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«Salvini è l’unico leader, al centrosinistra servirebbe un nuovo Willy Brandt #intervista @ildubbionews

Intervista al politologo Gianfranco Pasquino: «il governo è fragile ma farà di tutto per campare in attesa di un miracolo: se risolvesse il pasticcio Ilva o facesse aumentare la crescita, pd e 5 stelle potrebbero risollevarsi. Ma serve tempo» di Giulia Merlo

Il governo è fragile, il centrosinistra fragilissimo «e soprattutto senza un leader», commenta il politologo Gianfranco Pasquino, che per sfidare Matteo Salvini sognerebbe «di importare un politico alla Willy Brandt».

Professore, il premier Conte ha chiesto proposte dai ministri per risolvere il caso Ilva. Passo falso o giusta apertura?

Chiedere aiuto ai ministri mi sembra una cosa utile, ma Conte dovrebbe sapere che la decisione spetta a lui. Quindi, sarebbe meglio che fissasse le sue condizioni e la sua linea di preferenza e solo dopo chiedesse proposte alternative da esaminare in Cdm. Detto questo, noi che abbiamo visto il mondo sappiamo che non decidono solo i ministri…

Chi altro andrebbe interpellato?

Mi sembra che nè il segretario del Pd Nicola Zingaretti nè quello con la briscola in mano, alias Matteo Renzi, siedano al Cdm.

In realtà, l’unica condizione fino ad ora l’ha posta il Movimento 5 Stelle che, con i parlamentari pugliesi, pone il veto sul ripristino dello scudo penale.

I 5 Stelle continuano a dimostrarsi alleati inaffidabili e mi chiedo se pensino alle conseguenze di ciò che dicono. Inoltre, partendo dall’assunto che se si rompe l’Ilva si rompe anche il governo, allora significa che spingono per la rottura.

Non vale più la logica iniziare del “purchè non vinca Salvini”?

Vale fino a quando Salvini non vince davvero. Impedirglielo è l’imperativo del Pd ma anche dei 5 Stelle, anche perchè Salvini non farà prigionieri. Insieme alla logica politica, però, andrebbe messa anche un po’ di materia: questo governo ha la capacità di durare ancora?

E ce l’ha?

A me sembra che abbia già perso la spinta propulsiva, che del resto era debole sin dall’inizio e Luigi Di Maio per primo non è mai stato convinto dell’alleanza. Dunque, come vede, i fenomeni della politica italiana possono infrangere anche la logica. Anche se escludo che la crisi arrivi prima di Natale.

Quindi l’ago sarà l’Emilia Romagna?

L’esito emiliano è legato alle decisioni dei 5 Stelle. Se non appoggeranno il candidato dem Stefano Bonaccini significa che hanno definitivamente preso le distanze dal Pd. Se Bonaccini perde, però, è inevitabile che il centrodestra spinga per le elezioni.

A quel punto le urne sarebbero una richiesta legittima, secondo lei?

Guardi, io credo che gli elettori sappiano che stanno votando per le regionali emiliane e non per il governo. Il centrodestra, tuttavia, dice una cosa diversa: che esiste una maggioranza politica in Parlamento e una maggioranza numerica nel Paese. Se questa tesi del paese reale venisse confermata sia dai sondaggi che dal voto regionale, la richiesta del centrodestra sarebbe legittima ma contrasterebbe con un’altra legittimità, quella del paese legale che ha la maggioranza nelle Camere.

Davvero questa maggioranza potrebbe spingere per il voto?

Già a ottobre in molti chiedevano le elezioni, con un unico obiettivo: far fuori i renziani. Con le elezioni, secondo loro, si sarebbe fatta chiarezza: Salvini avrebbe vinto, Renzi starebbe sparito perchè aveva tirato troppo la corda e tutto avrebbe poi ripreso il suo corso. A me sembra una visione assurda, perchè in questo modo sarebbe rimasto in piedi solo un Pd sgangherato e un Salvini trionfante e con pieni poteri.

Meglio la situazione attuale, quindi?

Per le parti in causa, certo. Renzi ha bisogno di tempo per organizzarsi, anche se credo che il suo movimento non supererà il 5%. Il Pd e i 5 Stelle sanno che, se si vota, perderanno dunque per loro è meglio rimanere in sella e sperare in un evento improvviso.

Che evento improvviso?

Pensi se questo governo riesce a risolvere il pasticcio dell’Ilva, oppure la vicenda Alitalia, oppure ancora a portare la crescita all’ 1%. Se questo succedesse le elezioni potrebbero non essere un’ecatombe, ma perchè una cosa del genere succeda serve tempo.

Conte avrà un futuro dopo questo governo?

No, finito il Conte bis lui sarà fuori, e anche senza particolare gloria. Un governo Conte ter è inimmaginabile e, se questo Esecutivo finirà presto, anche Conte verrà investito dalla sua impopolarità. Del resto, nei fatti Conte non ha combinato un gran che. Per questo fa bene a tirare avanti, sperando nel miracolo che dicevo prima.

A destra una leadership c’è, ma esiste già un competitor vero per Salvini?

Le rispondo così: mi piacerebbe importare un politico dall’estero e sceglierei probabilmente Willy Brandt. Ecco, vorrei che il leader dell’opposizione fosse lui: un socialdemocratico con esperienza di amministrazione ma anche di governo. Uno capace non solo di ascoltare, ma anche e soprattutto di capire gli elettori. Invece, ora come ora l’opposizione non ha nessuno in grado di contrastare Salvini sul piano della personalità.

Cosa ha Salvini che gli altri non hanno?

Salvini sente il suo elettorato, ha con esso un rapporto fisico. Pensi al Papeete: Zingaretti non avrebbe mai potuto andare in giro a petto nudo, Salvini sì. Inoltre, al leader leghista piace visibilmente fare campagna elettorale, lo gratifica farsi i selfie per strada e bere il mojito in pubblico. I politici del Pd e dei 5 Stelle, invece, quando sono in mezzo alla gente hanno l’aria triste. Si vede che, se potessero, andrebbero al cinema o in giro in barca piuttosto che stare lì. Quando dico che serve un leader che sappia capire gli elettori e non solo ascoltarli, intendo esattamente questo. Bisogna imparare a parlare anche alla pancia dell’elettorato, ma per farlo bisogna prima sapere dove sta questa pancia. Altrimenti si rischia di dire cose banali e sbagliate.

