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Un altro PD è possibile, ma nessuno sa cosa sia @DomaniGiornale

“Faremo un’opposizione dura, senza sconti, intransigente. Costruiremo un partito aperto, inclusivo, plurale.” Sono questi i propositi, nient’affatto originali, dei dirigenti del Partito Democratico. Alcuni di loro, poi, candidandosi alla carica di segretario del partito, aggiungono, forse soprattutto per scaramanzia e per non “bruciarsi”, che non è il momento di fare i nomi. Sbagliato. I nomi comunicano molto, a cominciare dalla biografia politica (raramente c’è anche una biografia professionale), dall’appartenenza correntizia (pluralismo di “sensibilità”) e da quanto detto e fatto nel passato. Quello che dai nomi che “scendono in campo” non è possibile sapere sono le idee, le prospettive, le visioni, non del mondo che verrà, ma del tipo di partito che ciascuno/a degli aspiranti ha in cuor suo. Il fatto è che nessuno è in grado di definire che cosa è oggi il Partito Democratico. Certamente, non è mai diventato quello che i suoi frettolosi fondatori, fra lacrime e sogni, annunciarono nel lontano 2007: il luogo dove si incontravano le migliori culture riformiste del paese, dal gramscismo al cattolicesimo democratico, dall’ambientalismo all’antifascismo. Che mancasse il socialismo e che i loro migliori interpreti fossero assenti da queste grandi contaminazioni e ibridazioni sembrò non preoccupare più di tanto. D’altronde, i successori del comunismo all’italiana avevano dichiarato inadeguate, inefficaci, in crisi, logore tutte le esperienze socialdemocratiche che avevano dato un contributo grandioso alla politica e alle società dell’Europa non solo del Nord. Però, esperienze laiche che non piacevano neanche ai cattolici, non avevano cambiato e meno che mai abolito il capitalismo (sic). Ne seguì un organismo sostanzialmente privo di una cultura politica, che non è mai soltanto una bussola per orientarsi nella folla dei partiti. Una cultura politica è lo strumento per mettere insieme una comunità di persone intorno a principi e valori non solo costituzionali, e per offrire all’elettorato la certezza o quantomeno l’indicazione affidabile del tipo di società che quel partito si impegna costruire, con chi, ad esempio, con le altre democrazie europee, con quale visione di giustizia sociale. Chi, se non un partito democratico, può assumersi questo nobile obiettivo politico? Stati generali, primarie delle idee, agorà e altre modalità di incontro (no, elaborazione non posso proprio scriverlo) non hanno mai preso di petto la necessità di formulare, certo in un mondo che cambia, una cultura politica progressista. Il professore suggerirebbe, da un lato, che esistono molti libri da leggere e, dall’altro, molte esperienze da studiare. Cinque anni di opposizione offrono il tempo adeguato per studiare. Lo potrebbero, anzi, dovrebbero fare, se ne hanno le capacità, i (non)candidati e le (non)candidate alla segreteria del PD. Se non ora, quando?

Pubblicato il 29 settembre 2022 su Domani

Da Borgo Panigale a Stoccolma (e ritorno) #biografia #Adriana Lodi

Introduzione a:

Adriana Lodi, Laura Branca, Raccontami una favola vera. Adriana Lodi: biografia di una politica, Imola, Bacchilega Editore, 2021, pp. 11-15

Il riformismo viaggia nel tempo e nello spazio sulle gambe degli uomini e delle donne. Il riformismo può essere l’impegno di una vita. Certamente cambia la vita degli uomini e delle donne, in meglio. Adriana Lodi racconta molto sobriamente (ma con qualche reticenza) la sua vita in questa autobiografia, scritta con la preziosa collaborazione di Laura Branca, dando non solo la precedenza, ma la supremazia a quanto ha fatto e a come lo ha fatto cercando per l’appunto di introdurre cambiamenti in un ampio arco di politiche sociali in Italia. Non è una favola, nel senso di avvenimenti immaginari e fantastici, ma sono corposi tasselli di fenomeni reali. Di volta in volta il racconto riguarda e si sofferma su innovazioni importanti che molti pensavano irrealistiche e molti ostacolavano, ma che Adriana perseguiva con ostinazione e convinzione fine a conquistare il sostegno necessario. Temprata nelle circostanze difficili del fascismo e di un contesto caratterizzato da poca disponibilità di mezzi, ma grazie ad un famiglia che la appoggia dalla quale trae affetto e approvazione, l’adolescente Adriana sentì quasi da subito la necessità dell’impegno a migliorare le sue condizioni di vita insieme a coloro che le condividevano. Lo fa perché animata, senza rancori e invidie, senza motivazioni di rivalsa, dal desiderio di trovare rimedi a situazioni di ingiustizia sociale. È un’ingiustizia che colpisce i lavoratori subalterni, i bambini, le donne (ma Adriana non è sicuramente una protofemminista e l’idea della separatezza fra uomini e donne le è del tutto estranea), gli anziani. Lo ha fatto perseguendo, uso un termine appropriato, ma che so essere anacronistico, la pratica dell’obiettivo.

Di volta in volta l’obiettivo da perseguire e, quel che più conta, conseguire scaturiva dalle condizioni reali di lavoro e di vita sperimentate da Adriana e dalle molte altre persone con cui si rapportava, lei era una di loro, nelle varie attività. Lì sentiva, imparava, tentava di trovare le soluzione. Da operaia consapevole a sindacalista “di base” il passo fu relativamente facile. Con il sindacato, grazie alla sua capacità di lavoro, al suo impegno, alle sue doti personali quasi naturalmente iniziò il suo cursus honorum. Immagino che leggendo questa espressione Adriana abbia un moto di leggera insofferenza e allora aggiungo subito convintamente che non v’è traccia nelle sue memorie e in quello che qui rivela di nessuna ambizione personale di puntare ad una carriera di qualsiasi tipo. In effetti, successe ad Adriana e probabilmente a molti altri, uomini più che donne, che, grazie allo stretto legame (forse “cinghia di trasmissione”, ma spesso la “trasmissione” funzionava da entrambi i lati) fra sindacato e partito, i sindacalisti considerati più bravi venissero reclutati dal partito, in cariche interne, ma anche facendoli eleggere nelle amministrazioni comunali e provinciali. In quei luoghi portavano la loro competenza acquisita, le loro esperienze, la loro voglia di fare. Conosciamo i casi di successo, Adriana è uno dei migliori, ma sappiamo poco di quelli/e che mostrarono i loro limiti e che si persero per strada. Infatti, il partito, molto più che il sindacato, sapeva svolgere un’opera di reclutamento e di selezione, consapevole di quanto fosse in gioco che dipendeva proprio dagli uomini e dalle donne alle quali offriva opportunità che dovevano costantemente dimostrare di sapersi meritare.

   Il partito era il Partito Comunista Italiano. Adriana vi si iscrisse giovanissima neanche quindicenne: “nel cortile in cui abitavo tutte le famiglie erano iscritte al PCI”. Peraltro, in quegli anni i confini fra il sindacato, la CGIL e il Partito comunista erano, soprattutto, in alcune regioni e città italiane, molto permeabili. L’Emilia-Romagna, ma ancor più Bologna, che stava diventando la vetrina del comunismo italiano, erano i luoghi dove i rapporti sindacato/partito risultavano più stretti e benefici. Da allora, i cambiamenti sono stati tali che Adriana si limita a farci sapere che nel 2013 non ha rinnovato la tessera del partito successore perché non si è più “sentita riconosciuta nel partito”. Non posso trattenermi dall’affermare che nel non troppo degno successore del PCI di persone come Adriana non se ne trovano molte e che il cursus honorum dei dirigenti democratici non è neppure minimamente comparabile con quello dei dirigenti e dei parlamentari del PCI.

  Nel 1960 l’esperienza maturata e le attività svolte da Adriana la resero visibile e molto apprezzata tanto che fu candidata al Consiglio comunale e le fu affidato l’assessorato all’Anagrafe nella giunta del popolarissimo sindaco Dozza e, in seguito, ai servizi sociali. Per approfondire queste tematiche Lavorando alla fondazione degli asili nido Adriana fu inviata ad una Conferenza internazionale a Copenaghen. Ne approfittò, grazie ad un cugino per andare a Stoccolma (di qui il titolo, non del tutto scherzoso, della mia prefazione) a vedere come funzionavano gli asili nido. In verità, i comunisti italiani avevano sempre snobbato le esperienze socialdemocratiche del Nord. Non potevano ovviamente negare che in quei paesi ci fossero molte cose che funzionavano benissimo, che consentivano a uomini e donne di avere ottime condizioni di lavoro e un vita resa più facile da un’efficiente e ampia offerta di servizi: dalla culla alla tomba. Ma, insomma, sostenevano i comunisti italiani, quelle politiche socialdemocratiche non miravano a cambiare il capitalismo, a fuoruscirne. Al contrario, lo rafforzavano, lo rendevano più solido e efficace. Era, dunque, giusto che il PCI cercasse in autonomia una terza via, fra la socialdemocrazia e il comunismo sovietico, del quale si parlava il meno possibile e rispetto alla cui natura e struttura in privato i dirigenti del PCI manifestavano non poche preoccupazioni. Quella terza via, se c’era, non condusse da nessuna parte.

