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Capisco il “Cencelli” ma Draghi si sarebbe dovuto imporre sui partiti @ildubbionews

Dicono che draghi sia lì per ristrutturare la politica e i partiti ma visti i sottosegretari e alcuni ministri credo che questa vecchia politica sarà un ostacolo anche per ottenere i fondi europei

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna e accademico dei Lincei, è reduce dalla sua ultima fatica letteraria Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, e dopo la scelta dei sottosegretari reputa «difficile che Draghi possa compiere una ristrutturazione dei partiti».

Professor Pasquino, la squadra di governo è al completo. La ritiene soddisfacente?

Capisco benissimo che nella scelta delle cariche debba essere usato il manuale Cencelli, che ha un senso perché attribuisce le cariche ai partiti secondo i seggi che hanno in Parlamento. È una procedura corretta e viene utilizzata in tutte le democrazie parlamentari nei governi di coalizione. Obietto tuttavia alla qualità dei prescelti: se un partito deve avere 11 sottosegretari non è detto che si debba scegliere i peggiori di quel partito, anzi.

Crede che Draghi abbia sbagliato alcune scelte?

So che Draghi non conosce abbastanza i partiti e gli uomini politici e per questo motivo mi sono augurato che interpellasse il Presidente della Repubblica, che data la sua esperienza poteva dargli buoni consigli. Ma temo che il presidente del Consiglio abbia pensato che il problema più importante fosse l’economia e su quello si è concentrato, godendo del suo prestigio e scegliendo consiglieri importanti come Francesco Giavazzi (portatore di una linea che io non condivido). Tuttavia credo che questo approccio sia sbagliato perché molti dicono che Draghi sia lì per ristrutturare la politica e i partiti ma così facendo sarà molto difficile. Visti i sottosegretari e visti alcuni ministri capirà che questa vecchia politica sarà un ostacolo anche per ottenere i fondi europei.

A proposito di fondi europei, in squadra ci sono anche personalità, come Enzo Amendola, che godono di un’autorevolezza unanimemente riconosciuta in sede comunitaria. Non basteranno loro per far quadrare il cerchio?

Non voglio fare un discorso di nomi, anche se è chiaro che Amendola è un uomo competente e capace, così come lo sono Tabacci e Della Vedova. Ma altri, come quelli scelti da Salvini e Berlusconi, rappresentano il leader del partito e non tanto il partito. Il punto fondamentale tuttavia è un altro: Draghi doveva obbligare i partiti a confrontarsi con la realtà, non con le loro esigenze. E non ha voluto farlo, o non lo sa fare.

In che modo Mattarella avrebbe potuto consigliare Draghi?

Beh, a suo tempo Mattarella divenne “molto famoso” quando respinse Paolo Savona e quindi credo che potesse dare consigli a Draghi molto più approfonditi. Certo la scelta è stata complicata: se Conte avesse impiegato tre o quattro giorni a scegliere i sottosegretari, come ha fatto Draghi, la stampa sarebbe insorta. Invece accettiamo come normali dei tempi che normali non sono.

Pensa che nella partita tecnico-politica tra Draghi e i partiti abbiano vinto quest’ultimi?

Non è una questione di vincere o perdere. C’è un elemento di inevitabilità nella presenza dei partiti nel governo. Ma se c’erano uomini o donne di partito che a Draghi non piacevano lui poteva opporsi, perché la Costituzione dice che è il presidente del Consiglio a proporre le nomine al Capo dello Stato, che a sua volta poteva opporsi. Adesso la frittata è fatta e quindi bisogna cercare di renderla il più gustosa possibile attraverso decisioni corrette. Sarebbe ora, ad esempio, che Draghi uscisse dal suo riserbo e convocasse una conferenza stampa per dire dove vuole andare e in che modo.

Uno dei pochi momenti in cui ha parlato apertamente è stato in occasione del discorso programmatico sulla fiducia. Come le è sembrato?

Era un buon discorso, sobrio, terso e con alcune indicazioni abbastanza chiare. Ora però le voglio vedere tradotte in decisioni vere e proprie perché sappiamo tutti che alcune cose debbono essere fatte ma dobbiamo sapere come. La situazione continua a essere molto grave e Draghi deve dirci che tipo di piano di ripresa presenterà alla Commissione europea e in che modo ci sta lavorando. Deve spiegare come intende rilanciare l’economia, visto che molti settori stanno morendo.

Draghi è anche tornato all’uso dei Dpcm, tanto contestati a Conte. Pensa che manchi discontinuità in questo senso?

Ho trovato sgradevole la critica di giuristi e giornalisti fatta a Conte con i Dpcm, perché per contrastare la pandemia bisogna intervenire subito e il Dpcm è uno strumento utile che può essere utilizzato anche ripetutamente. Parte dei Dpcm di Conte sono stati poi tradotti in decreti legge e non ho mai pensato che Conte potesse divenire un leader autoritario. Prendo atto del fatto che anche Draghi lo abbia capito e dobbiamo continuare a pensare che il Parlamento può comunque controllare ed esprimere le sue posizioni.

Tra l’altro i Dpcm hanno la capacità di porre fine alle tensioni tra Regioni aperturiste e rigoriste. Sono scelte che deve fare il governo perché le Regioni hanno dimostrato ampiamente la loro incapacità di trattare la pandemia.

Si spieghi meglio.