Di Maio e Renzi non sono capaci?

Di Maio ormai è un leader in via di sparizione, prima viene sostituito e meglio è. Renzi è tutto preso dal suo bisogno di dimostrare che è potente e per farlo usa il ricatto di governo. L’unico che saprebbe fare quello che fa Salvini è Beppe Grillo, ma ormai ha fatto un passo indietro e il tempo passa anche per lui. Non creda, però, che Salvini sia infallibile.

Anche il centrodestra oggi ha un punto debole?

Cova un dramma esistenziale enorme: Salvini e Meloni sono convintamente sovranisti, mentre Berlusconi non se lo può permettere e, se andrà al governo con il suo 8% ad essere buoni, non potrà condividere la politica antieuropeista. Per contro, la Commissione europea sarà ostile a un governo sovranista e ci metterà di nuovo sotto osservazione e questo, alla fine, sarà penalizzante solo per l’Italia. Per questo Salvini deve stare attento: prima capirà che la sovranità oggi è condivisa e va esercitata dentro e non contro la Commssione europea, meglio sarà per tutti.

 Pubblicato il 13 novembre 2019  su ildubbionews

 

 

 

Un possibile ago della bilancia? #centro #politicadelricatto

Pubblicato sulla rivista Formiche, novembre 2019, n. 152, pp. 6-7

Dov’è? Come mai non fa la sua comparsa? Tutti (quasi) lo cercano nessuno lo trova. Insomma, quando non raccontano del bipolarismo, competitivo oppure feroce, spesso immaginario talvolta muscolare, i commentatori italiani scrivono che sarebbe proprio bello se anche (?) l’Italia avesse un partito di centro –come se un partito di centro esistesse e fosse essenziale in tutte le democrazie che conosciamo. Sul territorio dello stivale, scrivono i nostri commentatori ripiegati sulle non magnifiche e non progressive sorti dell’Italia, è dispersa una (in)certa quantità di elettori che quel (partito di) centro lo desiderano ardentemente. Senza di lui, si sentono rappresentati male, poco, per niente. I più audaci dei commentatori, sulla scia dello sfrontato Berlusconi, si spingono ad affermare che quell’inesistente, centro, sarebbe il veicolo più appropriato per rappresentare i liberali e i “moderati”, per costringere entrambi i poli, che tali non sono, poiché il sistema partitico italiano è definibile come pluralismo destrutturato, a moderare le loro politiche, i comportamenti e le esternazioni, anche quelle su Instagram.

Il fatto che il centro attualmente non esista potrebbe essere dovuto a molti fattori, ma è difficile sostenere che fra questi non si trovi la pessima legge elettorale Rosato, oggi impegnato a costruirlo quel centro attraverso Italia Viva. È altrettanto difficile affermare che il centro si manifesterà immediatamente grazie alla tanto temuta “proporzionale” perché un conto è lo spazio che, certo, la proporzionale apre, un conto, molto diverso è lo spazio che le organizzazioni politiche realmente esistenti (per non gratificarle del termine “partiti”) lasciano. Naturalmente, un “imprenditore politico” (non se la prenda Max Weber se applico la sua categoria al disastrato contesto italiano) quello spazio centrale, se ne ha le capacità, lo crea e lo occupa per farne buon uso. La precondizione è duplice: 1) che vi siano molti elettori italiani collocati grosso modo al centro; 2) che gli astensionisti siano tali perché i due o tre poli, forse quattro, attualmente esistenti, non sappiamo offrire loro proposte mobilitanti, risposte convincenti. Quindi, il quesito è se gli elettori potenzialmente centristi e parte almeno degli astensionisti siano collocabili fra i “moderati”. Vale a dire, coloro che in Italia non si sentono adeguatamente rappresentati vogliono politiche liberali e moderate che né la Lega di Salvini né le Cinque Stelle di, forse, Di Maio, né il Partito Democratico di, forse, Zingaretti, sono in grado di offrire? Oppure, quegli elettori moderati non gradiscono il securitarismo bellicoso del capitano della Lega, il populismo paesano del ridimensionato capo politico del Movimento Cinque Stelle, l’incertismo programmatico del Partito Democratico?

E se i presunti moderati, anche senza tenere conto delle molte differenze al loro interno, non fossero affatto alla ricerca di moderazione, ma si disperdessero lungo lo schieramento politico in base alle loro preferenze in termini di leadership, di stile, di politiche, desiderando quella modalità di rappresentanza definibile come “agire con competenza e assunzione di responsabilità”? Non è affatto detto che un qualsiasi partito di centro sarebbe il meglio collocato per mostrare e fare valere questa qualità. Al contrario, è nella competizione bipolare, favorita da opportune regole elettorali e istituzionali, che emerge nella maniera migliore la rappresentanza politica in grado di soddisfare le aspettativa di una maggioranza di cittadini, moderati e no. Allora, non chiediamo la comparsa di un partito di centro, e meno che mai, diamo per scontato che sia indispensabile per migliorare il funzionamento del sistema politico italiano. Talvolta sì talvolta no, ma non mettiamolo al centro delle preoccupazioni politiche poiché se diventasse l’ago della bilancia assisteremmo alla politica del ricatto contro gli eventuali due poli non ristrutturati.

È Di Maio che non ha mai creduto all’esperimento, anzi l’ha danneggiato, e dovrebbe dimettersi #Umbria2019

In un altro schieramento politico, un altro leader avrebbe subito rassegnato le dimissioni. Lo ha fatto persino Matteo Renzi

Una alleanza, forse soltanto una convergenza di timorosi sentimenti, non si costruisce frettolosamente. Se fatta come stato di necessità in chiave difensiva e non propositiva, con il capo del governo che se ne serve per criticare ancora, inutilmente e forse in maniera controproducente Salvini, non produce nessun frutto. Se, poi, per farla quella convergenza, bisogna scegliere una figura civica di nessun impatto come candidatura alla presidenza della Regione Umbria per “correre” contro una senatrice della Lega, già sindaco di un comune umbro, quindi, nota e rappresentativa del territorio, allora si delineano con precisione e si comprendono meglio le ragioni della meritata sconfitta dell’alleanza Cinque Stelle-Partito Democratico.