Ad Adriana le non proprio sottili, spesso pesanti dispute paraideologiche non interessavano affatto. Il suo forte era un altro, schiettamente e serenamente riformista: individuato un problema che complicava la vita delle donne, dei bambini, delle famiglie, degli anziani, di coloro che avendo lavorato a lungo in condizioni difficili si meritavano di vivere gli ultimi anni con una pensione dignitosa, era (continua a essere) imperativo trovare, non una qualsiasi soluzione, ma quella più adeguata. Parafrasando Che Guevara (nel testo è riportato uno scambio di lettere fra Adriana, nominata fra i rappresentanti italiani che tenevano i rapporti fra Italia-Cuba, e Fidel Castro): “il dovere di qualsiasi riformista [rivoluzionario] è fare le riforme [fare la rivoluzione]”. Come assessore e come parlamentare Adriana ha adempiuto pienamente al suo dovere.

Giunta per la prima volta alla Camera dei deputati nel 1969 subentrando a Luciano Lama che aveva dovuto lasciare il seggio per l’incompatibilità stabilita dai sindacati con le cariche nelle loro organizzazioni, l’on. Lodi è stata rieletta cinque volte terminando la sua esperienza nel 1992. Probabilmente, non si accorse mai di essere entrata a far parte di quella che è oggi impropriamente e inopportunamente definita Casta! In verità, il PCI aveva la sua regola dei due mandati. Farne solo uno significava che ci si era dimostrati inadeguati, ma farne tre significava che il giudizio dei dirigenti del gruppo parlamentare e, in ultima e decisiva istanza, quello decisivo degli organismi del Partito era più che positivo. Lascio ai lettori valutare che significato abbia essere eletti e ri-eletti per cinque volte! Forse, ma Adriana non lo scrive e non lo direbbe mai, è il riconoscimento che le proprie competenze sono ritenute non surrogabili, ovvero che non ci sono altre plausibili candidature in grado di svolgere in maniera altrettanto efficace il compito di elaborare le politiche sociali e di contrastare, emendare, migliorare le politiche del governo. Con la mannaia burocratica dei due mandati e quindi la sua esclusione dal Parlamento già alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, non sarebbe stato soltanto il PCI a rimetterci, ma anche il Parlamento italiano, privato di una deputata con molte più conoscenze specifiche e specialistiche e, naturalmente, ancor più, gli elettori, con i quali Adriana manteneva rapporti intensi e frequenti. Avrebbero perso una rappresentante brava, esperta, disponibile che davvero si curava di loro, delle loro aspettative, dei loro problemi. 

In più di un passaggio questo libro di memorie suscita una legittima e nient’affatto deplorevole nostalgia di molte cose dei tempi passati, di quella che impropriamente viene definita Prima Repubblica. Non di tutte, e molte le abbiamo già variamente criticate. Giustificata è in special modo la nostalgia non dei tempi passati che non torneranno, ma dei tempi che verranno, soltanto se li sapremo costruire. L’autobiografia di Adriana Lodi non pretende affatto di insegnarci che cosa fare e come, quali comportamenti tenere e in che modo tradurli in pratica. Ma, seppur in tono dimesso, gli insegnamenti sono molti. La politica si impara facendola. L’impegno politico serve a migliorare la vita degli altri/e, ma offre anche a ciascuno di noi molte opportunità e molte gratificazioni. Alcune attività, scelte, compiti sono inevitabilmente individuali e personali, ma, oggi forse più che ieri, sentiamo che è con la condivisione dei compiti e dei rischi che è possibile migliorare. Per concludere, vorrei, anche da parte di Adriana, mandare a dire due cose a John Donne (1572-1631), il grande poeta inglese in questi tempi duri per la sua frase “No man is an island”. Primo, “no woman is an island” e certamente Adriana, non femminista, ma sempre al lavoro per conseguire la parità donne-uomini, non ha mai pensato di essere isolata. Secondo, quello che conta è proprio sapere connettere quelle isole, quegli uomini e quelle donne in un’impresa condivisibile e condivisa. Alla quale vale la pena dedicare una vita.

Bologna, 4 ottobre 2020

Il Pd di Letta e una sinistra federazione. Ricordi e riflessioni di Pasquino @formichenews

Mentre Letta festeggia il suo Pd che diventa primo partito nei sondaggi, risulta ancora più evidente che una coalizione effettivamente inclusiva è indispensabile. Magari Conte bloccherà l’emorragia delle 5 Stelle, ma non sarà sufficiente allearsi con il Pd a superare la non-Federazione del Centro-Destra saldamente intorno al 45 per cento

Mio nonno sostiene di avere già ascoltato e letto qualche centinaia di dichiarazioni simili a quelle del Ministro Orlando: “Il Pd, sulla base di un asse chiaro, deve lavorare a un modello Unione, per mettere insieme tutte le forze possibili che si trovano nel centrosinistra, senza escludere nessuno”. La parola Unione gli evoca la più infausta delle esperienze, quello del pasticciaccio brutto del 2006. Allora, non soltanto Prodi non seppe sfruttare tutto l’abbrivio offertogli dalle primarie, ma l’Unione fu un patchwork davvero mal riuscito, raffazzonatissimo.

Senza tornare al Fronte Popolare del 1948 che mio nonno ricorda non proprio con entusiasmo, sarebbe forse preferibile guardare all’Ulivo, quello sì fu un tentativo intelligente di mettere insieme tutte le non ancora logore e logorate sparse membra della sinistra e del riformismo.

No, mio nonno non vuole proprio parlare della fondazione del Partito Democratico anche se qualcosa da imparare da quei molti permanenti errori ci sarebbe. Sostiene anche che dall’Ulivo si possono trarre due lezioni non solo importanti, ma decisive. La prima è che un buon contributo alla formazione di quello schieramento venne dalla legge elettorale Mattarella. Nei collegi uninominali consentire la presentazione di più di un candidato sarebbe stato un suicidio, lo capirono persino i democristiani memori della batosta del 1994. Però, nessuno dimentichi mai i guasti della desistenza con l’inaffidabile Bertinotti che pose le basi per la caduta del primo governo Prodi.

La seconda lezione è che, con buona pace di non poche vestali uliviste irriflessive, dopo la vittoria elettorale, il capo dello schieramento pensò di dovere soltanto governare senza mai innaffiare politicamente l’Ulivo (forse era consapevole della sua inadeguatezza, ma allora avrebbe dovuto subito cercare un suo uomo/donna di fiducia). Adesso, mentre Letta festeggia il suo PD che diventa primo partito nei sondaggi grazie alla meritata retrocessione della Lega (Fatima ha smesso tempo fa con i miracoli), risulta ancora più evidente che il “campo largo”, il “perimetro ampio”, una coalizione effettivamente inclusiva è indispensabile poiché con il 20 per cento virgola non si va da nessuna parte, meno che mai a Palazzo Chigi. Magari Conte bloccherà l’emorragia delle 5 Stelle, ma non sarà sufficiente alleato con il PD a superare la non-Federazione del Centro-Destra saldamente intorno al 45 per cento.

Mio nonno non vorrebbe sentirsi raccontare la favola dei programmi. Non ha mantenuto un buon ricordo della Fabbrica dell’Unione e del suo inutile volumone di 283 pagine. Continua a credere, sfogliando qualche libro di scienza politica, che la politica si fa organizzandosi sul territorio e che i meccanismi elettorali sono dispensatori di opportunità politiche. Sa che il territorio in seguito alla riduzione del numero dei parlamentari è diventato più complicato, ma anche più disponibile a chi riuscisse a conoscerlo meglio. Ė assolutamente convinto che qualsiasi “federazione” Cinque Stelle-Partito democratico non porterebbe nessun valore aggiunto se operasse in una situazione elettorale caratterizzata da un sistema proporzionale (proprio al contrario, come dimostrò il Fronte Popolare). Continua a guardare alla Francia dove il doppio turno, senza bisogno di nessun furfantino premio di maggioranza, diede un suo formidabile contributo alle vittorie della gauche plurielle non solo con Mitterrand, ma anche con Jospin nel 1997.

E, mi chiede, ci piaccia o no Macron, il suo En marche non è forse stato un importante movimento di aggregazione di forze del cambiamento? Annuisco, ma non elaboro. Silenziosamente, prendo atto che l’anima è impalpabile e il cacciavite bisogna volerlo e saperlo usare anche riformando per necessità e con intelligenza la legge elettorale –che nei comuni, non dovremmo dimenticarlo mai, è una variante del doppio turno. All’inclusività ci penseranno gli elettori quando vedranno l’offerta dei partiti (di centro, trattino sì e no, sinistra).