Le Regioni dovrebbero saper chiudere immediatamente le zone al loro interno dove inizia un focolaio e mantenerle chiuse. Alcune lo fanno, ma questo dovrebbe valere per tutte le Regioni. Dobbiamo però anche avere il coraggio di dire che molto dipende da noi. Siamo sicuri che tutti portino la mascherina e fanno il possibile per evitare il contagio? Oppure ci comportiamo in maniera scriteriata? Ci sono anziani che giocano a carte nei bar semichiusi, gruppi di ragazzi che festeggiano le lauree. Serve maggiore disciplina collettiva, che è il prodotto delle nostre discipline individuali.

Il ministro della Salute Roberto Speranza sembra essere rimasto uno degli ultimi baluardi del rigorismo, stretto tra i desideri di apertura delle Regioni, da un alto, e quelli di una parte del suo governo, dall’altro. Crede che Speranza sia oggi meno forte di quanto fosse nel Conte bis?

Credo che Speranza faccia del suo meglio nel momento peggiore in assoluto. Nessuno ha la ricetta giusta ma quella migliore l’abbiamo persa tempo fa e non per colpa di Speranza. Quando ci raccontiamo storie molto belle su come hanno reagito Nuova Zelanda, Taiwan e Corea del Sud dobbiamo riflettere sul fatto che hanno reagito semplicemente chiudendo tutto per un certo tempo. Si doveva chiudere tutto per tre settimane in maniera durissima e non l’abbiamo fatto.

Pubblicato il 26 febbraio 2021 su Il Dubbio

La campanella e il grande test di civiltà #scuola

L’oramai prossima riapertura delle scuole è un grande test. Contrariamente a quanto sostiene l’opposizione, Salvini ha già annunciato una mozione di sfiducia nei confronti del Ministro dell’Istruzione, il test non riguarda soltanto Lucia Azzolina. È un test nazionale, di efficienza e persino di civiltà. Sono coinvolti 8 milioni di studenti dalle Alpi alla Sicilia e i loro genitori. Sono chiamati al lavoro circa due milioni di persone fra insegnanti e personale scolastico di vario tipo. Essenziale è altresì la partecipazione di qualche centinaia di migliaia di operatori dei mezzi di trasporto. Infine, sono mobilitate numerose ditte per la produzione e l’installazione dei banchi monouso e di altri materiali. Anche se è vero che, in ultima istanza, la responsabilità tocca ai decisori politici, neppure in questo caso a rispondere di qualche (temo inevitabile) inconveniente dovrà essere solamente e, forse, neppure principalmente il Ministro. Infatti, sono le autorità regionali che hanno il potere di decidere la data dell’apertura in base al grado di preparazione delle loro strutture. Sembra, ad esempio, che Bolzano abbia già scelto la data del 7 settembre. Altri preferiscono una data successiva al 14 per giungere meglio preparati, magari consentendo riaperture differenziate a seconda del tipo di scuola. Da quanto succederà misureremo l’efficienza delle regioni e dei loro governanti. Lo faremo tenendo conto anche delle cifre, in alcune regioni basse e maneggevoli, in altre molte alte, con notevoli criticità già prima del Covid-19, specie nelle aree di grandi concentrazioni urbane. Quanto alla “civiltà”, il test chiama in causa un po’ tutti: docenti, famiglie, studenti, ma soprattutto i primi. Ricordo che abbiamo giustamente ammirato e lodato lo straordinario spirito di abnegazione del personale medico e infermieristico. Hanno lavorato lunghissime ore in condizioni difficilissime, di vita e di morte. Tutti i docenti debbono essere consapevoli che la sicurezza degli studenti dipende in larga misura da loro, dalla loro presenza nei diversi istituti, dalla loro disponibilità e sensibilità. Certamente, il Ministro e i dirigenti scolastici debbono reclutare e mettere all’opera nelle varie aree il numero di insegnanti necessario, adeguato. Però, a loro volta, gli insegnanti non debbono chiamarsi fuori dichiarando, com’è già avvenuto in alcuni casi, loro personali condizioni di fragilità che li porrebbero a rischio. Al proposito, è richiesto anche l’intervento dei sindacati che non può essere soltanto difesa degli iscritti, ma che deve assumere un punto di vista generale: il buon funzionamento della scuola. Sappiamo che altrove, persino nei Länder tedeschi, ovvero nel paese che riteniamo correttamente il più avanzato, si sono verificati problemi. Il Ministro dell’Istruzione e della Sanità debbono mettere tutti in guardia svuotando due atteggiamenti esiziali: l’allarmismo e il vittimismo. La campanella suona per tutti coloro che si comporteranno secondo le regole.

Pubblicato AGL il 30 agosto 2020

Regionali, cosa mi aspetto dai candidati. Scrive il prof. Pasquino @formichenews

Chi vuole uno Stato delle autonomie deve volere anche e (quasi) subito dimostrare che la sua autonomia la sa esercitare, per esempio, avendo già speso nella sua interezza i vecchi fondi europei, e rendendo meglio preparata, più snella, più efficace la burocrazia regionale. Il commento di Gianfranco Pasquino

Mi pare sia già cominciata in tutte le regioni che voteranno, se confermato, il 20 settembre, una articolata e approfondita riflessione sui temi della campagna elettorale al tempo del Covid-19. Gli acutissimi retroscenisti del Corriere della Sera e de Il Giornale e gli austeri (sic) commentatori de La Stampa e di Repubblica hanno smesso di annunciare la fine del governo Conte. Si sono dedicati da par loro, o mi sbaglio?, a sollecitare i Presidenti che si ricandidano e i loro sfidanti che, come minimo, delineino un progetto di regione. Par condicio: infatti, non c’è nessuna ragione per essere meno esigenti con le autorità regionali di quello che si chiede a Conte e al suo governo. D’altronde, se, finalmente, a livello nazionale, qualcuno, sarà forse proprio il presidente Conte, fra una conferenza stampa e quella successiva?, saprà tirare le somme e fare la sintesi delle proposte formulate agli Stati Generali, vedremo il progetto di rilancio del Paese per i prossimi numerosi anni.