Il più sconfitto di tutti è il capo politico del Movimento. Infatti, Luigi Di Maio in quella alleanza, subito derubricata a “esperimento”, non ha mai creduto e in pratica con i suoi distinguo, le sue perplessità e la sua personale inadeguatezza l’ha profondamente danneggiata. Che gli elettori umbri, accorsi alle urne in una percentuale nettamente superiore a quella di cinque anni fa, lo abbiano punito, è solamente logico e giusto. Altrove, ovvero in un altro luogo e in un altro schieramento politico, un altro leader avrebbe subito rassegnato le dimissioni. Lo ha fatto persino Matteo Renzi. Invece, Di Maio è ancora lì e pensa di dettare condizioni per la prossima battaglia, molto più importante dell’Umbria, che si combatterà in Emilia-Romagna. Correranno da sole le Cinque Stelle?

Certo, dopo avere bollato il Partito Democratico come il Partito di Bibbiano, scandalo certo grave anche se in via di ridimensionamento e che, comunque, riguarda pochissimo la guida nazionale del PD, non sarà facile convincere i suoi elettori che con quel partito è imperativo fare un’alleanza per non lasciare campo aperto ad una scorribanda vincente della Lega. La sconfitta in Emilia-Romagna avrebbe inevitabilmente un impatto pesantissimo sul governo nazionale. Naturalmente, di errori politici significativi ne sono stati fatti anche dal Partito Democratico, da Dario Franceschini e dal segretario Nicola Zingaretti. Il primo ha esagerato a sponsorizzare molto prematuramente un’estensione dell’alleanza di governo nazionale a tutte le realtà locali. Il secondo non ha voluto, forse non ha saputo resistere a quell’affermazione né delineare una prospettiva più cauta e più meditata.

Ciò che mi pare palesemente in una crisi profonda per entrambi, M5S e PD, è la (in)cultura politica che dovrebbe sorreggere la loro proposta politica e la loro azione, al governo e all’opposizione. Il Partito Democratico ha preannunciato una Costituente delle idee di cui, però, sono poche le informazioni disponibili. Comunque, di idee dovrebbe discutere e non di proposte e di soluzioni ai problemi del governo. Le Cinque Stelle non possono pensare di cavarsela con la consultazione degli attivisti attraverso la Piattaforma Rousseau. Nessuna cultura politica può “passare” attraverso la rete. Deve essere iniziata con riflessioni variamente prodotte, anche dall’alto. Poi nutrita di confronti e comparazioni. Infine, delineata con chiarezza e diffusa capillarmente, anche per, eventualmente, riformularne alcuni elementi.

Sono tutte operazioni per le quali certamente Di Maio non ha finora mostrato nessuna consapevolezza e capacità. Al contrario, lui e altri nel gruppo dirigente mostrano fastidio per qualsiasi approfondimento che riguardi la cultura politica. Nel loro regno della post-ideologia non vi è spazio per discussioni concernenti il tessuto culturale che sostiene le democrazie parlamentari e che può consentirne/agevolarne il miglioramento. Al contrario, se ne vorrebbe un imprecisato superamento. Se correre da soli significa anche, forse inevitabilmente, il rifiuto del confronto “culturale” ne conseguirà un ripiegamento che nel migliore dei casi servirà a raccattare un pugno di voti per ritornare e restare all’opposizione. Senza cultura politica non sarà possibile nessun miglioramento della politica e della democrazia italiana. Tutti da discutere e chiarire, gli atteggiamenti e i comportamenti delle Cinque Stelle in Emilia-Romagna sono destinati a produrre conseguenze rilevanti di molti tipi. La situazione non appare affatto promettente.

Pubblicato il 28 ottobre 2019 su huffingtonpost.it

L’Umbria vota e conta #Umbria2019

No, l’Umbria non è l’Ohio, lo stato sempre in equilibrio fra repubblicani e democratici, spesso decisivo per eleggere il Presidente USA. La regione Umbria, che è stata solidamente “rossa” dal 1970 ad oggi, si trova in bilico. È diventata, come si dice con termine tecnico, “contendibile” poiché è emerso un grosso scandalo nel sistema sanitario che ha coinvolto il Partito Democratico. Lasciando alle indagini della magistratura la parte più propriamente legata a reati, si potrebbe sostenere, e sono disposto a farlo senza nessuna difficoltà, che qualsiasi sistema politico, anche regionale, nel quale non si produce alternanza per un lungo periodo di tempo, è destinato a degenerare. È una lezione politica da imparare in tutta la sua pregnanza, valida sempre. Il resto va affidato, come in tutte le democrazie, ai politici e agli elettori dell’Umbria ai quali il (poco)centro-(molta)destra, ricompattatosi, offre proprio la possibilità di mandare a casa coloro che hanno governato per tanto/troppo tempo.

Al fine di evitare una probabile vittoria del centro-destra, tuttora in testa nei sondaggi, il Partito Democratico ha perseguito con determinazione la via dell’unico accordo possibile, quello con il Movimento 5 Stelle che, pur non pienamente convinto, ma consapevole delle sue difficoltà, lo ha accettato. Ne è emersa una competizione bipolare, che molti, ad esempio, il segretario del PD, Nicola Zingaretti, considerano un buon inizio che potrebbe essere esteso un po’ in tutta Italia. A questo punto, il duello centro-destra/PD+5Stelle ha acquisito significati importanti che raramente si trovano nelle elezioni regionali. Ovviamente, l’ elettorato umbro è consapevole che vota per il Consiglio regionale e per il Presidente della Regione. Dunque, si farà guidare anche da questa considerazione. Però, è inevitabile, logico e persino giusto che una parte non piccola di elettori desideri che il loro voto serva a qualcosa di più. Infatti, il centro-destra ha chiesto un voto che serva anche a dare una spinta verso la conquista del governo nazionale, all’insegna del motto (che m’invento)” il centro-destra unido jams será vencido.

Certamente, Salvini rivendicherà l’eventuale vittoria come ennesimo segnale che nel paese esiste una maggioranza opposta a quella rappresentata dal governo guidato da Conte che in questi giorni ha alzato il tiro della critica proprio contro il capo della Lega. La sconfitta della coalizione PD-5 Stelle significherebbe che l’elettorato umbro non ha voluto premiare la strategia del segretario del PD di portare l’alleanza, che non tutti i Cinque Stelle sembrano condividere, anche in altre realtà locali. Tempi brutti si addenserebbero anche sul futuro dell’Emilia- Romagna, altra regione simbolo della sinistra. Insomma, circa settecentomila elettori umbri hanno nelle loro mani (e nelle loro menti) un voto pesante. Non è detto che serva a cambiare il governo, ma obbligherà i governanti a riflettere seriamente su cosa fare e come andare avanti.