Pubblicato il 13 giugno 2021 su formiche.net

Tutti riformisti #parole @Mondoperaio #Aprile2021

Le riforme fanno il riformismo e il riformismo fa le riforme. Nessuno più contrappone il riformismo alla rivoluzione. Semmai, oggi, il contrasto sta fra coloro che ritengono che il termine riformismo possa legittimamente essere applicato alle attività e alle scelte di coloro che cambiano l’esistente per andare oltre e coloro che ugualmente cambiano l’esistente nel tentativo più o meno esplicito di tornare alla fase precedente, di riportare indietro le lancette dell’orologio. Qualsiasi restaurazione richiede, non importa con quali motivazioni, di fare cambiamenti. Perché quei cambiamenti, chiedono i restauratori facendo l’omaggio del vizio alla virtù (sic!), non dovrebbero meritare la definizione di riforme? Ma, questa è, invece, la mia personale domanda, non sarebbe preferibile utilizzare il termine contro-riformismo per definire i cambiamenti che eliminano e distruggono le riforme fatte?  Quello che sembra giustamente preoccupare i riformisti è la necessità di definire con precisione il contenuto e la qualità delle riforme rispetto ai “semplici” cambiamenti dei più vari generi e tipi. Si potrebbe sostenere che cambiamento è qualsiasi movimento dallo status quo, dunque, anche il ritorno alla situazione precedente. Poiché, però, il termine contro-riformismo esiste, credo se ne debba fare un uso accorto. Il problema mi pare piuttosto quello di precisare quali cambiamenti meritino la definizione di riforme e quali insiemi/pacchetti di riforme possano essere caratterizzate come riformismo. Qui, un cenno alla rivoluzione è opportuno, vale a dire, la sottolineatura che si ha rivoluzione quando un intero assetto politico, sociale, economico viene capovolto. Poi, nella versione che Trotskij voleva attuare, la rivoluzione può tentare di diventare/essere permanente costruendosi sui cambiamenti già prodotti e perseguendone altri. La rivoluzione potrebbe anche venire periodicamente rilanciata come fece Mao Tse-tung dagli anni cinquanta agli anni settanta del XX secolo. Tuttavia, il punto discriminante rimane: la rivoluzione non si accontenta mai di alcuni cambiamenti per quanto importanti, ma mira alla distruzione dell’insieme di rapporti politici, sociali, economici esistenti per costruirne di nuovi, dirompenti a cominciare dal vertice, dai detentori del potere politico. Incidentalmente, sappiamo che spesso il riformismo “realizzato” è stato accusato proprio di non avere cambiato i rapporti politici. Lascio qui il discorso, che mi pare antico e obsoleto, sulla rivoluzione (ma mi permetto di rinviare alla voce Rivoluzione che pubblicai nel Dizionario di Politica, UTET, nel 1976 e che, imperterrito, ho mantenuto anche nella più recente edizione del 2016).

Ritorno da dove ho preso le mosse. Riformulo in chiave problematica: a quali condizioni riforme singole sparse nel tempo danno sostanza e vita al riformismo? Usando il lessico contemporaneo, la condizione dirimente è che esista una cabina di regia in grado di indirizzare e orientare ciascuna di quelle singole riforme verso un obiettivo predefinito sul quale raccogliere condivisioni. Quell’obiettivo non è mai una Minerva che scaturisce nella sua interezza dalla testa di Giove. Proprio per questo ritengo che sia necessario distinguere fra riforme singole, pure importantissime, e riformismo. Qui cito per esteso Bobbio secondo il quale, il riformismo politico è una “azione o insieme di azioni prolungatesi nel tempo, indirizzate al cambiamento in base a progetti a lunga o breve scadenza (in base cioè a un programma massimo o a un programma minimo)”. Di “progetto” parlerò oltre evitando qualsiasi distinzione fra minimo e massimo –anche perché il minimo può diventare, se non massimo, almeno moltissimo. Qui riparto dalle riforme il cui elenco Bobbio auspica e fa, ma con riferimenti soltanto al contesto italiano e a quelle, che condivido, del centro-sinistra (al quale, personalmente, attribuisco, almeno per quel che riguarda le intenzioni e le ambizioni dei socialisti di allora, la qualifica di “progetto”). In seguito, riforma singola fu certamente l’istituzione del Sistema sanitario nazionale con legge approvata nel dicembre 1978: riforma di notevole qualità. Tuttavia, esiterei molto, e alla fine mi esprimerei in maniera negativa, qualora si volesse definire riformista tutta l’esperienza del governo di solidarietà nazionale (1976-1978). Il taglio della scala mobile, 1984-85, fu certamente una riforma importante, ma il pentapartito non è mai stato definito da nessuno una coalizione riformista. Forse, a proposito di qualche riforma singola che segue altre riforme singole, gli americani parlerebbero di riformismo piecemeal, che tradurrò, anche per l’assonanza, con spicciolo, ma, per l’appunto, lo terrei distinto da quello che vorrei definire progetto riformista. Mi sento rafforzato in questa opinione/valutazione anche dall’Affordable Care Act, l’unica grande riforma del Presidente Obama, approvata nel marzo 2010, certamente una perla, unica e non facente parte di una “collana” riformista.

Per continuare nella metafora, le collane riformista sono inevitabilmente poco numerose nella storia dei sistemi politici democratici. Non esiste nessun riformismo nei regimi non-democratici. Pure in assenza di analisi comparate dei riformismi realizzati, credo che sia accettabile fare riferimento al New Deal di Franklin Delano Roosevelt, al quinquennio di governo del laburista Clement Attlee (1945-1950), alle esperienze socialdemocratiche scandinave dagli anni Trenta agli anni Sessanta del XX secolo, brillantemente analizzate da G. Esping Andersen (Politics Against Markets. The Socialdemocratic Road to Power, Princeton, Princeton University Press, 1985) e, si parva licet, al centro-sinistra italiano 1962-1970 (la datazione è tuttora controversa). Aggiungo il programma di riforme del Presidente Lyndon B. Johnson (1964-1968) noto come Great Society. Richiamo l’attenzione sulla contrapposizione fatta da Esping-Andersen della politica ai mercati. Servirà ad una migliore valutazione del ruolo dello Stato nel riformismo socialista. Evidenzio anche la del tutto consapevole intenzione di Johnson di ampliare gli spazi di liberà della società USA con le leggi sui diritti civili e diritti elettorali. Né le une, certamente socialiste, né le altre, certamente liberatrici, furono esempi di “riforme dal basso” che Bobbio sembrerebbe volere privilegiare come esemplari della sua concezione di riformismo che allarga gli “spazi di libertà”. Ci tornerò.  

   Straordinariamente diverse per tempo, luogo e protagonisti, queste esperienze presentano un importante elemento comune: sono il prodotto di un progetto. Qui ritengo appropriato evidenziare gli elementi comuni ai riformismi realizzati, ma altrove sono andato alla ricerca delle diversità: Varianti del riformismo (Bologna, Materiali di ricerca dell’Istituto Cattaneo, 1985). Il pensiero riformista, che non è mai necessariamente del tutto elaborato fin dall’inizio, ha preceduto e informato l’azione riformista. In parte è anche stato trasformato da quella azione e dalle reazioni. Mi sono spesso compiaciuto nell’affermare che il tratto fondamentale del riformista e, quindi, per derivazione, del riformismo, è la volontà/capacità di riformare le riforme. Potrei ricondurre questa affermazione e darle nobiltà facendo riferimento a quello che Karl Popper considera l’irrinunciabile criterio scientifico: la falsificazione delle teorie. Il riformista apprende dall’attuazione delle sue riforme tanto quello che funziona quanto quello che non funziona e traduce il suo apprendimento nella logica e conseguente riforma di quello che non ha prodotto i risultati attesi e voluti. Bobbio sembra suggerire come prospettiva di ricerca l’individuazione di progetti riformatori che non hanno prodotto riforme. Rimango aperto a suggerimenti in tal senso e a esempi. Non me né venuto in mente nessuno.

   Al contrario di quanto sostenuto dal Presidente Ronald Reagan, a suo tempo (1980-1988) controriformista di notevole successo, il governo non è il problema, ma, a determinate condizioni, è abitualmente proprio il produttore delle soluzioni riformiste. In una certa misura, si apre qui il dibattito fra coloro che ritengono che il riformismo emerga da una società vivace e spumeggiante, incline alla sperimentazione, nella quale cambiano i costumi, le abitudini, gli obiettivi, e un, per lo più relativamente ristretto, gruppo di uomini e donne che hanno conquistato il potere politico e che lanciano il (loro) progetto riformista come azione di governo. Gli esempi di riformismi realizzati ai quali ho fatto riferimento in precedenza indicano molto chiaramente da che parte sto. Il riformismo è top down: offre proposte e soluzioni dal vertice del sistema politico. Naturalmente, non è pregiudizialmente chiuso e affatto ostile a quanto possa procedere bottom up. Bobbio vede una sequenza fatta da pluralismo, da conflitti fra gruppi e associazioni, fra idee e proposte, che si conclude con una sintesi che produce “decisioni selettive vincolanti”. Da chi se non dalla politica con l’incontro-scontro dei rappresentanti variamente sostenuti dal consenso elettorale e dei governanti che godono la fiducia della maggioranza di quei rappresentanti possiamo e dobbiamo aspettarci quella sintesi e le decisioni corrispondenti?  

