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Tag Archives: Referendum 2020

INVITO Meno non significa meglio NO al taglio dei parlamentari #12settembre Montopoli in Val d’Arno #Pisa

sabato 12 settembre 2020 ore 11,30
Circolo ARCI Torre Giulia
San Romano - Montopoli in Val d'Arno(PI)

Dialogo con Gianfranco Pasquino
Professore Emerito di Scienza Politica

Preferirei di NO Riflessioni e dialogo sul Referendum costituzionale #12settembre Castelnuovo di Garfagnana #Lucca

sabato 12 settembre 2020 ore 17
Castelnuovo di Garfagnana (LU)
Loggiato Porta

Preferirei di NO
Riflessioni e dialogo sul Referendum costituzionale con Gianfranco Pasquino, autore di Minima Politica. Sei lezioni di democrazia (UTET)

Le Costituzioni non si tagliano a fettine #11settembre #Bologna #IoVotoNO

venerdì 11 settembre ore 18
NOstra! Bologna
BARRICATA71
via Sant'Isaia 71
Bologna

Le Costituzioni non si tagliano a fettine

VIDEO Meno parlamentari = parlamentari migliori? Onda Rossa #ArticoloUno Reggio Emilia

 

 

 

Confronto sul referendum costituzionale tra il prof. Pasquino e la sen. Mantovani alla festa di Articolo Uno Reggio Emilia

VIDEO 

  Festa Provinciale di Articolo Uno di Reggio Emilia
Onda rossa
6 settembre ore 11
Campagnolo Emilia
Sala 2000 via Magnani, 1

Meno parlamentari = parlamentari migliori?

Gianfranco Pasquino
Maria Laura Mantovani
modera Enrico Tidona


Tagliare gli eletti renderà il parlamento meno capace di controllare il governo #Referendum2020 @domanigiornale

È legittimo ridurre il numero dei parlamentari per risparmiare, ma meno parlamentari non equivale affatto e non comporta miglioramenti automatici nella loro qualità ed efficienza

Nelle democrazie il numero dei parlamentari è da sempre significativamente collegato alla popolazione, al numero degli elettori dai quali i parlamentari sono eletti e ai quali debbono offrire rappresentanza.

Contrariamente a quello che si pensa e si continua a dire, nelle democrazie parlamentari il compito principale del Parlamento non consiste nel “fare” le leggi, ma nel controllare l’operato del governo in nome e per conto dei cittadini.

È legittimo ridurre il numero dei parlamentari per risparmiare, ma meno parlamentari non equivale affatto e non comporta miglioramenti automatici nella loro qualità e efficienza. Al contrario, oberandoli di lavoro li indebolisce a fronte del governo.

In tutte le democrazie il numero dei parlamentari è in qualche modo in collegato con il numero degli elettori. Grosso modo, il rapporto è un parlamentare ogni all’incirca centomila elettori (Francia 577; Germania 598 più un fluttuante numero di seggi aggiuntivi; Gran Bretagna 650). La grande eccezione è rappresentata dalla Repubblica federale e presidenziale degli Stati Uniti d’America il cui numero di Senatori (due per ciascuno Stato, oggi, dunque, complessivamente cento) è stabilito dalla Costituzione del 1787 e quello dei Rappresentanti (435) fu definitamente fissato dal Congresso nel 1929. Negli USA non sono in discussione i numeri, ma la ripartizione (reapportionment) dei rappresentanti fra gli Stati con riferimento ai mutamenti della popolazione (che spiega perché i censimenti decennali siano considerati molto importanti). Nel complesso, gli USA non possono essere presi come punto di riferimento per nessuna comparazione significativa.