Altruisticamente, Conte lavora per il suo successore a Palazzo Chigi – per i nomi bisogna chiedere ai retroscenisti senza accontentarsi di quello di Mario Draghi e, neppure, di Carlo Cottarelli. Il suo Progetto di Rilancio dovrebbe contemplare la chiarissima individuazione dei settori portanti, l’indicazione degli interventi, dei tempi, dei costi e dei vantaggi e anche del coordinamento con le regioni. Se, infatti, terminata la davvero penosa melina sull’accettazione dei 36/37 miliardi di Euro del Mes si deciderà di investire nelle spese sanitarie dirette e indirette, le regioni dovranno necessariamente essere coinvolte. Dovranno dire quanti fondi desiderano e come li spenderanno, magari investendo non solo in assunzioni e strutture, ma anche nel settore bio-medicale che è un’eccellenza nazionale. Ascolteremo almeno EmilianoToti e De Luca spiegare come stanno rendendo digitale e verde la loro economia? Naturalmente, finita, almeno temporaneamente, la vertenza sulle modalità di riapertura delle scuole, da tutti, uscenti e candidati, saremo prontamente informati delle criticità e dei successi nonché degli obiettivi di miglioramento.

Nella pandemia a molti, me compreso, è parso che lo Stato si sia visto riconoscere quel ruolo centrale nella mobilitazione, nella assegnazione e nella distribuzione di risorse al quale nessun mercato potrebbe mai supplire. Ai candidati alle cariche di governo regionali sembra più che lecito chiedere se vorranno usare il loro potere in chiave interventista e se, all’uopo, sanno già come riformare e rendere più dinamiche le rispettive burocrazie regionali. Non è soltanto la burocrazia “nazionale” a costituire la palla al piede di governi che già non sono vivaci, iperattivi, decisionisti. Chi vuole uno stato delle autonomie deve volere anche e (quasi) subito dimostrare che la sua autonomia la sa esercitare, per esempio, avendo già speso nella sua interezza i vecchi fondi europei, e rendendo meglio preparata, più snella, più efficace la burocrazia regionale. Poi, con gli apporti decisivi di Di Battista e Scalfarotto, di Azione di Calenda, proiettata dai sondaggi di Pagnoncelli ad un irresistibile 2,8%, di marmotte e altri graziosi animali, discuteremo di convergenze e di coalizioni e soprattutto di programmi, classico cavallo di battaglia di chi vuole posti. Faites vos jeux.

Pubblicato il 28 giugno 2020 su formiche.net

La partita elettorale in Emilia Romagna #Intervista @RadioRadicale

Intervista raccolta da Roberta Jannuzzi il 2 gennaio 2020
Durata: 7 min 41 sec

ASCOLTA

26 gennaio è la data del primo appuntamento elettorale del 2020.
In Calabria come in Emilia Romagna.
Ma è in quest’ultima regione che si gioca la partita più attesa.
Qui Matteo Salvini porta avanti la sua battaglia di carattere nazionale, la sinistra cerca di evitare una sconfitta storica, il movimento delle Sardine è comparso per la prima volta dando prova dell’esistenza di quell’Italia silenziosa alla quale, forse, si riferiva nel discorso di fine anno del presidente Mattarella.
Sette i candidati alla presidenza della regione Emilia-Romagna e 17 liste.
Contro il Governatore del Pd Stefano
 Bonaccini, Lucia Borgonzoni per il centrodestra, ma anche il candidato del M5S, Simone Benini, più quattro candidati di liste civiche, di sinistra o no-vax.
Ne parliamo con il professor Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università degli Studi di Bologna.

Una grande regione, una grande occasione #Emilia Romagna @rivistailmulino

Primum vincere deinde philosophari oppure primum philosophari deinde vincere? Se sia meglio dedicare tutte le proprie energie a conquistare una carica importante come quella di Presidente della Regione Emilia-Romagna e poi ragionare su cosa fare oppure se sia preferibile aprire un grande e approfondito dibattito sulla “filosofia” della politica, sui contenuti del riformismo, su che cosa debba e possa essere un partito del cambiamento nell’Italia sovranista? Già, perché il voto europeo del 26 maggio ha detto alto e forte, chiarissimo che in Italia i sovranisti (la Lega di Matteo Salvini e i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ai quali si aggiungono alcuni esponente di sinistra e i loro cattivi maestri) costituiscono una ampia maggioranza e che l’alternativa è debole, scompaginata, confusa. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che fare della filosofia in prossimità di elezioni dall’esito incerto è una perdita di tempo che rischia di essere decisiva. E’ facile replicare che trovare sedi, organizzare dibattiti, produrre confronti, distribuire documenti sulla cultura e sulla Weltanschauung del partito politico riformista è un modo importante anche di e per fare campagna elettorale. Tutto questo fervere (potenziale) di iniziative sarebbe anche in grado di attrarre l’attenzione di chi giustamente sente la politica politicata, centrata su persone e cariche, malamente raccontata dai commentatori, lontana  e sgradevole (ha ragione!). Bisognerebbe ovviamente anche fare circolare in tempo reale e in maniera gradevole e brillante su twitter, Facebook, Instagram, con una vasta gamma di App, quello che viene variamente prodotto nelle modalità tradizionali. Conosco l’obiezione che sostiene che la cattiva comunicazione è la conseguenza quasi inevitabile di contenuti mediocri, brutti e cattivi,  male pensati, non in grado di riflettere le condizioni di vita e i mondi vitali dei cittadini né di guardare al futuro in maniera empatica e originale. So, però, che qualche volta è possibile fare ottima comunicazione anche senza avere contenuti altrettanto buoni e che la comunicazione è di per sé un fattore politico di grande rilevanza anche autonoma.