   La buona politica riformista si esprime nell’accoglimento e nella selezione di quanto scaturito dai conflitti pluralisti (non dagli accordi corporativi), ma quei conflitti saranno tanto più “riformisti” quanto più incontreranno governanti che hanno già elaborato in proprio un loro insieme di idee che compongono a grande linee un progetto riformista. Non conosco esempi storici di società per quanto inquiete, dinamiche e diversificate che si siano rivelate capaci di lanciare, senza l’apporto di settori importanti del ceto politico e intellettuale, un’onda lunga caratterizzabile come riformismo. Al contrario, quando, peraltro raramente, quelle società hanno fatto la loro comparsa, se non esisteva una politica all’altezza, l’esito è stato molto diverso e lontano dal riformismo: ingovernabilità. Credo che si debba respingere fermamente la contrapposizione troppo spesso presentata senza conferme probanti fra società buona e Stato cattivo.

   Ancora con riferimento agli esempi di cui sopra sono convinto che sia assolutamente indispensabile aggiungere che quegli uomini e quelle donne portatrici del progetto riformista sono accomunati dalla stessa appartenenza partitica. Non c’è mai stato riformismo in assenza di robuste organizzazioni partitiche. Anche se nel caso di FDR è evidente che il potere presidenziale svolse un ruolo importantissimo, alla sua base e come suo strumento stava un Partito Democratico che diede vita e sostanza ad una coalizione politico-elettorale in grado di ottenere vittorie elettorali ripetute nel tempo fino al 1968. In un certo senso, la Great Society è stata un vero e proprio canto dell’ultimo cigno democratico (lo rileva e analizza con acume e precisione John R. Petrocik, Party Coalitions: Re-alignments and the Decline of the New Deal Party System, Chicago, University of Chicago Press, 1981)  

Da allora, gli USA non hanno più conosciuto riformismo come progetto anche se è possibile individuare singole riforme, in particolare durante i due mandati presidenziali di Bill Clinton (1992-2000). Il riferimento a quegli anni consente, anzi, invita a prendere in seria considerazione quella che in tempi recenti si è senza dubbio imposta come la più importante teorizzazione e ricerca di neo-riformismo: la Terza Via. Nel mezzo del cammin della Presidenza Clinton nasce in Inghilterra la ricerca di una Terza via fra il classico capitalismo e il vecchio laburismo. Sul piano intellettuale e culturale il suo artefice è il prestigioso sociologo politico Anthony Giddens, oggi Lord laburista, autore di alcuni influenti libri: Oltre la destra e la sinistra, Bologna, il Mulino, 1997; The Third Way, Cambridge, Polity Press, 1998; e The Third Way and Its Critics, Cambridge, Polity Press, 2000. Sul piano politico, i protagonisti sono Tony Blair e Gordon Brown, rispettivamente dal 1997 al 2007 Primo ministro e Ministro dell’Economia, poi, Brown anche Primo ministro dal 2007 al 2010 (ma la Terza Via s’era già smarrita).

   Anche le “terze vie” formulate prima di Giddens si erano presentate come strategie riformiste. Vi fu una mitica terza via che intendeva collocarsi fra il comunismo stalinista e il riformismo socialdemocratico. Qualcuno ritenne di doverla cercare fra il capitalismo e il comunismo. Sono, invece, molto riluttante a pensare che la terza via si situasse fra il liberalismo e il socialismo e che potesse essere definita liberal-socialismo. Peraltro, sono consapevole che il dibattitto italiano, anche per merito/responsabilità di Bobbio contiene un’accezione/accentuazione liberal-socialista del riformismo. Fuori d’Italia il riferimento al liberal-socialismo è assente sarà anche perché sia in Germania sia in Gran Bretagna esiste un Partito Liberale, nel primo paese spesso al governo anche se poco riformista, nel secondo, anche se effettivamente riformista non abbastanza spesso politicamente rilevante.

Non è questo il luogo per rincorrere le terze vie tentate in altre parti del mondo, Italia compressa con la variante di poca durata e scarsa incisività detta Ulivo. Certo è che Giddens ne vedeva e auspicava le potenzialità di espansione/estensione a livello globale tanto contro il neo-liberalismo quanto contro il radicalismo (di sinistra). Per rendere breve una storia alquanto lunga, come dicono gli inglesi, l’unico dato certo è che, finita l’epoca della Terza Via, molto dibattuta anche se in alcuni luoghi neppure tentata, la sinistra, i suoi partiti, le sue organizzazioni, la sua capacità di elaborare idee e di prendere voti appaiono enormemente indebolite. Con riferimento al Partito Democratico USA, ai socialdemocratici, svedesi e tedeschi, e ai laburisti lo documenta criticamente in maniera comparata con qualche punte di nostalgia per un passato sostanzialmente irrecuperabile Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties From Socialism to Neoliberalism, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 2018.

Pur con tutte le critiche che, sia nella influente versione formulata da Giddens sia nelle peraltro non molte varianti nazionali, la Terza Via si è meritatamente attirate, è innegabile che abbia costituito un progetto riformista anche secondo i criteri ai quali ho fatto cenno in precedenza. Vale a dire che è stata formulata con l’apporto di intellettuali, acquisita da uomini politici con il loro partito giunto al vertice del sistema politico quindi in grado di utilizzare il potere di governo per attuare la visione e le politiche pubbliche riformiste. Questo è il momento in cui diventa indispensabile riflettere su entrambe: visione e politiche. Che cosa è una visione riformista e come è possibile stabilire quali politiche pubbliche sono effettivamente riformiste? 

Del tutto consapevole della inevitabile problematicità di qualsiasi definizione della visione riformista sostengo che essa debba avere come criterio ispiratore l’allargamento, concordo con Bobbio, degli spazi di libertà. Mi fa anche molto piacere che il titolo dell’Avanti!, attribuito a Pietro Nenni, il 6 dicembre 1963 all’indomani della formazione del primo governo di centro-sinistra fosse: “Da oggi siamo tutti più liberi”. Dissento da Bobbio quando sembra sostenere che per allargare gli spazi di libertà è necessario limitare e restringere lo spazio del potere politico. Non dovremmo ragionare in termini di spazio per cui quello che si “concede” ai cittadini lo si toglie allo Stato e viceversa. Soprattutto, non dovremmo in nessun modo pensare che liberalismo sia Stato minimo. Certamente, non era questa la concezione di quel grande liberale che fu John Maynard Keynes. Chi cerca, in quanto rifomista, di utilizzare I’intervento dello Stato, per esempio, al fine di creare posti di lavoro, di accrescere l’istruzione dei cittadini, di costruire un sistema sanitario nazionale, non sta riducendo la libertà di nessuno, non sta infrangendo nessun principio liberale.

   Trovo gravemente monca qualsiasi concezione del liberalismo che lo veda unicamente come strumento per dare spazio al mercato, che, comunque, oramai lo sanno tutti, è una costruzione sociale bisognosa di regole e di regolamentazione, e al laissez-faire della “sregolamentazione” (togliere regole non è necessariamente riformismo). Lo stato liberale è quello della separazione dei poteri e della loro autonomia relativa, dei freni e dei contrappesi, della responsabilizzazione (solo in parte questi elementi sono centrali nella riflessione di Rawls, Liberalismo politico. Nuova edizione ampliata, Torino, Einaudi, 2012). Il liberalismo correttamente inteso non ha nessuna opposizione di principio a politiche riformiste approvate secondo le regole costituzionali. Anzi, Sartori ha rigorosamente sostenuto che il liberalismo contemporaneo è costituzionalismo e Bobbio quasi si vantava della sua concezione della democrazia procedurale. Tutto questo, però, non serve ad avvicinarsi ad un riformismo che vorremmo socialista. Bobbio conclude che la stella polare del suo socialismo è la giustizia sociale. In materia, avrebbe potuto, forse dovuto, citare e confrontarsi John Rawls (Una teoria della giustizia, edizione americana 1971, italiana Feltrinelli, 1986), meglio se non collegando troppo strettamente la giustizia sociale all’eguaglianza. Vanno individuati e perseguiti tutti gli obiettivi che migliorino le condizioni di vita di coloro che sono più svantaggiati. La chiave di volta del riformismo socialdemocratico è stata la ricerca e nella misura del possibile l’attuazione, tuttora, della eguaglianza di opportunità. Qui sta la differenza profonda con la visione espressa da Rawls poiché il grande filosofo politico americano affida la sua giustizia sociale al conseguimento di punti di approdo fra una molteplicità di gruppi sociali, mentre da parte socialdemocratica classica vi è una esplicita e convinta attribuzione, che condivido, di un ruolo predominante alla politica e allo Stato. Il progetto riformista si traduce in politiche pubbliche formulate dai detentori del potere di governo e fatte approvare nelle appropriate sedi decisionali a cominciare dal Parlamento. Fra queste politiche pubbliche le più importanti sono quelle che hanno caratterizzato e tuttora improntano lo Stato sociale, nel senso che, dalla istruzione alla salute, dal lavoro alla pensione, ampliano e mantengono aperte le opportunità.