Pubblicato AGL il 27 ottobre 2019

Non è il nuovo che avanza

Ansia di irrefrenabile protagonismo, desiderio di vendetta (contro chi?), incapacità di autocritica, ricerca di un futuro nel quale scatenare tutte le sue potenzialità: sono queste chiavi di lettura plausibili della scissione proclamata ieri da Renzi, ma a lungo progettata? Probabilmente tutte insieme. Ma, è utile soffermarci sulla psicologia del due volte ex-segretario di un partito da lui conquistato e dominato, poi portato alla grande sconfitta referendaria del 2016 e ai minimi termini elettorali nel 2018? Credo di no. Lascerò il passato ad altri interpreti e guarderò al futuro, non come un astrologo, ma come un analista della complicata scena politica italiana. Lasciare il PD, ma non il seggio parlamentare non può che significare il non avere fiducia nel partito per portare avanti la linea politica preferita. Eppure, il PD di Zingaretti ha appena fatto proprio quello che Renzi, ad un anno dalla sua dichiarazione contraria qualsiasi dialogo con le Cinque Stelle ha imposto, ovvero un governo con Di Maio e i suoi collaboratori. Sarebbe certamente disastroso se Renzi e i suoi parlamentari scissionisti facessero cadere il governo appena nato nel quale si trovano almeno cinque di loro. Infatti, Renzi si è affrettato ad escludere questa eventualità. Intende sostenere il governo Conte 2, ma, aggiungo io, come la corda sostiene l’impiccato. È probabile che ogni provvedimento legislativo del governo dovrà essere contrattato e approvato dai renziani. Se, però, il distacco dal PD è motivato dalla non condivisione della linea del partito, come potranno i renziani accettare quanto il governo Conte farà traducendo in leggi e in politiche pubbliche anche molte delle preferenze del PD di Zingaretti? In effetti, anche se in maniera poco limpida, Renzi sostiene che questo PD, peraltro, non molto diverso da quello da lui variamente guidato, ha una collocazione che non gli garba, che c’è una parte, presumibilmente ampia, di elettorato, del paese, che il PD non riesce a raggiungere e non può rappresentare. Sulla rappresentanza politica e sociale bisognerebbe chiedere conto a Renzi della pessima legge che porta il nome di Ettore Rosato, suo fedelissimo, e di quei suoi parlamentari, come la Boschi, paracadutati molto lontano dai loro territori. Sulla collocazione dell’elettorato alla ricerca di politiche diverse da quelle del PD e del governo al quale partecipa, è lecito discutere. Sarebbe questo elettorato collocato al centro dello schieramento politico? centristi e moderati, quindi, contendibili anche da Berlusconi e Forza Italia? Oppure, se non esistono più destra e sinistra, non sono sopravvissuti neppure i centristi, ma esistono soltanto cittadini-elettori italiani (e di altri paesi) che guardano alla qualità delle proposte politiche e alle priorità programmatiche? Rimane il quesito se il nuovo piccolo veicolo renziano, valutabile 4, forse 5 per cento, farà avanzare una politica nuova o proteggerà i ruoli e le cariche di cui già godono.

Pubblicato AGL il 18 settembre 2019

Conte ha vinto, il suo governo 2 non ancora. Parla Pasquino #Intervista @formichenews

 

Il prof. Gianfranco Pasquino a Formiche.net: non sarà una stagione riformista, ma si potrebbe aprire una fase di confronto-scontro che arricchisce il Paese. La prima prova del governo? La legge di bilancio

Intervista raccolta da Simona Sotgiu

 

Una stagione riformatrice? Non proprio, ma ci sono buone premesse perché si apra un dialogo su come far crescere il Paese e su come redistribuire la ricchezza prodotta. A patto che sia Pd che M5S si interroghino non solo sugli obiettivi, come il salario minimo o il cuneo fiscale, ma anche su quali mezzi scegliere per raggiungerli. Conte? Da avvocato del popolo è diventato guida politica di un esecutivo, “è un professore che ha fatto una carriera strepitosa, non si può negare che sia già entrato nella storia”. A poche ore dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Gianfranco Pasquino, professore emerito di scienza politica analizza con Formiche.net i punti di forza e le debolezze del nuovo esecutivo giallorosso, sottolineando le sfide che lo aspettano, come la legge di bilancio e le riforme strutturali, dal taglio dei parlamentari all’autonomia differenziata.

Professore, cosa l’ha colpita di più del discorso del presidente Conte?

Conte ha fatto nel complesso un compito più che sufficiente, diciamo il compito che gli spettava, con una punta di interesse nella presentazione, cioè la richiesta di un linguaggio della politica tra persone, tra i parlamentari e il Paese reale, che sia un po’ più rispettoso delle varie anime del Paese. Ridare un po’ di dignità alla politica anche attraverso le parole, questo l’ho apprezzato ed è stata una buona introduzione.

E il resto?

Per il resto, ci ha chiesto di essere più buoni, di pagare le tasse, di essere accoglienti, di ricordarci che bisogna osservare le leggi, che bisogna garantire la parità di genere, magari anche negli stipendi (il che non mi pare una brutta idea), aiutare i disabili, cercare di migliorare la formazione attraverso la scuola e infine cercare di essere europeisti, perché se non lo siamo rimaniamo isolati. Tutto questo va benissimo, ma purtroppo sull’immigrazione è stato leggermente più incerto.

Cosa intende?

Ha detto, in fin dei conti, che dovrà essere l’Europa a risolvere questo problema. Mi sarebbe piaciuto sentire, invece, la parola “ius soli”, che avrebbe potuto incontrare il favore del Pd, che dovrebbe ricordare di aver proposto un disegno di legge in materia, e sarebbe stato un atto di accettazione consapevole di una società che sta cambiando e che ha al suo interno persone che fanno gli italiani senza purtroppo poterlo essere dal punto di vista della cittadinanza.

Il presidente Conte ha parlato di un “progetto politico che segna l’inizio di una nuova stagione riformatrice”. Pensa che sia possibile?