Chi vuole semplicemente vincere può anche andare oltre quello che sto suggerendo, con una scrollata di spalle, magari senza accusarmi di elitismo (accusa di sapore populista) e, soprattutto, contro proponendo. Meglio sarebbe se la controproposta fosse argomentata con una narrazione convincente che non si compiaccia degli esiti positivi del passato, ma neppure delle vittorie elettorali in diverse città emiliano-romagnole, e non si arresti lì. Il passato recentissimo della Regione Emilia-Romagna parla di un tracollo della partecipazione elettorale nel novembre del 2014, di qualche lacrima di coccodrillo (al maschile e al femminile) e successivamente di nessuna riflessione seria sul fenomeno. Non merita la definizione di riflessione quello che è un wishful thinking di Zingaretti e dei suoi collaboratori che il PD crescerà a livello nazionale riconquistando gli astenuti. Qui si che è appropriato richiamare l’espressione vaste programme di uno dei grandi statisti europei del XX secolo, il sovranista Charles de Gaulle.  Dai dirigenti poIitici e dai militanti, che ci sono ancora, del PD è lecito aspettarsi e pretendere di conoscere in che modo gli astensionisti saranno raggiunti, persuasi e (ri)portati nell’alveo di un partito che non ha neppure ancora iniziato una qualsiasi riflessione sulle ragioni del suo declino.

A quello che fu il glorioso e pluripremiato partito riformista, nascosto sotto le spoglie del PCI e timoroso di essere preso come esempio nazionale, si chiede di cominciare a delineare proprio un partito del futuro, non di lotta e di governo, ma di elaborazione culturale concernente un sistema politico e sociale (all’economia riescono a pensarci alla grande i molti efficienti imprenditori emiliano-romagnoli) che offra opportunità in ogni momento della vita dei suoi cittadini e che premi i meriti. La buona amministrazione che, con molti sindaci e sindache, il Presidente della Regione Stefano Bonaccini può vantare, rischia di non essere sufficiente per ottenere un secondo mandato. Per questo è mia convinzione che debba essere delineato un futuro che non è la semplice prosecuzione del presente. “Filosofiamo” allora su una sinistra composita e plurale che disegni alleanze non all’insegna della protezione di posizioni acquisite, ma di rappresentanza e governo di preferenze e interessi che si sono diversificati e che tali rimarranno nel futuro prevedibile, che non si nasconda dietro liste civiche, ma rivendichi la sua politicità, che sia disposta e in grado di praticare nel suo ambito la democrazia anche nel dare accesso in maniera trasparente agli interessi di una pluralità di interlocutori, fra i quali, ovviamente, le associazioni del più vario tipo, e in Emilia-Romagna ce ne sono tantissime, che riconosca le competenze non soltanto quando rendono un servizio e coincidono con le preferenze e i pregiudizi dei dirigenti politici, ma proprio quando li mettono in questione e li sfidano senza nessun timore reverenziale.

Questa è la filosofia politica di  chi crede che l’innovazione scaturisce dal conflitto fra idee e persone (sento il dovere di aggiungere “portatrici di idee”) e che in Emilia-Romagna tutto questo è possibile a patto che idee e conflitti non vengano spazzati sotto il tappeto del conformismo al quale, ahiloro, ahitutti, molti nel PD hanno fatto largo e esiziale ricorso. Chi vince dopo avere filosofato avrà anche avuto la possibilità di capire quali delle sue proposte hanno conquistato maggiore consenso, quali sono inadeguate, quali sono da buttare e quali da perfezionare. Tutte le altre strade sono molto corte e non conducono a Roma. L’occasione, grande, è adesso, qui.

Pubblicato il 30 maggio 2019 su rivistalmulino.it

“Questa è una riforma partitocratica” #4dicembre #IoVotoNo

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Intervista raccolta da Giulio Cavalli

– Professore Pasquino, perché dice no alla riforma costituzionaleBoschi-Renzi?

Il primo punto critico è quello che riguarda la composizione del Senato e le funzioni rimanenti alle Regioni: si tolgono alle Regioni le possibilità di intervenire su una serie di materie e si dice che gli si darà rappresentanza mentre in realtà la si sta dando ai partiti poiché saranno principalmente loro a mandare in Senato i sindaci e i loro consiglieri con riferimento ai voti ottenuti. Diremmo oggi che questa è una riforma partitocratica o quantomeno la chiameremmo lottizzazione. E tutto questo molto semplicemente non funziona e in più dà origine a tutta una serie di conflitti dei quali la Corte Costituzionale si è già lamentata in passato e che non diminuiranno nel futuro. Poi c’è il fatto che ciò che sta nella riforma è tutto criticabile ma è criticabile anche tutto quello che non c’è in questa riforma.