Questo tipo di riformismo, per il quale mi pare giusto mantenere il riferimento socialista, è ancora possibile e praticabile. Risulta molto difficile all’interno dei singoli paesi che, però, possono coltivare e curare tutte le politiche riformiste che hanno formulato e attuato nel tempo. La sua praticabilità si è trasferita a livello dell’Unione Europea. Nella consapevolezza che la ripresa e la resilienza che seguiranno al Covid potranno molto concretamente tradursi in politiche riformiste, il piano NextGenerationEU contiene elementi relativi alla trasformazione dell’ambiente, alla ricerca e all’innovazione, alla parità di genere significativamente promettenti. Un nuovo riformismo a livello sovranazionale, dove unicamente può essere situato, è dietro l’angolo. Resta da vedere se esiste un gruppo di uomini e donne, un tempo avrei scritto “un partito”, sufficientemente convinto e compatto per suscitarlo e perseguirlo pur in tempi non brevi.

Pubblicato su Mondoperaio n 4 Aprile 2021

Karl Marx duecento anni dopo #KarlMarx #Marx200 #Marx2018 VIDEO @FondCorriere

Il marxismo è (stato) una ideologia nel senso migliore della parola: una visione del mondo, una prospettiva sul futuro. Ha creato una cultura politica anche nel dibattito/scontro “rivoluzione vs riforme”. Grandi partiti di sinistra si sono formati nella riflessione e nel superamento di quella antinomia, anche senza, inconveniente grave, elaborare una teoria dello Stato. Scomparso il marxismo su quali basi si ricostruisce una cultura politica? È lecito sostenere che il declino dei partiti di sinistra si accompagna, ma forse è anche la conseguenza, della scomparsa della loro cultura politica, e viceversa?

Sala Buzzati
via Balzan 3, Milano
Giovedì 3 maggio 2018

In occasione della presentazione di
Karl Marx vivo o morto?
Il profeta del comunismo duecento anni dopo,
a cura di Antonio Carioti, Solferino – I libri del Corriere della Sera

 

Non c’è traccia di populismo in nessuna variante del marxismo. Non il popolo, non la nazione, ma la classe e il proletariato internazionale occupano il centro del pensiero dei marxisti. Laddove i populisti vogliono dividere il popolo buono e puro, che li sostiene, dai traditori del popolo, ovvero chiunque rappresenta altre preferenze e si oppone a loro, il marxismo vuole offrire ai proletari l’opportunità di liberarsi delle sue catene guardando oltre e fuori i confini delle nazioni. Il populismo non libera nessuno.

La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia* #KarlMarx #Marx200 #Marx2018

*La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia, in A. Carioti (a cura di), Karl Marx. Vivo o morto? Il profeta del comunismo duecento anni dopo, Milano, Solferino, pp. 175-185
Presentazione 3 maggo 2018 ore 18 Fondazione Corriere, Sala Buzzati via Balzan 3 Milano

 

Il pensiero e gli scritti di Karl Marx, la sua analisi del capitalismo, dello sfruttamento e dell’alienazione dei lavoratori, la prospettiva del superamento dello stadio nel quale la borghesia era/è stata la classe dominante fino alla situazione nella quale non sarebbe più esistito il governo degli uomini sugli uomini in quanto sostituito dall’amministrazione delle cose hanno costituito il patrimonio iniziale di tutti, o quasi, i partiti che si definivano socialdemocratici. Tuttavia, fin dall’inizio delle esperienze socialdemocratiche, già ai tempi di Marx e Engels, si sono prodotti contrasti di non poco conto sulle modalità con le quali fare transitare la teoria di Marx all’azione nella concretezza della lotta politica per conseguire obiettivi che non tutti i socialdemocratici condividevano a cominciare dall’alternativa, a lungo protrattasi, fra riforme e rivoluzione. Se le riforme “di struttura” portassero ad esiti rivoluzionari oppure addirittura rafforzassero il capitalismo in sostanza rimandando e impedendo l’emergere della società socialista è un dilemma che ha attraversato i socialdemocratici in tutti i luoghi fino a tempi relativamente recenti. La rottura più profonda e duratura nel mondo delle socialdemocrazie avvenne quando nel Secondo Congresso della Terza Internazionale Lenin impose ai partiti socialdemocratici e socialisti di accettare 21 condizioni che li avrebbero trasformati in comunisti. Da allora il marxismo fu per molti decenni l’ideologia al tempo stesso sia del maggior numero dei partiti socialdemocratici sia di tutti i partiti comunisti dell’Occidente. Le loro strade si divaricavano, ma per lungo tempo il riferimento a Marx non venne meno né, faccio due soli esempi, per i socialisti italiani guidati da Turati né per i cosiddetti austromarxisti. Nella pure tragica contrapposizione durante la Repubblica di Weimar (1919-1933) fra i socialdemocratici e i comunisti, il marxismo come ideologia e teoria non fu messo in discussione dai primi pure tacciati dai comunisti staliniani di essere diventati socialfascisti.

Ieri. L’abbandono del marxismo da parte dei socialdemocratici tedeschi fu effettuato più di un decennio dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale nel Congresso di Bad Godesberg nel 1959. Quella decisione ebbe un impatto enorme. Aprì la strada ad una molteplicità di richieste, talvolta intimazioni, indirizzate soprattutto ai comunisti, in particolare quelli italiani, di “andare a Bad Godesberg” (ridente cittadina termale) e procedere ad un lavacro di tipo revisionista. Sette anni dopo i socialdemocratici tedeschi arrivarono al governo della allora Germania Ovest, la Repubblica Federale Tedesca, in una Grande Coalizione, per rimanervi poi con i Liberali fino al 1982. Per l’importanza della Germania e della SPD stessa e per le conseguenze politiche irreversibili che Bad Godesberg ebbe, l’avvenimento ha segnato uno spartiacque nella storia delle socialdemocrazie. Tuttavia, i percorsi dei vari partiti socialdemocratici e socialisti europei, dopo Marx, dopo la rivoluzione bolscevica, dopo il fascismo e il nazismo erano già stati molto differenziati. Oserei applicare a tutti quei partiti una famosa frase di Marx sostituendo la parola uomini appunto con partiti, come segue: “i partiti fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni”. Anche se già nel 1951 fu fondata l’Internazionale Socialista, che oggi conta circa 150 partiti aderenti, soltanto i pure molto importanti principi generali sono condivisi. Non solo le tattiche politiche contingenti, ma le strategie di lungo periodo dei diversi partiti sono fortemente condizionate dallo stato dei paesi e delle società in cui operano, dalle loro tradizioni e dal contesto partitico stesso.

Per cominciare con il caso in qualche modo ai margini delle socialdemocrazie continentali, più che alla lunga operosa presenza di Marx a Londra, città nella quale morì (nel 1883) ed è sepolto, la storia del laburismo inglese è debitrice di fatti e tradizioni specifiche della Gran Bretagna, della forza del pur variegato e frammentato movimento sindacale, dell’eredità del pensiero illuminista scozzese e liberale, degli intellettuali della Fabian Society e della dinamica complessiva del sistema politico a cominciare dall’estensione graduale, ma significativa, del diritto di voto. Tutto questo plasmò un partito laburista nel quale i marxisti furono sempre una piccola e non influente minoranza, e nel quale la cifra dell’azione politica fu regolarmente il riformismo senza nessuna ambizione rivoluzionaria. Sicuramente i Laburisti britannici debbono essere considerati parte integrante delle socialdemocrazie europee, ma le loro specificità hanno continuato a contare nel corso del tempo e nelle numerose esperienze di governo. Sono state trasferite ovvero recepite e nutrite anche in alcuni paesi della diaspora anglosassone come Australia e Nuova Zelanda dove i partiti laburisti hanno spesso governato dando rappresentanza e potere alle classi popolari.

Sul continente è possibile rilevare tre, forse quattro varianti di socialismi. Le prime due varianti sono relativamente facili da individuare e definire. Sono, rispettivamente, quelle dei partiti – laburisti, socialisti, dei lavoratori – dei paesi nordici e quelle dell’Europa meridionale, più precisamente, della Francia e dell’Italia. Nei paesi nordici i socialisti non hanno dovuto, con l’eccezione parziale della Finlandia, affrontare la sfida di un forte partito comunista alla loro sinistra. Hanno a lungo goduto dell’appoggio ovvero di una relazione stretta e fondamentalmente collaborativa con un forte sindacato unitario. Giunsero al governo del loro paese, in special modo, il Partito Socialista dei Lavoratori svedese, già all’inizio degli anni trenta. Hanno plasmato in maniera indelebile, “nelle circostanze che trova(ro)no immediatamente davanti a sé”, la vita politica, sociale e economica come non è stato possibile in nessun altro sistema politico. Lo hanno fatto procedendo alla virtuosa combinazione fra una politica economica all’insegna del keynesismo e una politica sociale improntata al welfare. Hanno formulato e spesso attuato accordi e addirittura assetti definiti neo-corporativismo basati sulla solida relazione tripartitica fra un governo di sinistra (sorretto dal partito socialdemocratico), il sindacato unitario e le organizzazioni imprenditoriali, sorretta dalla fiducia reciproca che gli impegni presi saranno mantenuti e attuati. Non può suscitare nessuna sorpresa che, come direbbero gli inglesi, at the end of the day, tutte le classifiche internazionali, a cominciare da quella autorevole dell’Indice dello Sviluppo Umano (reddito, livello di istruzione, stato di salute) vedano regolarmente ai primi posti Norvegia e Svezia, Danimarca e Finlandia.