I Costituenti italiani collegarono il numero dei deputati e dei senatori alla popolazione con l’obiettivo primario e predominante di dare adeguata rappresentanza all’elettorato italiano, uomini e donne le quali votarono per la prima volta nel 1946. Nelle elezioni del 1948 il numero dei deputati eletti fu 574 e quello dei senatori la metà: 237. Nel 1953 furono eletti 590 deputati, i senatori fermi a 237 e nel 1958 596 deputati e 246 senatori. Per bloccare una crescita continua dovuta all’aumento fisiologico della popolazione italiana, l’art. 56 della Costituzione fu modificato prima delle elezioni del 1963 stabilendo che i deputati dovevano essere e rimanere 630 e i senatori 315. Così è. Nel corso del tempo, in diverse occasioni, vi fu chi propose con varie motivazioni di ridurre il numero complessivo dei parlamentari. Spesso viene citata Nilde Iotti, comunista, a lungo (1979-1992) Presidente della Camera dei deputati, che sostenne che, una volta eletti i Consigli regionali che già davano rappresentanza politica aggiuntiva, era ipotizzabile e auspicabile la riduzione del numero dei parlamentari. Nelle commissioni bicamerali per le riforme istituzionali, altri proposero il superamento del bicameralismo con l’abolizione del Senato e l’elezione di una sola Camera composta da 500 (numero tondo) deputati. Qualcuno a sinistra si lasciò trascinare dall’entusiasmo di stampo antiparlamentare e populista affermando che 100 eletti erano più che sufficienti.

Altrove, in Francia, il fondatore e Presidente della Quinta Repubblica Charles de Gaulle perse nel 1969 il referendum popolare sull’abolizione del Senato e si dimise sdegnato. Il potente Primo ministro britannico Tony Blair ingaggiò una battaglia contro la House of Lords, ma gli riuscì soltanto di ridurre il numero dei Lords e delle Baronesse che, comunque, rimangono tuttora poco meno di 800. Si parva licet componere magnis, nella sua non proprio lineare riforma costituzionale del 2016, il Presidente del Consiglio Renzi aveva imposto la riduzione del numero dei Senatori a 100, affidandone l’elezione alle regioni, e ridefinito in maniera non proprio limpida i compiti del Senato, ridimensionandone notevolmente i poteri. In tutti questi casi, le motivazioni prevalenti facevano riferimento alla necessità di migliorare la rappresentanza politica e di dare maggiore efficienza ai procedimenti legislativi. Invece, la giustificazione principale offerta dal Movimento 5 Stelle per effettuare il “taglio delle poltrone”, ovvero la riduzione del numero dei parlamentari da 630 deputati a 400 e da 315 senatori a 200, è stata quella, peraltro, non del tutto disprezzabile, del risparmio: nel corso di una legislatura 500 mila Euro derivanti dal drastico ridimensionamento di stampo certamente populistico dei componenti della “casta”.

Nella visione complessiva dei pentastellati si trova anche l’aspettativa che meno parlamentari significhi maggiore efficienza sia della Camera sia del Senato. Ė un’aspettativa male argomentata e poco o nulla convincente. I Cinque Stelle e la maggior parte di coloro che si sono espressi a favore della riduzione del numero dei parlamentari, a loro tempo anche i sostenitori della riforma renziana, sembrano credere che il compito più importante del Parlamento in una democrazia parlamentare consista nel fare le leggi. Affermano che meno parlamentari significherebbe meno intralci nella discussione dei disegni di legge e maggiore rapidità nella loro approvazione. Questa teoricamente e fattualmente erronea concezione mette in secondo piano quelle che sono, invece, le due attività più importanti e insostituibili di un Parlamento: controllare, non solo da parte dell’opposizione, quello che il governo fa, non fa, fa male, e dare rappresentanza politica ai cittadini (al “popolo”). Il governo e i ministri dispongono di staff politici e burocratici che consentono loro, se sono uomini e donne mediamente capaci e competenti, di elaborare una molteplicità di disegni di legge e di emanare decreti anche complessi che richiedono valutazioni accurate. Ė evidente che la riduzione del numero dei parlamentari implicherà un sovraccarico di lavoro sia, sicuramente, nelle Commissione, già oggi quasi tutti i parlamentari fanno parte di almeno due Commissioni, sia in aula, dove i parlamentari hanno la facoltà di chiamare il governo a rispondere delle sue azioni e delle sue omissioni. Insomma, è molto probabile che, ridotti di numero, i parlamentari non saranno in grado di svolgere efficacemente e incisivamente il loro fondamentale compito di controllo sull’operato del governo.