– Cioè?

Ad esempio si parla di governabilità ma non si tocca in maniera costituzionale il governo, la sua formazione e la sua stabilità. Si affida tutto questo a una legge elettorale controversa (sulla quale è già stato accolto un ricorso alla Corte Costituzionale) e della quale si era detto che era ottima e poi ci si è dati subito per disponibili a cambiarla (secondo me a peggiorarla). Una legge elettorale che ha il suo punto di forza nel dare a chi vince le elezioni una maggioranza cospicua alla Camera dei Deputati (che ricordo sarà l’unica che dà la fiducia) e questo non va bene perché ci si affida alle aleatorietà mentre si poteva propendere per il voto di sfiducia costruttiva (che è quello che ha dato molta stabilità ai governi tedeschi).

– In questi ultimi giorni il premier ha dato giudizi abbastanza sferzanti al fronte del No…

Pesanti, direi pesanti.

– La sua opinione sul clima di questa campagna referendaria?

È naturalmente una campagna aspra nei toni perché il Presidente del Consiglio è partito con quello che io ho chiamato un “ricatto plebiscitario”: o votate le mie riforme o me ne vado. Poi ha abbassato un po’ i toni anche per l’intervento di Napolitano, che si è tardivamente accorto che il Presidente del Consiglio stava sbagliando, e ora ha rialzato i toni dopo avere visto i sondaggi e ha deciso di ricentrare tutta la campagna su di sé. Se dobbiamo discutere nel merito entriamo paure nel merito ma sia chiaro che questo si chiama plebiscito.

– Dice Renzi che chi vota no è a favore della casta.

Questa è una stupidaggine solenne. A me della casta non importa proprio nulla, io voto no per proteggere da una lato la Costituzione e dall’altro per evitare che seguano una serie di inconvenienti che non migliorano affatto il funzionamento del sistema politico ma lo peggiorano in maniera significativa.

– Renzi dice anche che il fronte del no mette insieme un’accozzaglia. Parla di brutte compagnie…

Guardi, dopo avere apprezzato l’eleganza del linguaggio del Presidente del Consiglio (che tra l’altro non è inusitata avendo lui sempre avuto gli stessi toni di questa stessa espressione), le dirò che io non guardo alla compagnia ma guardo esattamente al merito: questa riforma ha qualche possibilità di produrre un miglioramento di funzionamento del sistema politico? No. E allora se ci sono altre persone che condividono questo io non sto a guardare da dove vengono ma guardo all’obbiettivo. Sono anche loro contrari a questa riforma? Benissimo. I referendum inevitabilmente ci mettono in compagnia con altri con cui non staremmo insieme su altre cose. Io non sono in compagnia di nessuno per la formazione del prossimo governo a meno che non ci sia una proposta programmatica (e anche di capacità professionali e personali) che mi convinca.

– Dicono che questa riforma si fa ora o mai più.

Io accetto questa osservazione e dico che chi cambia questa volta, male, rischia di essere responsabile con riforme malfatte di essere causa di tutti gli inconvenienti per i prossimi trent’anni. Meglio bloccarle subito piuttosto che fare passare trent’anni tentando poi di riformarle. Abbiamo già fatto brutte riforme che poi ci sono costate anni per essere cambiate.

– Un’altra parola che si sente spesso nel dibattito è “governabilità”. Questo sembra una Paese ingovernabile, dicono.

Faccio un po’ di osservazioni sparse intorno all’argomento. Prima di tutto è curioso che tutto questo lo dica un capo di governo che è in carica da 1000 giorni, che è un periodo lunghissimo non solo per l’Italia. Secondo: il capo del governo non sa esattamente cosa vuole perché non conosce il funzionamento del Parlamento, è un neofita e quindi non sa che il suo Parlamento produce tante leggi, perfino di più di quelle che vorremmo vedere e qualche volta non di buona qualità. Dovrebbe guardare i numeri: È il Parlamento l’inciampo della possibilità di fare leggi da parte del governo? La risposta è no: ogni 100 leggi 85 sono di origine governativa. Terzo: certamente un po’ bisogna garantire stabilità all’esecutivo ma il resto appartiene a chi ha le capacità di governare e quindi le cause delle crisi di governabilità sono dovute da una lato dal meccanismo incerto e dall’altro dalle qualità nel governare; se ne hanno poco non garantiscono stabilità ovviamente. Se per Renzi la governabilità è il potere di fare quello che vuole francamente mi pare un po’ esagerato e centra poco con le democrazie liberal-costituzionali.

– Scenari apocalittici nel caso in cui vinca il no se ne sentono un po’ dappertutto.

La preoccupazione degli operatori economici e dei governanti di altri Paesi è legittima: se vince il no gli operatori economici hanno difficoltà nel prevedere cosa succederebbe e potrebbero avere qualche difficoltà nell’immaginare cosa fare dei loro soldi investiti in Italia (in realtà pochi, visto che l’Italia è da sempre un Paese inaffidabile); i governanti degli altri Paesi vorrebbero ovviamente sapere chi sarà il prossimo capo di governo, con chi andranno a trattare e chi si occuperà di ridurre il deficit. Ma queste preoccupazioni dovrebbero essere smussate dallo stesso capo del governo che dovrebbe dire “non produrrò nessuna crisi di proporzioni gravi”, “faciliterò e sarò responsabile nella transizione a un altro governo” e “lo sosterrò” visto che è capo anche del partito che ha una maggioranza cospicua. È sua responsabilità garantire la stabilità di questo Paese e magari una volta tanto potrebbe smettere di fare campagna elettorale e cominciare a occuparsi del Paese da statista.