Le esperienze socialdemocratiche di governo nei paesi nordici sono spesso state giudicate in maniera molto severa, comunque considerate non meritevoli di imitazione nei due maggiori paesi latini, vale a dire Francia e Italia. Sia i politici socialisti e, con maggiore acrimonia, comunisti sia i loro intellettuali di riferimento hanno rimproverato a quei socialdemocratici di non avere saputo cambiare, sconfiggere, superare il capitalismo quanto, piuttosto, di averlo “salvato”, rendendolo persino più efficiente e più forte. In seguito, quei politici e quegli intellettuali hanno sostenuto che le esperienze socialdemocratiche si erano logorate ed erano entrate in crisi. Dunque, non valeva la pena né studiarle né, tantomeno, imitarle. Certamente non entrarono in crisi le esperienze socialdemocratiche in Francia e in Italia poiché in Francia non ebbero mai modo di prodursi tranne che, in parte, con la prima presidenza di François Mitterrand (1981-1988), in Italia sostanzialmente mai anche se, forzando un po’ la valutazione e gli esiti, il primo centro-sinistra italiano (1962-1964) costituì una fase di significativo riformismo. La debolezza dei partiti socialisti francese e, soprattutto, italiano a fronte della solidità dei corrispondenti partiti comunisti e della loro rappresentatività della classe operaia costituì l’ostacolo maggiore, ancorché non l’unico (vi si deve aggiungere quantomeno la divisione della rappresentanza sindacale), alla conquista del governo in un paese occidentale nel periodo della Guerra Fredda. La divisione a sinistra e il conflitto socialisti/comunisti hanno finito per rendere impossibile qualsiasi costruzione di un attore partitico unitario in grado di proporre politiche riformiste di stampo socialdemocratico. In nessuno dei due paesi, praticamente scomparsi i partiti che potrebbero richiamarsi alla socialdemocrazia, è ragionevolmente possibile ipotizzare una qualche ripresa di politiche riformiste, rese per di più ancora più difficile dalla dinamica complessiva della globalizzazione e dallo spirito del tempo.

Nei paesi più propriamente mediterranei come Grecia, Portogallo, Spagna, dopo il crollo dei rispettivi autoritarismi, il compito dei partiti socialisti è consistito soprattutto nel creare e mantenere le condizioni di un regime democratico dando rappresentanza ai ceti popolari e guidando lo sviluppo dell’economia ed è stato coronato da sostanziale successo. La democrazia si è consolidata. Non era da quei partiti e da quei paesi che ci si potessero aspettare innovazioni di rilievo nelle politiche socialiste. L’abbandono del marxismo come ideologia e come guida alla prassi fu logica conseguenza dei tempi e, tranne che brevemente per il Partito Socialista Operaio Spagnolo, non implicò nessuna difficoltà né, tantomeno, traumi. Più complessa la situazione prodottasi nei sistemi politici dell’Europa centro-orientale dopo il 1989. Ridotto il marxismo a mero rituale, a ideologia imbalsamata, a catechismo per gli aspiranti a far parte della nomenclatura, il fallimento dei regimi comunisti ha svelato il vuoto di cultura politica. Non poteva che essere bassa o nulla la credibilità dei partiti comunisti che trasformavano il loro nome in socialisti e i cui ceti politici traslocavano armi e bagagli nella neppur troppo nuova botte socialista che avevano in passato largamente screditato. La reazione profonda e di entità inattesa contro il comunismo “realizzato” ha chiuso ogni spazio a eventuali apparizioni di compagini socialiste che, infatti, tuttora, quasi vent’anni dopo la transizione, non esistono, con conseguenze gravi sullo spirito civico e sulla qualità della democrazia di ciascun paese. Non erano, forse, solo i partiti comunisti dominanti l’impedimento alla formulazione e attuazione di politiche riformiste neppure quelle vagamente di stampo socialdemocratico.

La caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 cambiò ancora una volta “le circostanze” nelle quali si trovavano ad operare i partiti (e i governi) socialdemocratici. In verità, nell’Europa occidentale quelle circostanze erano già cambiate molto significativamente grazie alla prosperità economica diffusasi nel dopoguerra e soprattutto a mutamenti culturali più irreversibili di qualsiasi benessere economico. Quei vantaggi economici, di lavoro e di guadagno, che l’azione organizzata in partiti e in sindacati aveva consentito di conseguire a milioni di cittadini e che i partiti e i governi socialdemocratici avevano cercato di distribuire in maniera equa, semmai più favorevole ai ceti popolari, potevano oramai, almeno così sembrò ai figli e alle figlie di quei lavoratori, essere conseguiti individualmente, di persona attraverso il perseguimento dell’autorealizzazione (Inglehart 1977). I valori post-materialisti e i loro (giovani) portatori fecero irruzione sulla scena politica scompaginando in particolare la sinistra, le variegate organizzazioni socialdemocratiche nelle quali convivevano padri “materialisti” e figli e figlie che, proprio grazie ai loro genitori, potevano permettersi di avere e applicare valori post-materialisti. Naturalmente, alcuni paesi erano più avanzati sulla scala del post-materialismo e in questi paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma anche i paesi nordici, l’onda del post-materialismo colpì in misura considerevole le socialdemocrazie esistenti e governanti.

Oggi. Curiosamente, nello stesso anno, 1994, in cui Bobbio insisteva sulle ragioni della persistenza di ben distinte posizioni di destra e di sinistra, il sociologo inglese Anthony Giddens argomentava e spiegava perché fosse indispensabile andare Oltre la destra e la sinistra. I tumultuosi anni di governo dei conservatori, Thatcher (1979-1990) e Major (1990-1997), favoriti dalla scissione dei socialdemocratici nel 1981, avevano imposto ai laburisti un agonizing reappraisal (dolorosissima rivalutazione) della loro strategia, della loro stessa visione della Gran Bretagna. Più di altri Giddens contribuì alla formulazione della Terza Via (il sottotitolo inglese del libro omonimo pubblicato nel 1998 è The Renewal of Social Democracy) che divenne la formula con la quale il New Labour di Tony Blair approdò al governo nel 1997. Tra il liberismo estremo dei conservatori e il laburismo obsoleto, Blair e Brown si aprirono una Terza Via che doveva riformare il partito, le modalità di governo, le politiche, la stessa società britannica. È una Via nella quale neppure credono più la maggioranza dei dirigenti laburisti e i loro elettori che premiano il più tradizionale, classico, forse effettivamente socialdemocratico Jeremy Corbyn.

Non credo si possa collocare nella Terza Via l’Ulivo fortunosamente vittorioso alle urne nell’aprile 1996 anche se, indubbiamente, fra le motivazioni di alcuni protagonisti si trovava quella del superamento della socialdemocrazia classica (peraltro, mai concretamente comparsa nel contesto italiano). Con qualche forzatura fu inserita nella Terza Via l’esperienza del governo presidenziale del democratico Bill Clinton (1992-2000). Molto più appropriato è il riconoscimento che quanto volle fare il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder (1998-2005), ovvero plasmare e ridefinire un nuovo centro (Die Neue Mitte), rappresentò effettivamente la Terza Via secondo modalità tedesche. Tuttavia, da allora è cominciato un significativo e persistente declino elettorale della SPD che, peraltro, è rimasta politicamente la migliore alleata di governo della Democrazia Cristiana tedesca (2005-2009; 2013-2017; ????-????). Infine, l’esperimento iniziato in Italia nel 2007 con la formazione del Partito Democratico è, comunque lo si valuti, la fuoriuscita da qualsiasi possibilità di recupero, di rilancio, di rielaborazione di un esperimento socialdemocratico. Nella vicina Francia, la clamorosa vittoria presidenziale (2017) di Emmanuel Macron ha con tutta probabilità posto fine a quel poco che era rimasto di socialdemocrazia francese trascendendo Parti Socialiste e Rèpublicains gollisti con lo slogan sia destra sia sinistra e relegandoli in un passato che non potrà tornare. Solo nei sistemi politici scandinavi le socialdemocrazie hanno lasciato tracce tanto profonde quanto positive, ma i duri dati elettorali dicono che, sì, potranno, nella logica delle democrazie dell’alternanza, tornare al governo, ma all’orizzonte non si vede nessun rilancio di un’età d’oro socialdemocratica.