Quanto alla rappresentanza politica, naturalmente, molto dipende dalla legge elettorale che sarà approvata. Appare più che probabile che sarà prescelta una legge proporzionale (incidentalmente, tutte le democrazie europee occidentali, ad eccezione della Gran Bretagna e della Quinta Repubblica francese, utilizzano buone leggi proporzionali, quella tedesca essendo la migliore, importabile purché nella sua interezza). Chi desidera buona rappresentanza dovrà esigere che sia esclusa la possibilità di pluricandidature e che sia consentito agli elettori di esprimere una preferenza, meglio se una sola. I candidati/e al parlamento in collegi necessariamente (più) ampi dovranno lavorare molto sodo per conquistarsi l’elezione e altrettanto intensamente per mantenere contatti con il loro elettorato. Dare buona rappresentanza politica, oltre a comportare enormi difficoltà per i partiti piccoli, diventerà certamente più difficile, non posso aggiungere “di oggi” poiché la rappresentanza attualmente esistente è per un insieme di ragioni sostanzialmente pessima, e anche più costoso.

La verità è che la riduzione del numero dei parlamentari, in nessun modo automaticamente migliorativa della rappresentanza politica, porrà il nuovo Parlamento e i suoi ridimensionati componenti alla mercé del governo. D’altronde, questa riforma nasce in chiave antiparlamentare quasi per dimostrare l’irrilevanza, al limite dell’inutilità, del Parlamento italiano, organismo che sarebbe da superare con modalità di democrazia diretta e con il ricorso alla tecnologia. La conferma della riforma aprirebbe la strada a esperimenti pericolosi per chi crede che il cuore della democrazia parlamentare sia costituito proprio dal Parlamento, eletto facendo ricorso a una legge elettorale decente, attrezzato per controllare il governo e capace di garantire efficace rappresentanza politica ai cittadini, alle loro preferenze e esigenze, ai loro interessi e ideali. Che già si parli della necessità di altri interventi, correttivi e cambiamenti è fonte di preoccupazioni aggiuntive.

Pubblicato il 6 settembre su Domani

Il taglio delle poltrone e il trilemma dei costituzionalisti. Il commento di Pasquino @formichenews

Per il prof. Gianfranco Pasquino il bicameralismo italiano deve essere riformato non perché “perfetto”, ma perché ha non pochi inconvenienti dovuti, più che ai numeri, ai compiti che i parlamentari svolgono in maniera tutt’altro che perfetta e che, a numeri ridotti, svolgeranno probabilmente peggio

“Mi si nota di più se: i) ho votato no al referendum di Renzi e adesso taglio le poltrone? [Valerio OnidaUgo de SiervoLorenza Carlassare]; ii) ho votato sì al referendum di Renzi, ma adesso voto no? [Luciano Violante, Sabino Cassese, Angelo Panebianco]; oppure, iii) faccio l’asino, naturalmente, di Buridano? [Gustavo Zagrebelski, il presidente del Comitato del No alle riforme di Renzi]”.

Sì, lo so, i referendum, anche, non soprattutto, quelli costituzionali, non “confermativi”, ma, sanamente, “oppositivi”, rimescolano le carte. Non sapevo, però, che avessero anche il dono di rimescolare le interpretazioni della Costituzione e delle conseguenze dei quesiti. Ovviamente, è legittimo scegliere fra il Sì e il No anche per non indebolire il governo oppure per farlo cadere. Starà al governo spiegare perché un referendum costituzionale, che nessuno ha trasformato in un plebiscito, non debba essere in grado di dare spallate al governo.

Non è, naturalmente, affatto detto che alla vittoria del Sì farà immediatamente seguito una nuova legge elettorale, e perché poi dovrebbe essere proporzionale? (Per favore, nessuno aggiunga “pura/o” se ci sarà una clausola d’accesso e un inopinato diritto di tribuna). Le leggi elettorali non hanno quasi nulla a che vedere con le riforme costituzionali.