Pubblicata su 21 novembre 2016 su fanpage.it

Un leader deve unire, non dividere

Intervista raccolta da Fabrizio De Feo

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Roma – Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna e profondo conoscitore della sinistra italiana, ha di recente pubblicato il libro «No positivo» (Epoké Edizioni) per spiegare limiti e difetti della riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi.

Professore, come commenta la Direzione del Pd? L’apertura di Renzi sull’Italicum è davvero tale?

«No, più che una apertura mi è sembrata una sfida. Voi votate per il Sì il 4 dicembre e poi vedremo, anche perché ha continuato a dire che l’Italicum è un’ottima legge».

C’è chi sostiene che Renzi non sarebbe cosi dispiaciuto di una scissione della minoranza dem.

«Vedo minoranze inquiete e traballanti. Ma se Renzi auspica la scissione fa un errore. Un leader deve tenere insieme il suo partito, ascoltare le posizioni distanti, aggregare non dividere. Un tempo si sarebbe detto cercare equilibri più avanzati».

Renzi propone a Speranza e Cuperlo di discutere le modifiche all’Italicum in un comitato interno al Pd.

«Chi ne farebbe parte? Io sarei nella lista?»

No.

«Allora non mi sembra una cosa seria».

Cosa cambierebbe dell’Italicum?

«Molto. Così com’è se non è un Porcellum è almeno un Porcellinum. Non vanno bene le candidature multiple, i capilista bloccati, la soglia del 3% che è ridicola. Spero che non tocchino il ballottaggio che è l’elemento che dà potere agli elettori».

Quale sistema adotterebbe?

«Sceglierei il sistema tedesco o francese. Oppure se non si vuole andare all’estero basta tornare al Mattarellum con un paio di ritocchi».

Quale scenario immagina in caso di scissione della sinistra dem?

«Non saprei, mi sembra uno scenario troppo futuribile. La sinistra ha innanzitutto un problema di elaborazione e di mancanza di punti programmatici forti. Deve lavorare sulla sua identità».

Ha un senso per la minoranza del Pd schierarsi per il Sì al referendum in cambio di modifiche all’Italicum?

«Assolutamente no, mi sembra uno scambio improprio che equivarrebbe a una dimostrazione di debolezza e a una mancanza di responsabilità. Non è che modificando l’Italicum puoi sanare i tanti difetti della riforma costituzionale».

Lei ha denunciato più volte i limiti della riforma. Quali sono i maggiori pericoli?

«È una riforma pasticciata in cui le funzioni si confondono e il rischio di conflitti è elevatissimo. Non è chiaro quali leggi saranno soltanto di competenza della Camera; non è chiaro quanto il Senato potrà richiamare alcune leggi; così come sono labili i confini con i poteri delle Regioni e del presidente della Repubblica. La Corte Costituzionale è già in allarme, teme una serie di ricorsi inaudita. D’altra parte per rendersi conto del problema basta leggere il nuovo articolo 70 della Costituzione che verrebbe bocciato non solo da un costituzionalista, ma anche da un professore di italiano».

Lei sta girando l’Italia spiegando le ragioni del «No».

«L’interesse è elevatissimo, e se alcuni vogliono votare no per andare contro il governo, in tanti vogliono cogliere il merito della riforma».

Lei ha denunciato una presunta censura ai suoi danni. Radio Rai ribatte di aver semplicemente scelto un format senza un rappresentante del «No» da contrapporre a Renzi.

«Io so soltanto che sono stato chiamato per confrontarmi con Renzi alle 17 e due ore dopo mi hanno richiamato per dirmi che Renzi preferiva stare da solo. Tutto qui».

Pubblicato il 12 ottobre 2016

 

Innominati Consulti

La terza Repubblica

E’ del Parlamento la responsabilità/ colpa della lunga sequenza di votazioni senza esito per l’elezione di tre giudici costituzionali? Sì, sostengono il Presidente del Senato Piero Grasso e la Presidente della Camera Laura Boldrini che deprecano e con toni severi invitano i parlamentari a rimediare prontamente. Sbagliano, entrambi. Invece di valorizzare i compiti e il ruolo delle Camere che presiedono, le colpevolizzano. Forse non disponendo di sufficienti conoscenze sul funzionamento dei partiti e delle istituzioni, Grasso e Boldrini non riescono a cogliere quelle che sono le vere cause dello stallo parlamentare. Fra non molto la Corte Costituzionale sarà probabilmente chiamata a valutare la costituzionalità di alcune clausole della nuova legge elettorale e la riforma del Senato nella sua interezza e nelle conseguenze sui rapporti fra Regioni e Senato delle autonomie e fra Senato e Camera dei deputati. Sono note le forti controversie che hanno accompagnato entrambe le riforme e sono plausibili i pericoli di rigetto e di richiesta di cambiamenti che possono derivare dalle sentenze della Corte che, è opportuno ricordarlo, con la sentenza n. 1 del gennaio 2014 ha fatto a pezzi, giustamente ancorché tardivamente, il Porcellum.