Bilancio per il domani. Abbiamo appreso dai bolscevichi la dura lezione della storia che il socialismo in un solo paese non può essere costruito. Non è possibile dimenticare che uno dei cardini del pensiero di Marx era l’internazionalismo sotto forma di solidarietà del proletariato di tutti i paesi: “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Invece, ciascuno e tutti i partiti socialdemocratici hanno a partire dagli anni Trenta, ma ancor più nel secondo dopoguerra intrapreso e percorso, con maggiore o minore successo, le loro vie nazionali. Dappertutto c’è da qualche tempo ormai la consapevolezza che nessuna di quelle vie nazionali porta ai traguardi/esiti di mantenimento della prosperità e di riduzione delle diseguaglianze che le socialdemocrazie continuano a ritenere degni di essere perseguiti. Anzi, almeno per quel che riguarda la prosperità la sfida della globalizzazione può essere meglio affrontata in chiave sovranazionale nel quadro offerto dall’Unione Europea. Che le sfide della globalizzazione, del governo dell’economia, delle migrazioni possano essere vinte dai governi nazionali che operino senza accordi reciproci e senza cooperazione è l’illusione dei sovranisti. Che possa riaprirsi quella che, brillantemente analizzando le esperienze scandinave, Esping Andersen (1985) definì La via socialdemocratica al potere caratterizzata dalla capacità della politica di contrapporsi vittoriosamente ai mercati appare piuttosto improbabile.

I primi due punti di quello che circa centocinquant’anni fa era il Programma socialdemocratico minimo: 1. Rimuovere gli ostacoli allo sviluppo del capitalismo; 2. Ampliare le libertà borghesi, democrazia e diritti civili, soprattutto il suffragio, sono stati conseguiti. Il punto 3. Accrescere il ruolo del proletariato industriale di fabbrica deve essere ridefinito con riferimento al ruolo dei lavoratori in un mercato del lavoro caratterizzato da enormi variazioni e squilibri. Il punto 4. Lottare contro i bastioni internazionali della reazione (la Russia zarista) mantiene la sua validità, ma i bastioni della reazione non si trovano all’interno di un solo Stato. Anche se l’Unione Europea non è in alcun modo definibile come socialdemocratica, la lotta contro la reazione non può che partire dalle sue istituzioni che delimitano il più grande spazio di libertà e diritti mai conosciuto. Quest’ultima affermazione mi consente di ricordare le parole di Bobbio che qualche decennio fa (per la precisione nel 1976) concludeva la sua splendidamente sintetica voce Marxismo del Dizionario di politica UTET sottolineando che la socialdemocrazia “ritiene che compito del movimento operaio sia quello di conquistare lo Stato (borghese) dall’interno”, mentre il marxismo afferma la necessità della distruzione dello Stato borghese affinché lo Stato stesso si estingua. Le esperienze dei comunismi realizzati hanno contraddetto l’imperativo marxista riguardante l’estinzione dello Stato potenziandolo e rendendolo totalitario. Le socialdemocrazie hanno di tanto in tanto conquistato non lo Stato, ma il governo di numerosi paesi trasformando in meglio il funzionamento e il rendimento complessivo dei sistemi politici nei quali hanno avuto ruoli importanti. All'”amministrazione delle cose” profetizzata da Marx le socialdemocrazie non sono pervenute, ma, è opinione diffusa che i loro governi hanno avuto successo. Eppure, è il paradosso, sono diventati meno probabili e meno frequenti. In Europa non si aggira lo spettro della socialdemocrazia.

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Riferimenti bibliografici
Bartolini, S. (2000) The Political Mobilization of the European Left, 1860-1980: The Class Cleavage, Cambridge: Cambridge University Press
Bobbio, N. (2016) Marxismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Novara, De Agostini, pp. 556-562.
De Waele, J.-M., Escalona, F., Vieira, M. (a cura di) (2013) The Palgrave Handbook of Social Democracy in the European Union, New York, Palgrave-Macmillan.
Esping-Andersen, G. (1985) Politics against Markets. The Social Democratic Road to Power, Princeton, Princeton University Press.
Giddens, A. (1994) Oltre la destra e la sinistra, Bologna, Il Mulino.
Giddens, A. (2001) La terza via, Milano, Il Saggiatore.
Inglehart, R. (1977) The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles among Western Publics, Princeton, Princeton University Press.

Primum vivere, deinde scribere l’autobiografia

Cattura

Recensione del libro di Claudio Martelli, Ricordati di vivere, Bompiani, Milano, 2013, pp. 594

Il titolo dell’autobiografia politica di Claudio Martelli mi ha molto incuriosito. Però, giunto alla fine di una lettura sempre molto interessante confesso di non averlo capito. Deve essere un monito per altri, non identificati personaggi, forse per quei troppi dirigenti socialisti dei suoi anni ruggentissimi che, oltre che alla politica, si dedicavano alla ricerca di mezzi per stare in politica, per crescere nelle cariche e per arricchimento personale (“convento povero, frati ricchissimi” nella valutazione del socialista Rino Formica)? Certamente, a giudicare da quello che scrive lo stesso Martelli, lui non ha avuto bisogno di nessuno che gli ricordasse di vivere. Tralasciando per il momento il suo arrembante percorso politico, durato poco meno di trent’anni, quindici dei quali in ruoli importanti (quattro legislature alla Camera dei deputati, a lungo vice-segretario del PSI, Ministro della Giustizia e vice-Presidente del Consiglio, infine, dal 1999 al 2004 Europarlamentare), ha “goduto di generosi benefit del partito, spese di segreteria, affitto di appartamenti, macchine, viaggi, alberghi, ristoranti”. Tutto questo gli è servito per “fare politica onestamente e anche godere di agi e vantaggi” grazie “a Craxi e al Partito socialista, che [lo] hanno messo al riparo dai rischi di dover[s]i procurare le risorse necessarie per [lui], per i [suoi] collaboratori, per le campagne elettorali, per i continui trasferimenti di un piccolo apparato” (p. 578). Anche nel privato Martelli non si è affatto dimenticato di vivere: belle e avventurose vacanze dalla California al Kenya e una pluralità di rapporti sentimentali più che soddisfacenti e, se posso permettermi, molto variegati: due mogli, quattro figli da tre diverse compagne. Ce n’è abbastanza per riempire la vita anche di un uomo irrequieto, alla ricerca di qualcosa di non specificato, forse non soltanto di potere politico, ma di riconoscimento, che plachi la sua irrequietezza.

Dev’essere davvero difficile (vedo in giro molti esempi, di gran lunga meno interessanti di Martelli) per gli uomini che hanno avuto potere e che lo hanno per le più diverse ragioni, spesso soprattutto per loro demerito, perduto, rassegnarvisi graziosamente e intraprendere una second life. Se non hanno avuto altro interesse e altro scopo nella vita che quel potere politico, ahi ahi, la privazione diventa insopportabile poiché non sanno come occupare il loro tempo. Continuano a strusciare, finché possono, i piedi nel Transatlantico di Montecitorio, cercano di farsi citare dai giornalisti, vanno alla ricerca di qualche comparsata televisiva da ex. I più fortunati si fanno ficcare in qualche Commissione per la revisione di qualsiasi cosa non funzioni nello Stato italiano (e spesso vi riescono): patetici. Martelli, no. Questa autobiografia può essere letta non soltanto come il tentativo di riscrivere un pezzetto, importante, di storia italiana, socialista, personale, ma come una catarsi.

Ho cercato di capire le motivazioni del fatidico ingresso di Martelli in politica. Potrei dire che ho intravisto molta, legittima, ambizione, forse anche gli incentivi del tempo, inizi anni sessanta, non so se fin da subito, ma sicuramente in seguito, anche il tentativo di cambiare la politica, più che a livello locale, dove pure ebbe qualche responsabilità pratica, soprattutto a livello nazionale. E’ l’incontro con Craxi che segna la svolta decisiva e, per Martelli, molto positiva. Sono le differenze d’opinione con Craxi che, ad avviso di Martelli, impedirono cambiamenti cruciali, ad esempio, quello della (auto)riforma del partito, proposta da Martelli quando Craxi era già arrivato a Palazzo Chigi, quindi dopo il 1983 (pp. 311-321). Sono, infine, le divergenze con Craxi sui tempi e sui modi di proseguire la politica socialista poco prima del crollo del muro di Berlino. “Ancora alla vigilia del crollo dei muri, l’apparenza sembrava giustificare la tattica attendista di Bettino, che saldo su se stesso e sul suo partito si limitava a regolare il gioco politico dividendo gli alleati, logorando gli avversari, aspettando che un nuovo ciclo gli restituisse lo scettro [sic] con il ritorno a Palazzo Chigi o magari, chissà ( anche di questo abbiamo ragionato e vagheggiato in certi momenti), gli aprisse la strada al Quirinale” (p.439), che segnano una profonda e dolorosa incomprensione. Molto diversa erano la diagnosi preveggente e la strategia suggerite a Craxi da Martelli: “Una stagione politica è finita e pensare di ripeterla è molto rischioso. Che cosa può dare di più di quello che ha già dato nei quattro anni in cui sei stato presidente del consiglio? L’alleanza con la DC è esaurita, la DC è esausta, rischiamo di farci trascinare nella sua decadenza. Prepariamo qualcosa di nuovo, prepariamo un nuovo ciclo, dedichiamoci a riunire e guidare una sinistra divisa, confusa. Bettino, non basta parlare di unità socialista, formularla come un diktat, come un prendere o lasciare. Dobbiamo essere pronti anche noi a rinunciare a qualcosa, persino al governo se è necessario per costruire qualcosa di grande. … Dobbiamo puntare alla presidenza della repubblica, perché è da lì che si guiderà la nuova fase politica” (pp. 511-512).

