse anche denaro (per informarsi e andare alle urne), è sempre auspicabile ascoltarli, cercare di capire che cosa hanno voluto dire, quale messaggio contiene il loro voto, da quali fattori è stato influenzato. Tuttavia, il voto è sempre il prodotto di una relazione fra le promesse dei candidati e dei partiti e la ricezione, influenzata da una molteplicità di considerazioni, degli elettori.

Tanto per cominciare, poco meno della metà degli abruzzesi hanno deciso e detto che, no, le elezioni nella loro regione non erano abbastanza importanti da meritare la loro partecipazione. Questa risposta meriterebbe una qualche riflessione non ipocrita da parte dei dirigenti di partito. Non me l’aspetto, quindi soprassiedo, riservandomi il diritto di criticare chi, regolarmente, si strappa le vesti per qualche minuto (leggi il dopo-Cagliari), poi va avanti come se niente fosse. Minimizzeranno anche i dirigenti delle Cinque Stelle, il capo politico Di Maio, che ha finora collezionato sconfitte e perdite di voti nient’affatto trascurabili e non colmabili da nessun accordo con gilet gialli o di altri colori? E il comandante Di Battista impegnato sul fronte venezuelano? Qualcuno vorrà chiedere al Presidente del Consiglio Conte perché gli elettori abruzzesi non hanno capito che il 2019 sarà un anno bellissimo e non hanno deciso di incoraggiare la forza di governo, ancora per poco, maggioritaria?

Siamo sempre in attesa di una riflessione dei dirigenti del PD, a cominciare da quella che sul suo divano attrezzato con pop corn dovrebbe effettuare il due volte ex-segretario, sul voto del 4 marzo 2018. Adesso, però, qualche parola sulla necessità e utilità del PD di costruire davvero alleanze con una varietà di associazioni che operano sul “mitico” territorio (che è il luogo dove bisognerebbe tornare a fare politica, ovvero a interloquire con ci abita e vive) parrebbe assolutamente opportuna. Andare oltre il PD con associazioni che lo reputano utile, ma da solo non adeguato, sembra essere la strada da imboccare. Comunque, i tre candidati alla segreteria non hanno tuttora saputo indicarne nessuna.

Qual’è la sua strada Matteo Salvini la conosce molto bene: battere il territorio, sembra che sia stato il leader nazionale che ha visitato più di tutti l’Abruzzo, stando quando serve, e nelle elezioni locali serve eccome, con il centro-destra. Il messaggio che manda il capitano-Ministro Salvini è duplicemente chiarissimo. Sappia il centro-destra che la sua Lega è assolutamente indispensabile per vincere e governare a livello locale (e nel futuro, non si sa quanto prossimo, azzarderei non tanto, anche a livello nazionale). Sappiano le Cinque Stelle, non soltanto che la Lega continua a crescere elettoralmente, ma che, lui, ha una alternativa coalizionale. In caso di una crisi di governo, Salvini può vantare e contare su una comoda posizione di ricaduta. Tutto questo è estraibile dall’esito delle elezioni regionali in Abruzzo. Mi pare parecchio e interessante.

Pubblicato il 11 febbraio 2019 su formiche.net

Non sarà un anno bellissimo #governogialloverde

Qualsiasi paese che voglia contare sulla scena internazionale deve avere un governo credibile che, quando assume impegni, li rispetta e partecipa con gli altri paesi a creare e mantenere un ordine internazionale il meno turbolento possibile. Se vogliono incidere sul suo funzionamento, gli Stati-membri dell’Unione Europea, debbono, anzitutto, osservarne le regole. Potranno, poi, anche cercare di cambiarle. Ci riusciranno soltanto convincendo gli altri Stati membri. È facile capire che le critiche alla Commissione Europea e agli altri governi non creano un clima favorevole al paese che avanza quelle critiche se, nel frattempo, non osserva le regole. Fin dall’inizio il governo giallo-verde ha assunto una posizione di sfida nei confronti della Commissione e non ha trovato “sponde” negli altri Stati-membri. Di recente, il governo Conte-Salvini-Di Maio (non sono sicuro che questo sia l’ordine giusto, ma mi chiedo dove fosse il Ministro degli Esteri Moavero Milanesi) ha impedito approvazione di un documento a favore di elezioni il prima possibile per il ritorno alla democrazia del Venezuela. È incomprensibile come si possa essere “equidistanti”, è l’aggettivo usato da Conte, fra il dittatore che reprime e affama i venezuelani e chi chiede elezioni libere, competitive, trasparenti.