I leader dei partiti del patto del Nazareno (PD, FI e la oramai quasi inesistente Scelta Civica) hanno approfittato della grande occasione che si offre loro di eleggere tre giudici costituzionali (uno solo non poteva essere lottizzato…) candidando un ex-parlamentare e un parlamentare di lungo corso e un giurista Presidente in carica dell’Antitrust, disposti, a giudicare da molte loro esternazioni, a difendere gli esiti istituzionali e costituzionali delle riforme fatte. Non soltanto quasi nessuno dei parlamentari è stato coinvolto in queste scelte, ma i dirigenti dei tre partiti hanno fatto strame di qualsiasi opportunità di consentire ad un gruppo, il Movimento 5 Stelle, che è stato votato da un quarto degli italiani, di discutere delle candidature nell’ottica “rappresentativa”, sempre rispettata nella prima lunga fase della Repubblica, di esprimere un giudice costituzionale.

Ieri e oggi, una parte di parlamentari, ovviamente a partire da quelli delle 5 Stelle, si rifiuta di svolgere semplicemente il compito di passacarte dei leader dei partiti del Nazareno e del governo, per di più avendo capito perfettamente che l’obiettivo perseguito è “addomesticare” la Corte con tre nomine fortemente partitiche. A questo punto, sembrerebbe il caso che i Presidenti Grasso e Boldrini, invece di criticare i parlamentari, valorizzassero il ruolo del Parlamento che, da un lato, non può ridursi a ratificare le scelte fatte dai partiti e, dall’altro, deve tornare ad essere l’istituzione che controlla l’operato del governo. Nella misura del possibile che, purtroppo, si va restringendo, i giudici costituzionali dovrebbero rappresentare culture politiche, oramai evanescenti, e culture giuridiche, non rigide posizioni partitiche. Quando non è così, è giusto che i parlamentari esprimano con il voto o con l’astensione (comportamenti nei quali, naturalmente, possono confluire motivazioni diverse, in particolare, in questo caso, dissenso sulle riforme) la loro contrarietà a candidature imposte dall’alto. E’ contro queste imposizioni che i Presidenti delle Camere dovrebbero protestare vibratamente non prestandosi a fare da cinghia di trasmissione dei partiti firmatari dello scellerato patto del Nazareno.

Pubblicato il 27 novembre 2015

La giacchetta del Senato

TerzaRepubblica intervista Pasquino. Ecco come tutti i difetti della riforma verranno al pettine

La terza Repubblica

Noi di Terza Repubblica, travolti e francamente sconvolti da un’overdose di pareri giuridici sulla riforma del Senato, abbiamo deciso di fare alcune domande a un autorevole scienziato della politica.

D. Davvero per capire che riforma è quella del Senato bisogna usare strumenti giuridici?

R.Certamente, no. Quegli strumenti da azzeccagarbugli sono spesso fuorvianti, e inutili. La riforma dell’imperfetto bicameralismo italiano va collocata nel quadro politico dei rapporti fra le istituzioni: “Regioni-Parlamento-Governo-Presidente della Repubblica” e del potere degli elettori. A costoro viene tolto moltissimo potere, elettorale (rappresentanza politica c’è soltanto quando libere elezioni la producono) e politico, che viene dato alle classi politiche peggiori che il paese abbia espresso nell’ultimo ventennio, quelle dei Consigli regionali che, in un modo o nell’altro, nomineranno i Senatori. Con la Camera delle autonomie né le Regioni né i sindaci acquisteranno potere positivo. Al massimo eserciteranno un po’ di potere negativo nei confronti sia della rimanente Camera dei deputati sia del Governo. Altro che velocizzazione dei procedimenti legislativi.

D. E il Presidente della Repubblica che nominerà cinque Senatori?

R.E’ l’elemento più assurdo e ridicolo della composizione del Senato. Napolitano e Mattarella dovrebbero dirlo chiaro e forte che non ci pensano neanche per un momento a esercitare il potere di nomina.

D. Molti dicono, e ineffabili “quirinalisti” si affannano a sostenere, che non dobbiamo tirare i Presidenti per la giacchetta.

R.Il “tiro per la giacchetta” è un’attività eminentemente democratica se accompagnata da motivazioni che, in questo caso, riguardano sia quegli inutili poteri di nomina sia la perdita di poteri del Presidente derivante dalla legge elettorale. Il cosiddetto “arbitro”, secondo Mattarella, non potrà più nominare (come dice esplicitamente la Costituzione) il Presidente del Coniglio e neppure opporsi allo scioglimento del Parlamento, ovvero della Camera dei deputati, richiesto da un capo di governo premiato dai seggi dell’Italicum. Il Senato delle autonomie continuerà come se nulla fosse, tanto avrà sempre pochissimo da fare.

D.Sarebbe dunque stato meglio abolirlo tout court?

R.Oh, yes. Magari non guardando al passato né quello in Assemblea Costituente (che, pure, è opportuno conoscere nella sua interezza) né quello delle Bicamerali (neanche loro nullafacenti), ma chiedendosi per il futuro: a che cosa deve servire una seconda camera? Adesso è tardino per un limpido monocameralismo (perfetto?) che farebbe risparmiare denaro e, forse tempo, ma richiederebbe una profonda modifica dell’imperfetto Italicum. E’ un po’ patetico il Presidente del Consiglio che con la sua serafica ministra Boschi minaccia di cancellare il Senato.