La brutta legge Rosato deve essere cambiata perché, appunto, è brutta. Punto. E il bicameralismo italiano deve essere riformato non perché “perfetto”, ma perché ha non pochi inconvenienti dovuti, più che ai numeri, ai compiti che i parlamentari svolgono in maniera tutt’altro che perfetta e che, a numeri ridotti, svolgeranno probabilmente peggio.

Le riforme costituzionali non si fanno e non si approvano per aprire “brecce” nella Costituzione, come sostiene il deputato dem Stefano Ceccanti, prof. di Diritto costituzionale, il quale dopo avere motivato in aula il no del suo partito, adesso è “sparato” per il Sì. Ma, voce del/dal popolo, se non approviamo neanche questa riformetta, che è solo un inizio, finiremo per mettere una pietra tombale (sic) sulle riforme costituzionali. Lo proclamavano anche i renziani e, invece, pochi anni dopo quella sonora sconfitta nel dicembre 2016, già ci troviamo con un’altra riforma “epocale”, che colpisce il cuore della democrazia parlamentare dove pulsano la rappresentanza politica e la capacità di controllo del Parlamento sull’operato del governo. Meditate gente, meditate.

Pubblicato il 7 settembre su formiche.net

Le ragioni del NO #adomandarisponde #8settembre #Ferrara

 

Incontro pubblico

8 settembre ore 17,30
Factory Grusù
via Poledrelli, 21
Ferrara
Prenotare l'ingresso sul sito factorygrisu.it

 

Difendiamo il parlamento Difendiamo la democrazia #7settembre #CasalecchioDiReno #IoVotoNO

Comitato per il No – Casalecchio di Reno

ASSEMBLEA DI PRESENTAZIONE

Lunedì 7 Settembre ore 21.00
c/o Casa per la Pace - La Filanda
via dei Canonici Renani, 8 – CASALECCHIO DI RENO

Sarà presente per il Comitato per il No il Prof. Gianfranco Pasquino

REFERENDUM SUL TAGLIO DEI PARLAMENTARI
IL 20 e 21 SETTEMBRE VOTIAMO NO
Perché la democrazia è un bene supremo: risparmiare su di esse non è solo sbagliato, ma anche ridicolo, visto che il risparmio sarebbe dello 0,007% del bilancio statale, ovvero 1,35 euro per cittadino: un caffè all’anno.
Perché la cattiva politica ha altre cause: non il numero dei parlamentari, ma come vengono eletti: tramite leggi elettorali incostituzionali, viziate dalla logica maggioritaria che mortifica la rappresentanza della effettiva volontà politica; leggi che impediscono ai cittadini di scegliere i candidati, che finiscono per essere
nominati dalle segreterie dei partiti.
Perché vogliamo difendere la democrazia e la Costituzione: Il taglio dei
parlamentari è infatti un tassello di un disegno più complesso, che prevede una nuova legge elettorale, senza scelta dei candidati e con una elevata soglia di accesso, che impedirebbe a milioni di cittadini di essere rappresentati in Parlamento.

 

Meno parlamentari = parlamentari migliori? #6settembre Campagnolo Emilia #RE

 

Festa Provinciale di Articolo Uno di Reggio Emilia
Onda rossa
6 settembre ore 11
Campagnolo Emilia
Sala 2000 via Magnani, 1

Meno parlamentari = parlamentari migliori?