Comprensibile, ma molto criticabile, è il comportamento di un ministro della Repubblica italiana, Luigi Di Maio, che è andato a incontrare e a offrire solidarietà a un pezzo del movimento Gilet Gialli che sfida il governo francese. Invece, quella del Ministro Salvini che annuncia la “convocazione” del Ministro francese degli Interni è una gaffe peraltro rivelatrice di mancata conoscenza dell’etichetta nelle relazioni fra Stati. Andando in Francia, paese con il quale l’Italia ha non pochi dossier aperti (immigrazione, Fincantieri, Tav, Alitalia), forse Di Maio voleva “soltanto” creare le premesse per una futura confluenza in un gruppo comune nel Parlamento Europeo degli eventuali eletti del Movimento dei Gilet. Forse Salvini non ha potuto/voluto prendere le distanze dal suo alleato di governo dei cui voti avrà bisogno per evitare di finire sotto processo.

Sicuramente, tanto Di Maio quanto Salvini hanno compiuto, il primo in maniera più plateale, atti politici all’insegna dell’improvvisazione e dell’impreparazione che rende improbabile stabilire i necessari rapporti di collaborazione con altri governi europei, meno che mai con la Francia. Tutt’e due hanno gli occhi puntati sulle elezioni europee di maggio quando i duri dati derivanti dai voti consentiranno di valutare quanto è cambiato il loro rispettivo consenso. Nel frattempo, però, le conseguenze del chiamarsi fuori da azioni comuni dell’Unione Europea e dell’interferenza nella politica interna della suscettibile Francia pregiudicano ulteriormente la attendibilità dell’Italia e rendono ancora più improbabile che il 2019 sarà, come annunciato incautamente dal Presidente del Consiglio Conte, “un anno bellissimo”.

Pubblicato AGL il 10 febbraio 2019

Venezuela: governo diviso e debole

Le posizioni assunte dai due alleati al governo sul delicato e complicato caso del Venezuela sono, nel loro genere, tanto limpide quanto contrastanti. Senza ambiguità Salvini afferma: “Prima tornano diritti, benessere e libertà in Venezuela, meglio sarà per il popolo”. Parlando a nome e per conto del Movimento Cinque Stelle, in base alla competenza sicuramente (sic) acquisita in seguito ad un suo lungo viaggio e alla residenza di alcuni mesi in Guatemala (senza, però, avere visitato il Venezuela), Alessandro Di Battista non ha dubbi: “firmare l’ultimatum UE al Venezuela è una stronzata megagalattica”. Il suo più stretto compagno d’armi, capo politico del Movimento, Luigi Di Maio annuncia che “non riconosciamo soggetti non votati” come se Juan Guaidò, il Presidente dell’Assemblea Nazionale, non sia stato eletto, prima per diventare deputato, poi per rimpiazzare ad interim Nicolás Maduro, “soggetto” vittorioso in elezioni presidenziali manipolate, che non è mai considerato legittimo dagli osservatori internazionali. Non è chiaro se la linea la dia, come dovrebbe, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Dalla dichiarazione nella quale ribadisce “la sua massima preoccupazione per gli ultimi sviluppi in Venezuela” è impossibile sapere che cosa intende fare il governo, ma sappiamo che cosa non ha fatto. Non ha firmato una dichiarazione degli Stati-membri dell’Unione Europea a sostegno di Guaidò. Ha altresì deciso di non esprimersi, contrariamente a Spagna, Francia, Germania, Gran Bretagna e Svezia (non proprio Stati e governi di carente legittimazione democratica), a favore di elezioni libere, trasparenti, con garanzie, da tenersi nel più breve tempo possibile, ma da annunciare fin d’ora.

Coerente con la sua visione “sovranista” sì, ma anche attenta alla drammatica condizione del popolo venezuelano, è Salvini che, seppur indirettamente, offre sostegno al ritorno della democrazia in un tormentato paese, nient’affatto carente di tradizioni democratiche. La posizione delle Cinque Stelle la dice lunga sulla loro ambigua e confusa concezione della democrazia. Su tutte le misure di democraticità, dalla libertà di stampa all’autonomia del sistema giudiziario, il Venezuela è collocato ben lontano dai regimi democratici. Inoltre, il suo esperimento populista e autoritario ha provocato, non tanto la “decrescita felice”, non molto tempo fa progettata da Beppe Grillo, ma un impoverimento drammatico della popolazione e un deflusso di quasi due milioni di venezuelani nei paesi limitrofi, in primis, la Colombia.

La non-posizione del governo, da un lato, segnala la mancanza di autonomia e di capacità decisionale del Presidente del Consiglio, dall’altro, indica un ennesimo allontanamento dalle scelte dell’Unione Europea che, inevitabilmente, saranno ripagate da un ulteriore declino di credibilità dell’Italia su altre questioni che contano come economia e migranti. Il Venezuela si sta rivelando un test che complessivamente il governo ha già fallito.