Il presidente del Consiglio le può anche dire queste cose, poi noi osservatori esterni disincantati che ne abbiamo viste tante, avanziamo i nostri dubbi. Alcuni di una certa età ricordano una stagione riformatrice, si chiamava “centrosinistra”, il primo centrosinistra del ’62-’65, ed era accompagnato da entusiasmo, da una classe dirigente socialista molto solida e molto inventiva, e una classe dirigente democristiana che si era resa conto che il modo per mantenere il suo potere politico era per l’appunto di guardare avanti, fare riforme. Oggi tutto questo non lo vedo.

Perché?

Perché tra i 5 Stelle non conosco chi siano i riformisti. Apprezzo tre o quattro persone, come Roberto Fico che mi pare un uomo all’altezza della situazione; ho ascoltato con piacere Nicola Morra, perché è un uomo colto, però i veri riformisti non li ho visti. Non conoscono, a mio parere, la storia del Paese, né la storia dei riformismi occidentali. Nel Pd ci sono delle persone che sanno fare politica, senza dubbio, però non ho visto l’entusiasmo che deve accompagnare una stagione riformista. Alla fine la parola che ha usato Zingaretti è stata “lealtà”, e va bene ma non è abbastanza. Si richiede innovazione, impegno profondo, una visione e nel discorso del presidente del Consiglio questa visione non c’è. Ci sono una serie di indicazioni, certamente apprezzabili, ma il disegno complessivo non lo vedo. È una lista di cose da fare. Però, come diceva il mio maestro, se gli obiettivi spesso li condividiamo, sono i mezzi che dobbiamo definire con chiarezza, e i mezzi non li ho visti.

Quindi non vede spazio per le riforme istituzionali?

Ci credo poco. Forse voteranno il taglio del numero dei parlamentari all’interno di un contesto in cui giustamente Conte ha detto che bisogna predisporre nuovi freni e nuovi contrappesi. Ma anche in questo caso, queste misure non si devono predisporre dopo, bisogna prima avere un’idea di dove si va a parare riducendo il numero dei parlamentari. Se bisogna fare una legge elettorale, anche in questo caso bisogna avere delle idee.

Si parla di una legge elettorale proporzionale…

Una riforma proporzionale non esiste. Esistono 5, 6, 7 varianti di un sistema elettorale proporzionale e anche questa sarà un’operazione non facile. L’autonomia differenziata, la vedo una cosa complicatissima, mi chiedo come le regioni a statuto speciali si rapporteranno a questo dibattito. Deve essere chiaro che non è più tempo di giocare con le istituzioni, non si gioca più con la legge elettorale, che deve essere sì cambiata ma senza giochi e dimostrando di aver imparato qualcosa dagli ultimi 25 anni di riforme elettorali.

Quali saranno le maggiori sfide e i maggiori rischi per i neo alleati di governo?

Io credo che non ci siano dei punti di scontro inevitabili, forse se il Pd insiste troppo nel rivedere il passato ci saranno degli inconvenienti, perché M5S ha votato dei provvedimenti e non può semplicemente buttarli a mare. Però Conte è stato bravo, ha detto “recepiamo le indicazioni del Presidente della Repubblica sul decreto sicurezza” e questo è positivo. Mi aspetto però che ci siano delle differenze di opinione, in particolare su tutto ciò che riguarda l’economia e lo vedremo subito con la legge di bilancio.

Su cosa dovrebbero concentrarsi?

Il Partito democratico dovrebbe porsi il problema della crescita, mentre il Movimento 5 Stelle storicamente si è posto il problema della redistribuzione, e per redistribuire bisogna produrre, quindi forse prima bisogna stabilire se e come si cresce e poi che cosa si può redistribuire. Ho sentito gli applausi sulla riduzione del cuneo fiscale e sull’introduzione del salario minimo e ci sono margini di confronto e anche di scontro. Ma perché ciò avvenga bisogna avere idee forti, altrimenti resta tutto in superficie. Uno scontro, anche duro, frontale, su principi molto significativi sarebbe forse più utile, perché insegnerebbe al Paese qualcosa sulle grandi differenze che passano tra una politica davvero riformatrice e una politica che si limita solo alla redistribuzione.

Come cambierà, se cambierà, la dialettica politica ora che si è passati dall’esecutivo gialloverde a quello giallorosso? Il premier Conte ha chiesto toni più sobri, ma dalle opposizioni l’accusa di un governo “nato dentro i palazzi” è già cavallo di battaglia. 

Innanzitutto bisogna chiarire che i governi nascono sempre nel palazzo, dentro il Parlamento. Anche il governo M5S-Lega è nato in Parlamento, preso atto dei numeri. L’unico passaggio vero dal governo precedente a quello attuale è che il presidente del Consiglio, che in precedenza si era definito l’avvocato del popolo, adesso ha capito che deve davvero guidare un governo. E secondo me ha anche manifestato le capacità per farlo ed è certamente un elemento positivo. Se poi evita alcuni accenni di leggera arroganza e superiorità è meglio per tutti, però glieli concedo.

Da professore a professore, lo promuove, quindi?

Diciamo che è giusto che faccia sapere a tutti che è stato bravo, soprattutto nella seconda fase della crisi, e che sarà bravo, essendo più che un semplice punto di equilibrio ma l’elemento che è in grado di spostarlo sempre un po’ più avanti, anche grazie ai suoi rapporti internazionali. È un professore che ha fatto una carriera strepitosa, non si può negare che sia già entrato nella storia.

Ma torniamo alla comunicazione, pensa ci siano margini per passare dalle dichiarazioni gridate a toni più sobri?

Ahimè, io non vedo quasi nessuno capace di comunicare all’altezza della situazione attuale, quindi inevitabilmente alcuni di loro faranno campagna elettorale permanente. Sentono che devono rafforzare le basi di questo governo nella società, però non so se ne sono capaci. Il punto di forza di Salvini è che era capace di farlo, aveva il fisico del ruolo, un incedere imponente e inoltre gli piaceva. Purtroppo spesso i politici capaci dal punto di vista delle competenze e conoscenze non sono così interessati a mostrarsi in pubblico, perché hanno altre specialità. E questo sarà certamente un vantaggio per Conte perché sarà lui a comunicare con i cittadini.

Nella rosa di ministri, chi vede più propenso in questo senso?

Conte ha chiesto ai ministri di tenere basso il livello della loro presenza sulla scena, ma c’è qualcuno a cui piace essere presente, come Paola De Micheli. A lei è sempre piaciuto e ha anche un ministero abbastanza importante che forse le permetterà di essere più visibile. Anche Di Maio, dato il suo dicastero, avrà tante “photo opportunities” e le userà tutte, però il grande comunicatore in questo governo non c’è, se non il presidente del Consiglio.