Gianfranco Pasquino
Maria Laura Mantovani
modera Enrico Tidona


Conte fa bene a tacere. Invece, che dice Draghi? @fattoquotidiano

La riduzione del numero dei parlamentari è stata approvata da maggioranze molto ampie sia per convinzione sia per opportunismo. Se verrà confermata dal referendum, dovrà essere giustamente interpretata come una vittoria dei Cinque Stelle (meglio senza balli da balconi). Se gli elettori la casseranno non sarà una sconfitta del governo giallo-rosso e neppure una delegittimazione del Parlamento in quanto tale, ma un segno di sfiducia nei parlamentari che quella riforma votarono senza torcersi il collo. Che il Presidente del Consiglio Conte non si esprima né in un modo né nell’altro è un segno di rispetto della decisione del Parlamento. La riduzione non è una riforma del governo. Anzi, in generale, le riforme costituzionali dovrebbero sempre essere ascritte al Parlamento. Quando le fa e le impone un governo ne seguono distorsioni partigiane, come per la riforma a opera della maggioranza di centro destra nel 2005 e come per il quasi plebiscitarismo di Matteo Renzi nel 2016. Conte ha, non il diritto, ma la facoltà di non impegnare nel voto referendario né se stesso né la sua maggioranza. La controprova è che se si esprimesse ne conseguirebbero critiche immediate e copiose sulla sua, ovviamente definita grave, ingerenza. Qualsiasi riforma della Costituzione riguarda tanto i legittimi rappresentanti del “popolo” quanto gli elettori i quali, grazie alla saggezza dei Costituenti che, non reputando infallibili e impeccabili i parlamentari, formularono l’articolo 138 che disciplina il referendum costituzionale. Avete un bel chiamarlo “confermativo”, aggettivo che non si trova nella Costituzione. L’esito potrà anche essere tale, ma più correttamente questo tipo di referendum meriterebbe l’aggettivo “oppositivo”. La riforma c’è. Si mobiliti e vada a votare, non c’è quorum, chi a quella riforma si oppone.

Tuttavia, Conte non può stare tranquillo. Anzi, sostengono tutti coloro che lo hanno accusato di iperpresidenzialismo e di volere inaugurare una deriva autoritaria, neppure doveva andare in vacanza. Certo, dovrebbe esprimersi un po’ su tutto, a cominciare dalla scuola e dai trasporti. Noi sappiamo che con qualche sua dichiarazione tempestiva avrebbe potuto impedire il Covid-19 nelle discoteche, a cominciare da quella che ci sta più a cuore: il Billionaire. Adesso, Conte è giustamente in declino di popolarità. Secondo Diamanti, che dovrebbe essere un po’ più raffinato nell’interpretazione, Conte è in picchiata, sceso da 65 (quota inusitata per i Presidenti del Consiglio italiani) a 60 punti di approvazione. Se non sente sul collo il fiato di Mario Draghi, giunto addirittura a 53 punti, glielo dicono i giornalisti. Quelli bravi, fra i giornalisti, aggiungono subito che oramai è quasi fatta: Conte sarà presto sostituito proprio dal Draghi. Qualcuno, specie fra gli studiosi di comunicazione, potrebbe fare notare che la popolarità di Draghi è rimbalzata, non tanto dopo il suo discorso al Meeting di Rimini (dove di discorsi di alto livello se ne sono ascoltati davvero pochi) quanto dalla eco che, in mancanza di meglio o semplicemente di altro, gli hanno dato i mass media.

All‘insegna del “farò soltanto debito buono” oppure citando un famoso proverbio di Francoforte “il debito buono caccia il debito cattivo”, SuperissimoMario si scalda dietro le quinte pronto a formare un governo? Come? Innestato sull’attuale maggioranza che dà il benservito a Conte, il più efficace punto di equilibrio fra i gialli e i rossicci (e fra l’Italia e l’Unione Europea)? Oppure dando vita nell’attuale parlamento ad un governo di unità nazionale che cozza contro tutte le, pur sbagliate, critiche del centro-destra che stigmatizza i governi “non votati dal popolo”? Comprensibilmente, Meloni si chiamerebbe subito fuori per granitica coerenza, per lucrare sulla inevitabile e giusta rendita di opposizione e per (ri)lanciare in suo non meglio precisato presidenzialismo. Nel frattempo, però, poiché il gossip domenicale non si ferma qui, è chiaro che da Mario Draghi vorremmo sapere non soltanto come investire nel Mezzogiorno, promuovere le donne, preparare un futuro migliore per i giovani (praticamente i punti deboli del consenso elettorale che il PCI sottolineava regolarmente), ma, soprattutto, come voterà al referendum costituzionale. Insomma, sarà anche bravo Draghi, ma il test, la cartina di tornasole è che lui dice sì o no, mentre il Conte tace. O tempora o mores.

Pubblicato il 1° settembre 2020 su Il Fatto Quotidiano