Pubblicato AGL il 5 febbraio 2019

Salvini non vuol farsi processare? Il motivo è solo uno. Ma il governo non deve cadere

 

Intervista raccolta da Antonella Loi

Il politologo Pasquino: “Si difenda nel processo e non dal processo. Poi eventualmente valuti il passo indietro”. Ma l’esecutivo deve stare in piedi

 

Matteo Salvini alla resa dei conti. La giunta per le autorizzazioni del Senato comincia l’analisi dei documenti che i giudici del Tribunale dei ministri di Catania hanno trasmesso con la richiesta di procedere per il caso della nave Diciotti, il pattugliatore della Guardia costiera ormeggiato nel molo di Levante del porto di Catania blindato per cinque giorni con 177 persone a bordo. Tutti migranti naufraghi, molti destinatari di protezione internazionale. Una bella gatta da pelare per il governo che prova a fare quadrato intorno al ministro dell’Interno. Il premier Giuseppe Conte si assume la responsabilità di quei fatti e il M5S, temporeggia davanti a un bivio: votare sì o no? Gianfranco Pasquino, politologo e professore emerito dell’Università di Bologna, sintetizza gli ultimi accadimenti in due parole: “Un grande pasticcio”.

Cosa non torna professore?
Dovrebbero uscirne come si fa nei Paesi decenti. E cioè il ministro che ha ripetutamente detto che non ha paura dovrebbe dire ai suoi senatori di votare per l’autorizzazione a procedere, dovrebbe difendersi nel processo e non dal processo. Le motivazioni che fino a adesso ha addotto sono veramente mediocri.

Perché?
L’esercizio dei poteri ministeriali: la funzione non è esente da errori e forse anche da violazioni della legge e quindi questo non vale e l’avere protetto un interesse nazionale è tutto da dimostrare. Bene, lo faccia nel processo.

Salvini prima ha detto sì poi no, ha subodorato le conseguenze di una possibile condanna?
Certamente ha sentito che le sue motivazioni erano debolissime, si è fatto consigliare da qualche magistrato e a questo punto ha fatto marcia indietro. Però non si governa e non si fanno azioni degne di merito sulla base di opportunismi. E in questo caso Salvini dimostra di essere un politico qualsiasi, opportunista, non andando di fronte ai giudici.

L’alleato di governo, il M5S sembra in grande difficoltà. Di Maio non ha sciolto la riserva, ma all’interno del movimento si contano già diversi esponenti che dicono di volersi appellare all’articolo 67 della Costituzione invocando la libertà di coscienza.
A me sta benissimo la libertà di coscienza, dopo di che dovrebbero anche spiegarci quali sono le conoscenze che li spingono a votare sì o no. In un caso o nell’altro dovranno dirci quali sono le motivazioni. Il punto fondamentale è: dove sta il famoso fumus persecutionis. Se i parlamentari del M5S pensano che ci sia un fumus persecutionis dei magistrati ai danni di Salvini ci spieghino dove sta.

Se il Senato dice sì all’autorizzazione a procedere, il governo cade?
Non dovrebbe cadere, questo è il punto rilevante. Cioè i magistrati ritengono che ci sia stata una qualche violazione di legge o di costituzione nell’operato del ministro? Questo riguarda un caso specifico. Dopo di che il governo va avanti. È il ministro a quel punto può dire mi sollevo dalle funzioni e, se ha un minimo di coscienza giuridica e politica, deve dire che il governo va avanti.

 Conte sostiene che la responsabilità sia collegiale.
“Quello che ha detto il presidente del Consiglio è gravissimo. Anche Conte dovrebbe sollevarsi dalle sue funzioni che tra l’altro esercita già abbastanza malamente. Quello era un atto del ministro, non credo che ci sia stata una delibera del governo su cosa fare con la nave Diciotti”.

 Eppure il ministro Toninelli ha assicurato che la decisione è stata presa di comune accordo.
Questo è tutto da provare, io non penso che sia così. Toninelli sta a sua volta cercando di salvare il ministro e a sua volta il suo posto di ministro.

 Entrando nel merito della richiesta della procura, Salvini aveva il potere di fare quello che ha fatto o è andato oltre i limiti delle sue funzioni?
Questo non lo so ed è per questo che Salvini dovrebbe andare davanti al giudice. Viene accusato di sequestro di persona? Va al processo e spiega perché secondo lui non lo era, inoltre deve dimostrare che quel tipo di decisione serviva a evitare mali peggiori. Ma lo deve provare nel processo. Bisognerebbe vedere le carte dei magistrati che i componenti della giunta per le autorizzazioni immagino stiano leggendo. Aspettiamo di sentire poi quali sono le controdeduzioni di Salvini.  

Pubblicato il 30 gennaio 2019