Cosa pensa di Di Maio alla Farnesina? Ci sono state molte critiche…

Io sono un professore, il che mi fa dire che in un ministero importante come la Farnesina forse dovrebbe esserci uno sbarramento all’ingresso, ossia la conoscenza di almeno una lingua straniera. Poi subentra il politologo, però, che dice che nei governi di coalizione a due – democristiani e socialdemocratici tedeschi o socialdemocratici e verdi – la seconda carica del governo era sempre il ministero degli Esteri ed era sempre affidato al capo del secondo partito, quindi nella logica della distribuzione delle cariche quella poteva giustamente essere rivendicata da Di Maio. E penso anche un’altra cosa.

Prego.

Conte ha delineato una politica estera nella parte finale del suo discorso, per quanto alcuni passaggi sarebbero difficili per chiunque, come il caso della Libia, mettere fine al conflitto interno sarà un’operazione epocale. Però in generale Conte ha detto cosa bisogna fare e se Di Maio ha ascoltato, e immagino di sì, e se si fiderà dei funzionari e degli ambasciatori estremamente preparati della Farnesina senza portare troppi consulenti esterni, potrebbe fare un buon lavoro.

Pubblicato il 10 settembre 2019 su formiche.net

Governo giallorosso? Il prof. Pasquino lo promuove (e “candida” Padoan…) @formichenews

Intervista raccolta da Francesco De Palo twitter@FDepalo

Il politologo a Formiche.net: “Il Conte bis è l’unica soluzione. Il commissario italiano? Padoan sarebbe perfetto”

I moderati italiani che vogliono un governo decente hanno solo un interlocutore: il Pd. Ne è convinto Gianfranco Pasquino, uno dei politologi più prestigiosi del nostro Paese e professore emerito di Scienze Politiche all’Università di Bologna, che affida a Formiche.net le sue previsioni sulla crisi di governo, sul respiro dell’alleanza giallorossa e sul nuovo Commissario italiano in Ue.

Perché il Conte bis è l’unica soluzione al puzzle di Palazzo Chigi?

Qualsiasi altra soluzione produrrebbe sconquassi tra le fila del Pd. Inoltre la scelta di un premier alternativo a Conte sarebbe fonte di duri scontri interni al M5s. Per cui al momento nessuno ha titoli migliori di Giuseppe Conte.

Di Maio vicepremier è una condicio sine qua non o una velleità personale?

Non so se sia velleità personale, comunque so che sarebbe un errore: è inaccettabile. In un governo di coalizione è il secondo partito che indica il vicepremier non il primo, soprattutto quando ha già indicato il capo del governo.

Il pieno mandato della Direzione dem a Zingaretti per un governo di legislatura può essere per il Segretario un’arma a doppio taglio?

Innanzitutto anche se tutti possono parlare di governo di legislatura, esso poi deve passare alla prova dei fatti: il governo naturalmente dura finché riesce a realizzare alcuni punti programmatici, ottenendo riscontri positivi dalla società e dall’Europa. Il Pd deve volere un lungo periodo per dimostrare di credere ad un esecutivo che duri di più rispetto a quello precedente. Inoltre ha bisogno di tempo, perché se dovesse ottenere i risultati auspicati allora potrà rivendicarli nelle prossime urne. Quindi vedo due condizioni basilari tra i democratici che parimenti si possono applicare al M5S.

Ovvero?

I grillini fino ad oggi hanno fatto abbastanza male, adesso devono cercare di recuperare e si sbagliano se si illudono di poterlo fare in quattro mesi. Devono augurarsi che funzionino i loro progetti, come un reddito di cittadinanza magari modificato, e ottenere qualcos’altro che sia utile in termini di visibilità del movimento. E dico con certezza che non penso alla riduzione del numero dei parlamentari.

Poco si è parlato nella crisi di governo di politica estera, tranne per il tweet trumpiano pro Conte. Ma il ruolo italiano nell’equilibrio atlantico quanto sta influendo nelle dinamiche di queste ore?

L’Italia, nonostante tutto, in Europa è un Paese importante. A livello mondiale certamente no, ma dipenderà dalla sua capacità di appoggiarsi ad un attore primario. In questo caso un appoggio con riserve a Trump è di gran lunga preferibile di uno a Putin. Se il M5s riuscirà a motivare adeguatamente cosa ha inteso ottenere con la Via della Seta, allora matureranno i buoni rapporti con la Cina, che ci occorrono dal punto di vista economico. Però è in Europa che dobbiamo fondamentalmente tornare a contare, perché in quel caso potremmo addirittura determinare che sia l’Europa a contare di più nel mondo.

Con Gentiloni commissario Ue?

Essendo stato già a capo di un governo, senza dubbio sarebbe all’altezza di quelli che immagino saranno i commissari espressi da altri paesi. Però ci sono altri nomi sul campo: chi designerà dovrebbe avere un identikit in mente. All’inizio sembrava che la Lega avesse puntato su un portafoglio economico di peso: credo che questa casella sarebbe comunque utile all’Italia, ma in quel caso non con Gentiloni. Potrebbe essere l’ex ministro dell’economia Padoan il nome perfetto.

Crede che un portafoglio economico sia più utile all’Italia rispetto a quello dell’agricoltura?

Anche l’agricoltura ci sarebbe utile, ma il portafoglio economico ci permetterebbe di contare molto di più. Se proseguiamo nel credere che l’Europa debba avere maggiore flessibilità, allora dovremmo mandare qualcuno in grado di argomentare questa tesi. Padoan ha la statura internazionale, l’esperienza ministeriale ed è noto a Bruxelles.

Calenda che dice di voler lasciare il Pd, darà vita al centro che non è riuscito a Renzi?

Renzi ha posto rimedio a quell’errore clamoroso commesso il 5 marzo del 2018, ma deve ancora giustificare la sua incoerenza. Ma da quell’errore viene fuori un qualcosa che mi pare sia positivo. Su Calenda non avrei nulla da dire, ha acquisito una posizione mediatica che mi sorprende, però sostiene tesi che non stanno né in cielo né in terra dal punto di vista della costruzione di un centro. Il Pd lo contiene già al suo interno, proprio quando nessun altro lo controlla. Forza Italia non è centro, come non lo sono Lega e Fdi. E allora dove andranno gli elettori moderati che vogliono un governo decente? Solo nel Pd.