Pure essendo molto consapevole del ruolo molto influente svolto dai Presidenti: da Scalfaro (poi criticatissimo da Martelli), in misura inferiore, da Ciampi, in misura enormemente superiore da Napolitano (regolarmente descritto da Martelli come molto attento alle preferenze e alle esigenze del PSI), non intendo discutere della validità dell’asserzione di Martelli (guidare la nuova fase politica dal Quirinale), ma trovo curioso come nella sua autobiografia i rapporti Craxi-Berlusconi siano appena accennati e il potere successivo di Berlusconi non sia neppure preso in considerazione. Maliziosamente aggiungerò che parecchio spazio viene concesso, invece, a Gelli e agli incontri da Martelli avuti con il capo della P2. Ancora più curioso è che Martelli scriva della necessità di “riunire e guidare” la sinistra, divisa e confusa, praticamente cancellando quello che mi era sembrato l’impegno predominante del suo agire politico, oserei aggiungere, intellettuale e culturale: costruire una grande forza politica liberalsocialista. Affronterò questo importantissimo aspetto facendo riferimento a due nomi, diversamente molto significativi, e a un evento straordinariamente importante. La premessa, di cui Martelli potrebbe dolersi, sta in una sua frase: “La coerenza è una virtù che parla di noi ma ha poco a che fare con la realtà” (p. 499). Quindi, essere incoerenti non è soltanto giustificabile; diventa assolutamente indispensabile. Qui, entra in campo, preceduto da critiche durissime (che sono spesso molto condivisibili) al Sessantotto e alle sue manifestazioni, il capo di “Lotta Continua” (e il direttore dell’omonimo giornale) di uno dei movimenti di maggiore successo, allora e oggi: Adriano Sofri. Mi limito a registrare un siparietto svoltosi nel 1985 in occasione del loro primo incontro nelle sale della rivista socialista “Mondoperaio”. “A riunione conclusa, Sofri mi abbordò: ‘Mi avevano detto che ci assomigliamo, ma tu sei più bello’. Scherzo per scherzo, risposi: ‘Tu sei più intelligente’ ” (p. 329). Resisto, ma davvero con molta fatica, dal commentare quanto di questo scambio riveli delle personalità di entrambi. Registro, invece, le molte parole che Martelli spende per sottolineare un’ampia concordanza di vedute con Sofri, del quale non riesco a ricordare espressioni lontanamente avvicinabili al “liberalsocialismo”.

Il secondo nome è Norberto Bobbio, il relatore della mia tesi di laurea all’Università di Torino, ovviamente, non il più noto e il più rilevante dei suoi meriti intellettuali e dei suoi contributi alla cultura politica di un paese refrattario, per di più schiacciato fra il cattolicesimo e il comunismo. Bobbio, uno dei grandi maestri del liberalsocialismo, viene citato tre volte. Nella prima citazione incidentale viene collocato insieme con Federico Mancini (con il quale non aveva praticamente nulla in comune) fra i “maestri tradizionali” (p. 212). La seconda volta, ricorda Martelli, di essere incorso “nella censura, amichevole, ma severa, di Norberto Bobbio: ‘equità e eguaglianza sono sinonimi’ [ho i miei dubbi sulla veridicità dell’attribuzione di questa frase a Bobbio] e mi rimandò a una bibliografia, –piuttosto datata, a dire il vero–… Replicai che tutto ciò che chiamiamo e amiamo con il nome di liberalsocialismo ruota intorno al tentativo di conciliare libertà ed eguaglianza in una sintesi superiore, più comprensiva e più mobile” (p. 333-334, corsivo mio). Avrei sperato che, per quanto “maestro tradizionale” e antico, Bobbio avesse imparato la lezioncina. Invece, qualche tempo dopo, a Bobbio toccò di ricevere un’altra severa e sprezzante critica: “a definire destra e sinistra non basta” –scrive Martelli dall’alto della sua filosofia politica– “il rapporto che, rispettivamente, hanno l’una con la libertà e l’altra con l’eguaglianza, secondo la discutibile distinzione resa celebre da Norberto Bobbio in un libricino di successo” (p. 379, corsivi miei). Peccato che Martelli dimentichi di citare il titolo La democrazia dell’applauso, di un famoso (e “discutibile”?) articolo di Bobbio con il quale su “La Stampa” del maggio 1984 il filosofo torinese stigmatizzava l’acclamazione senza votazione con la quale Craxi fu riconfermato segretario del PSI nel Congresso di Verona. A quell’articolo vale la pena di citare anche l’immediata e sprezzante replica di Craxi: “i filosofi che hanno perso il senno”. Tutto l’episodio è omesso da Martelli. Il quesito, però, è come fare il liberalsocialismo in Italia relegando ai margini il più influente filosofo del liberalsocialismo stesso.

La risposta Martelli l’aveva già data. Questo è l’evento che ho preannunciato: il suo giustamente famoso discorso “sui meriti e sui bisogni” pronunciato alla conferenza programmatica “Governare il cambiamento” che il PSI tenne a Rimini (31 marzo-4 aprile 1982). Martelli ricorda ai lettori che quel discorso fu giudicato “da molti osservatori, dagli stessi comunisti e da un interlocutore ostico come De Mita – come “il momento più alto del nuovo corso socialista” (p. 291). Sottolinea che voleva “scrivere un manifesto del socialismo moderno”, “uscire dal discorso ideologico, dal confronto di dottrine e di esperienze politiche” … attingendo dagli esempi, dal metodo, dai percorsi e dai risultati del secolo socialdemocratico [questa è la caratterizzazione data al XX secolo da Ralf Dahrendorf], a cominciare dalla sua espressione più compiuta, quella svedese” (p. 291). Fu senza nessuna riserva un discorso efficacissimo, persino entusiasmante, che riuscì, almeno con le parole, a coniugare in maniera ispirata il liberalismo, premiare i meriti, con il socialismo, liberare dai bisogni. Proprio il liberalsocialismo che Bobbio aveva provveduto a teorizzare da almeno trent’anni. “Il discorso di Rimini fu interrotto da applausi ripetuti, intensi e da un’ovazione finale lunga cinque minuti, con tutti i delegati in piedi e non pochi con le lacrime agli occhi, come mostrano i video d’epoca. Solo Craxi rimase seduto” (p. 298, corsivo di commento mio). Il resto è storia. Il PSI non seppe, non volle, non cercò di applicare quei due principi. Martelli continuò a fare il delfino di Craxi e Craxi continuò a dedicarsi alle manovre per (ot)tenere il potere, alla fine rifiutandosi di cederlo per tempo a Martelli.

Tralascio qui due elementi che, invece, Martelli sottolinea: il suo intenso e meritorio rapporto con Giovanni Falcone e le sue alquanto logore e banali, a mio parere, spesso esagerate e non inoppugnabili, critiche alla magistratura. Un ex-Ministro della Giustizia dovrebbe saperne di più e avrebbe dovuto agire rapidamente e più a fondo nei confronti dei magistrati corporativi, politicizzati, carrieristi, inefficienti. Tutto questo vale per un bilancio della sua personale traiettoria politica. Quanto all’operato complessivo, “quel che Craxi ha fatto, quel che abbiamo fatto insieme e con tanti altri compagni merita ancora di essere studiato, discusso, compreso” (p. 591). Gli errori Martelli li attribuisce all’insistenza di Craxi su un anticomunismo obsoleto che, in verità, fu la cifra, 0quasi totalmente condivisa da Martelli, del suo agire politico. “Nettamente prevalenti sulle ombre”, le luci furono “la rinascita del PSI e di un riformismo moderno [peccato che di questo non vi sia più traccia con almeno due terzi dei socialisti confluiti in Forza Italia], la contestazione energica, democratica, vincente del comunismo italiano [che, però, ha infiacchito i rimanenti comunisti, ma non ne ha fatto dei ‘liberalsocialisti’], la prova di governo e di orgoglio nazionale, le battaglie per i diritti umani e l’indipendenza dei popoli” (p. 591). Ricordati di vivere è una storia politica di grandi successi personali la cui morale è che, alla fine, in politica, non si vince mai. Questo, forse, spiega perché nelle memorie di Martelli, la sua innegabile arroganza si combina con l’inconfessabile dolore per l’irreparabile incompiutezza della sua parabola politica.

Paradoxa, Anno 9 – Numero 3 – Luglio/Settembre 2015