D. Insomma, prof, non c’è proprio nulla di buono nella riforma del Senato?

R. Oh, no. C’è molto di buono, soprattutto è l’insieme che è promettente. Cominceranno gli inconvenienti quando le Regioni dovranno nominare i loro Senatori (la presenza eventuale, di cui si discute come se fosse equivalente all’elettività, di un apposito listino, scelto da chi?, non cambia niente). Poi, quando eventuali crisi porteranno qualche regione a elezioni anticipate e cambi di maggioranze alle quali faranno seguito tensioni per i rappresentanti da sostituire in Senato. Poi, ancora, quando esploderanno scontri fra il Senato delle autonomie e la Camera dei deputati e/o il governo. Quando qualche Senatore rivendicherà la sua libertà di voto “senza vincolo di mandato”. Sono certo che alla prova dei fatti ne vedremo delle brutte. Qui sta l’elemento positivo della riforma. E’ così malfatta e rabberciata che le sue magagne spingeranno molti a tirare la giacchetta del Presidente della Repubblica e la prossima maggioranza a procedere a modifiche profonde.

Pubblicato il 19 settembre 2015

Oltre il bicameralismo imperfetto

l'Unità

Il bicameralismo italiano, non essendo affatto “perfetto”, come troppi, persino fra gli addetti ai lavori, si ostinano a dire, deve , comunque, essere riformato. Meglio definito paritario o simmetrico, il bicameralismo può anche essere abolito del tutto. Esiste il monocameralismo in paesi non scivolati sotto il tallone dell’autoritarismo né di altri “ismi”  come la Danimarca, la Finlandia, il Portogallo, la Svezia. Altrimenti può essere differenziato in maniera risolutiva ed efficace, vale a dire, affinché se ne giustifichi la persistenza. Fermo restando che in nessun sistema politico bicamerale sono entrambe le Camere a dare (e a togliere) la fiducia, questa non può essere l’unica nota differenziante e la giustificazione di una presunta migliore governabilità sarebbe davvero meschina e insufficiente. La differenziazione che conta è quella che riguarda la competenza, congiunta o esclusiva, per materia. Se il prossimo Senato dovrà essere una camera di “riflessione”, allora bisogna che siano chiare le materie sulle quali darà il suo apporto.

La grandissima maggioranza dei parlamenti bicamerali basa la sua differenziazione sulla rappresentanza territoriale. Le due eccezioni sono costituite dal prototipo della democrazia parlamentare, la Gran Bretagna, dove la Camera dei Lord, composta da Lord ereditari o di nomina reale, ha un collegamento minimo con il territorio, e dal prototipo della democrazia presidenziale, gli Stati Uniti d’America, dove il Senato, probabilmente, il più forte ramo parlamentare esistente al mondo, ha certamente un collegamento fortissimo con il territorio, gli Stati, ma sarebbe alquanto improprio definirlo camera di rappresentanza territoriale. In Europa, la migliore e più forte rappresentanza territoriale è offerta dal Bundesrat tedesco. I suoi solo 69 componenti sono nominati dalle maggioranze di governo di ciascun Land. Vittoriosi in Baviera i democristiani nominano i loro rappresentanti al Bundesrat senza nessuna concessione ai socialdemocratici e ai verdi. Nei Länder dove vincono, i Socialdemocratici e i Verdi fanno altrettanto nominando soltanto loro rappresentanti.  Lo stesso vale per tutti gli altri Länder.

Mutatis mutandis, purché i mutamenti siano limitatissimi, questa modalità di composizione del prossimo, numericamente ridottissimo, Senato italiano, sono facilmente imitabili. Come stanno le cose, in Lombardia, saranno la Lega Nord e Forza Italia a nominare i loro rappresentanti (che potrebbero anche essere senatori uscenti, o giù usciti), mentre in Emilia-Romagna sarà il Partito Democratico a farlo, tenendo conto degli eventuali alleati al governo della Regione. Esiste, però, anche una modalità più innovativa, che garantirebbe rappresentanza territoriale, dando grande potere agli elettori e agli eletti. Una volta stabilito il numero complessivo dei prossimi Senatori, suggerirei non più dei componenti del Bundesrat, e distribuiti fra le Regioni di modo che quelle piccole ne abbiano uno soltanto e quelle grande non più di quattro/cinque, la loro elezione avverrebbe in una competizione su scala regionale, in inglese si dice at large. Vale a dire che ciascun elettore avrebbe un solo voto con il quale scegliere il suo candidato in liste regionali presentate dai partiti, ma anche da associazioni dei più vari tipi. Coloro che otterranno il più alto numero di voti individuale saranno eletti e andranno a rappresentare la loro Regione, proteggendone e promuovendone gli interessi in Italia, e anche in Europa, se a questo nuovo Senato saranno affidate le politiche europee e se l’UE riuscirà mai a diventare effettivamente l’Europa delle Regioni.

Stabilita con criteri chiari e univoci la composizione del nuovo Senato, dovrebbe risultare più semplice la differenziazione delle materie di competenza delle due camere. Comunque, se l’attuale Senato mira a giustificarsi come camera di riflessione, ne ha l’opportunità immediata. Respinga la blindatura imposta dal governo e proponga una riforma all’altezza della sfida. Hic Rhodus hic salta.

L’Unità 31 marzo 2014