Come rispondere a chi accusa il M5S di mettere in pratica la politica del doppio forno?

Quando un partito può permetterselo lo deve fare. In questo caso il doppio forno non c’era: il M5S ha avuto un’esperienza non positiva con la Lega e quest’ultima era anche disposta di tornare al governo. A quel punto però era chiaro che sarebbe stato imbarazzante per tutti. Per cui non c’è nulla di scandaloso nello scegliersi gli alleati: direi che è tutto normale.

Pubblicato il 28 agosto 2019 si formiche.net

The Italian political crisis: a new government or snap elections?

Governmental instability in Italy has never meant democratic instability. Governments have come and gone, on average every 15-17 months within a democratic framework rarely challenged except in a minority of cases. The Italian Constitution has always been successful in guiding old and new actors to play by the rules. Even the most recent and most unusual government made by the anti-establishment Five Stars and the largely populist League remained within clear boundaries. With regard to the duration of the term of office, Conte’s government has performed satisfactorily by Italian standards and occupies the 20th position (out of 65 governments) since 1946.

What is most certainly wrong with the Italian political system depends on two elements: on the one hand, the party system and its components and, on the other hand, Italian society. Following the fully deserved collapse between 1992 and 1994 and the disappearance of all Italian parties, new parties at different points in time have not reconstituted a decent framework for party competition. Fragmented, not especially endowed with civic virtues, somewhat corrupted, always inclined to look for privileges, still imbued with amoral familism, Italian society has, of course, been unwilling and unable to engage in a major effort to (re)construct decent party “vehicles”. Personalist parties have made their appearance, transformed themselves, died, merged without being able to offer something acceptable to the voters. The volatility rate, that is the percentage of Italian voters changing their vote, between 1994 and 2018 has been as high as 40%. It was 27% in 2018. Throughout this period Berlusconi’s Forza Italia went from almost 40% to about 8%. In 2018 the Democratic Party (PD) led by Matteo Renzi plummeted to its worst result ever: 18.7%.

The winners of the 2018 elections, the Five Stars Movement (32,6%) and the League (17,3%) (quadrupling its 2013 votes), succeeded to form a minimum winning coalition in spite of some major political and platform differences. The exchange of agreed-upon policies seemed to work with limited conflicts and tensions until the European elections when Matteo Salvini’s League doubled the amount of votes received by the Five Stars Movement and his flamboyant leadership pushed into a marginal position Luigi Di Maio, the political leader of the Five Stars Movement. At that point, Matteo Salvini decided that it was time to translate its European loot into Italian votes as well and put an end to Conte’s government.

The decision regarding if and when to dissolve the Parliament and to hold new elections constitutionally belongs to the President of the Republic who must first ascertain whether the incumbent Parliament is unable to give birth to and sustain another government. The ongoing negotiations between the Five Stars Movement and the Democratic Party are meant to find out if they are able to create not just a numerical coalition, but a viable and performing government. If not, snap elections will follow. The negotiations between the Five Star Movement and the PD, marked by reciprocal distrust, are difficult because none of the protagonists is in full control of the rank-and-file. The Five Stars Movement is a composite aggregation of anti-establishment feelings and quasi populist inclinations, divided between those who want to stick to their original principles remaining pure and those who want to translate those principles into policies. More mundanely, the PD is divided between those supporting the new secretary, Nicola Zingaretti, and those following the former secretary, Matteo Renzi, who is responsible for the election to Parliament of a large majority of them.

While the PD has no other way to go, the Five Stars Movement may revert to a coalition with the Lega. Left out in the cold and by now almost desperate, Matteo Salvini has repeatedly declared his willingness to accept all the programmatic priorities of the Five Stars, among them a sharp reduction in the number of the member of the Parliament, and has even offered the role of Prime Minister to Luigi Di Maio. New elections still loom large on the complex Italian political landscape while all the polls are predicting a victory of the center-right. In the meantime, nobody seems to care about the choice of the Italian nominee to become European Commissioner. Time and again Italy proves to be just a passive member of the European Union.

August 26, 2019 DCUBrexitInstitute.eu 

Forni e fornai nelle democrazie parlamentari #CrisiDiGoverno

Non importa quanti forni ci sono. Importa la qualità del loro pane, delle loro offerte. In tutte le democrazie parlamentari con sistemi multipartitici, sono diversi i partiti in grado di dare vita a coalizioni di governo. Abitualmente, i due criteri più importanti sono la compatibilità ideologica e la contiguità politica. Il secondo criterio vale specialmente laddove i partiti riconoscono l’esistenza di destra e sinistra. In Italia il Movimento 5 Stelle ha rifiutato questa distinzione fin dalla sua nascita, ma anche buona parte degli elettori leghisti afferma di non riconoscerla. L’indipendentismo e il federalismo guardano oltre. Le ideologie classiche sono oramai scomparse, non solo in Italia, ma, nel frattempo è nato il sovranismo in opposizione all’europeismo. Misuratosi con successo nelle urne europee, il sovranismo della Lega è diventato un fattore, forse il più importante, della crisi del governo giallo-verde. Oggi il riconoscimento della scelta europeista è la prima condizione che il Partito Democratico (im)pone alle Cinque Stelle per procedere alla formazione di un governo. Il PD chiede anche che le Cinque Stelle s’impegnono a non cercare un altro forno, cioè quello leghista. È una richiesta legittima, ma sostanzialmente impossibile da soddisfare. Infatti, le Cinque Stelle possono andare a vedere le carte del PD e presentare le proprie senza trattare in contemporanea con la Lega. Però, da un lato, la Lega, sull’orlo di una crisi di nervi per avere perso il governo e tutto quello che comporta, ha già messo sul tavolo le sue carte nuove, le vecchie essendo ben note alle Cinque Stelle. Dall’altro, nel caso fallisse lo scambio programmatico con il Partito Democratico, nessuno, neppure il Presidente Mattarella, potrebbe impedire alle Cinque Stelle di tornare a un rapporto a condizioni più favorevoli con un Salvini notevolmente ridimensionato e formare un Conte-bis, quel Conte sul quale il PD pone il veto.

D’altronde, qualsiasi negoziato per la formazione di un governo deve tenere conto anche delle persone, di coloro ai quali spetterà il delicato compito di attuare le politiche concordate. Talvolta questi “fornai” ottengono la carica di governo grazie al potere politico di cui godono nel loro partito. La loro presenza al governo è garanzia che contribuiranno a mantenerne il sostegno e non lo destabilizzeranno. L’elemento di grave disturbo a un eventuale governo Cinque Stelle-PD è dato dall’autoesclusione di Renzi e dei suoi, potenziali distruttori. Talaltra i fornai sono persone scelte per la loro competenza specifica: economica, sociale, di politica estera, della difesa, della giustizia. Privi di informazioni sulle rispettive preferenze derivanti da incontri precedenti, i dirigenti dei due partiti hanno bisogno di tempo per capirsi. Furono necessari circa ottanta giorni per dare vita al governo Conte. È irrealistico e controproducente, in particolare se si mira ad un governo di legislatura, fare fretta a Zingaretti e Di Maio. I forni hanno i loro tempi.

Pubblicato AGL il 26 agosto 2019

Pasquino: «Non ci sarà sfiducia. Un Conte bis? perché no…» #intervista

 Intervista di Simona Musco al politologo Gianfranco Pasquino. Per il docente, Salvini «ha agito da giocatore di poker i voti ce li ha, ma non scommetterei su di lui. Si è dimostrato grande nelle sue campagne nelle spiagge, meno da governante»

«Non credo si arrivi alle elezioni subito. Il M5s e il Pd possono trovare dei punti di convergenza, ci sono già. Ma Mattarella, per non sciogliere le Camere, dovrà avere davanti un progetto serio. Se è solo per mantenere le poltrone allora dirà di no». Per Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, il gioco di Matteo Salvini potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Perché se fosse una mano di poker, assomiglierebbe ad un bluff.

Professore, si andrà a votare o arriveremo alla manovra finanziaria con un governo?

Intanto credo sia legittimo, da parte di Salvini, volere le elezioni il prima possibile. Se fosse stato coerente avrebbe dovuto dimettersi subito, assieme agli altri ministri e sottosegretari leghisti, aprendo la crisi. Invece ci ha messo un po’. Ma è pure legittimo cercare una soluzione alternativa, che però non deve durare qualche settimana. Non mi sento di gridare all’inciucio: se qualcuno vuole prolungare la vita del Parlamento fa bene a provarci. Detto ciò, credo prevarrà la seconda soluzione.

Con un accordo M5s- Pd? Nessuno ammette davvero di volerlo.

Il nodo si può sciogliere facendo chiarezza sulle priorità di ciascuno. Su alcune proposte dei 5 Stelle il Pd può convergere, come il salario minimo. La riduzione dei parlamentari la voleva anche Renzi, sarebbe grave se ora si contraddicesse. E poi va trovata una convergenza sull’Europa, ma di fatto c’è già stata con il voto dei 5 Stelle a Ursula von der Leyen.

Poi c’è la manovra economica.

Bisogna vedere cosa diranno gli esperti di entrambi i partiti. Io, al momento, posso solo ipotizzare cosa direbbe Pier Carlo Padoan al Pd e so già che sarei d’accordo con lui. Cioè di rispettare quello che l’Europa ci chiede, cosa che dovremmo fare comunque per mettere il bilancio al sicuro.

Ma è vero, secondo lei, che Salvini ha aperto la crisi per non affrontare la manovra economica?

Salvini non sa nulla di economia, non è questo. C’erano pressioni all’interno della Lega per il problema del rapporto con la Russia. Lui vuole evitare di affrontare questo argomento e anche la mozione di sfiducia. Ha compiuto un atto irrazionale, pensando di incassare subito quello che i sondaggi dicono avrebbe in termini di voti. Ed è tutto da vedere: gli italiani cambiano idea facilmente. Ha agito da giocatore di poker.

Troverà alleati?

Anche Berlusconi ha votato per la von der Leyen. In Europa Salvini sta con Orban, che ha votato allo stesso modo, e Le Pen, che invece ha votato diversamente. Che politica avranno? E poi Berlusconi non è mica finito, resiste e vorrà un numero non marginale di collegi sicuri.

Il Pd, invece? Riuscirà a spaccarsi ulteriormente?

Non so se fosse possibile farlo ma lo hanno fatto. Non hanno mai raggiunto un’unità vera. Renzi lo aveva unificato con la forza, Zingaretti sperava di farlo con una visione ecumenica. Ma non ha funzionato. Solo che l’uno non va da nessuna parte senza l’altro. Forse sarebbe anche il caso che facessero una direzione in cui ognuno dica liberamente come la pensa, individuare un punto di convergenza, fare un patto tra gentiluomini e rispettarlo. Così potrebbe contare qualcosa, altrimenti consegneranno il Paese alla destra.

Come esce il M5s da questo anno e mezzo di governo?

Ha dimostrato di avere un’inadeguatissima cultura politica istituzionale e di non avere una classe dirigente. Ma il vero problema è l’inadeguatezza completa di Di Maio. I voti li ha persi lui, non il M5s, con le cose che dice e come le dice. C’è un problema di leadership. Poi vanno riformulate le regole dicendo che finalmente hanno capito come funziona una democrazia parlamentare e come funziona la politica di un Paese. Grillo invece è una risorsa per il M5s, può essere molto motivante per una parte di elettorato.

E Conte?

In quanto professore, lo invidio, perché ha fatto una carriera strepitosa. Ma è inadeguato. Sapeva poco di politica e mi è parso anche poco di istituzioni. Per esempio, dire “sono l’avvocato del popolo” è stupido, devi essere una guida. Poi ha imparato lentamente. Negli ultimi mesi ha preso ottime posizioni e ha fatto bene a ricordare a Salvini i suoi scheletri nell’armadio. Può svolgere un ruolo, ma il potere politico è un’altra cosa.

Verrà sfiduciato?

Penso che la maggioranza dirà no. Ma anche se ci fosse, dipende da come viene motivata la sfiducia. A quel punto andrà da Mattarella e non escludo che possa esserci un Conte bis, con una nuova maggioranza. Ma non numerica, operativa.

A quel punto Salvini perderebbe tutto?

Non penso, tanto prima o poi si andrà a votare e i voti li avrà. Certo, se io oggi dovessi scommettere non scommetterei su di lui. Ha commesso molti errori. Credo meriti di perdere. Si è dimostrato grande nelle sue campagne nelle spiagge. Meno da governante.

Pubblicata il 14 agosto 2019 su ildubbio.news