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La fragilità dei partiti danneggia le democrazie @La_Lettura #vivalaLettura

Nelle democrazie si vota. Liberamente. Per eleggere assemblee, parlamenti, Presidenti. Tutte le cariche elettive hanno limiti temporali entro i quali debbono essere periodicamente rinnovate. Chi ha vinto sa che entro un certo numero di anni dovrà ripresentarsi agli elettori. Chi ha perso sa entro quando potrebbe ottenere la rivincita. Tutti i rappresentanti e i governanti sono consapevoli di avere un certo periodo di tempo per mettere all’opera le loro capacità e attuare quello che hanno promesso agli elettori. Cercheranno di giungere alle nuove elezioni nelle migliori condizioni possibili. Alcuni tenteranno di mascherare la loro inadeguatezza politica e personale ingaggiando una campagna elettorale permanente a colpi di slogan ad effetto. Altri mireranno a sopravvivere galleggiando fino al tempo del voto. Da qualche tempo, però, in alcune democrazie rappresentanti e governanti sono costretti con inusitata frequenza a tornare di fronte agli elettori. Le assemblee elettive non riescono a produrre maggioranze in grado di formare un governo. Come conseguenza, quelle assemblee vengono sciolte prima della loro scadenza naturale e gli elettori sono ripetutamente chiamati a votare. La soluzione che politici e parlamentari non riescono a trovare viene affidata agli elettori, al popolo sovrano, persino più spesso di quanto quel popolo desidererebbe.

Da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il fenomeno di elezioni frequentemente ripetute perché non risolutive costituisce un problema politico. Di tanto in tanto qualcuno ricorda allarmato che nella Repubblica di Weimar le frequenti elezioni anticipate furono la premessa del collasso, ma il riferimento è superficiale, male impostato, non tiene conto di condizioni nazionali e internazionali drasticamente differenti. Tuttavia, le tornate elettorali democratiche che si susseguono a poca distanza di tempo meritano attenzione. Anzitutto, bisogna evitare le esagerazioni. Delle ventotto democrazie dell’Unione Europea (nella quale ancora mantengo a fini analitici la Gran Bretagna) soltanto quattro, Austria, Grecia, Spagna e, appunto, Gran Bretagna hanno avuto in anni recenti legislature troncate e elezioni ripetute a distanza di poco tempo. Guardando fuori d’Europa, possiamo aggiungere il caso di Israele nel quale fra l’aprile 2019 e il marzo 2020 gli elettori finiranno per avere votato tre volte in meno di un anno. Dal canto loro, in meno di dieci anni i greci hanno votato ben cinque volte, ma in un arco temporale più lungo dal maggio 2012 al luglio 2019, per due volte nello stesso anno: maggio e giugno 2012 e gennaio e settembre 2015. È stato Tsipras l’unico a guidare il governo per quasi tutta una legislatura dal settembre 2015 al luglio 2019.

In Austria l’instabilità è risultata contenuta: due elezioni fra l’ottobre 2017 e il settembre 2019. La Gran Bretagna, che molti giustamente considerano la madre di tutte le democrazie parlamentari lodandone la stabilità e l’efficacia dei governi, è precipitata in un vortice che ha visto dal maggio 2015 al dicembre 2019 tre elezioni generali più il fatidico referendum del giugno 2016, il padre di tutti i pasticci successivi. Evidentemente, non è il sistema elettorale maggioritario a produrre e garantire la stabilità dei governi. Come sosteneva e più volte scrisse Giovanni Sartori, è la solidità dei partiti che conta in maniera decisiva per la formazione di governi stabili e operativi. Infine, la Spagna, nel corso di più di trent’anni esemplare democrazia con governi stabili, competizione bipolare e alternanza, ha votato quattro volte fra il dicembre 2015 e il novembre 2019. A fronte di questo ritratto, la tanto vituperata Italia, con i suoi conflitti, le sue tensioni, le sue persistenti difficoltà, dimostra che, se non tutto, molto può essere ricomposto in Parlamento (sì, anche con i cosiddetti “ribaltoni” ovvero i legittimi cambi di maggioranze) senza ricorrere a ripetute elezioni che “logorano” le istituzioni oltre che la pazienza politica degli elettori.

Per ciascuno dei paesi che hanno sperimentato numerose e ravvicinate consultazioni elettorali è possibile individuare motivazioni specifiche non generalizzabili. La più evidente delle motivazioni specifiche la offre Israele: è la sconfinata ambizione di Netanyahu che ha bloccato qualsiasi alternativa nella Knesset e condotto alla sequenza di elezioni anticipate. È altresì possibile sostenere che quanto il Regno Unito ha sperimentato è la conseguenza di clamorosi errori del Premier Conservatore David Cameron. Preferisco, però, andare alla ricerca di fattori che servano non solo a spiegare quanto è già accaduto, ma anche a fornire elementi utili per prevedere quanto potrebbe accadere sia in Italia sia in altre democrazie occidentali. La chiave di volta delle difficoltà di formare i governi, mai automaticamente risolte da rinnovate elezioni, è costituita dalla frammentazione dei partiti e dei sistemi di partito. La conseguenza immediata di questa frammentazione è che, per formare il governo, diventa necessario includere più partiti e che il partito maggiore, il coalition-maker, raramente è molto più grande dei potenziali alleati. Quindi, non può e non riesce a imporre le sue condizioni. Deve negoziare a lungo, in paesi nei quali, come in Grecia e in Spagna, manca quella che Roberto Ruffilli auspicò si affermasse e affinasse anche in Italia: una cultura della coalizione. e quando ritiene di non potere più (con)cedere preferisce il ritorno in tempi brevi alle elezioni.

In Israele il declino dei partiti maggiori ha una storia molto lunga che ha prima condotto alla scomparsa dei laburisti, poi, di recente, alla diminuzione dei consensi per il partito ufficiale della destra, il Likud. Altrove, Grecia e Spagna, gli sviluppi sono stati drammatici. In entrambi i casi, i due partiti maggiori emersi con la transizione alla democrazia e positivamente responsabili per la sua affermazione, sono entrati in un declino elettorale che, in Grecia, ha prodotto la quasi scomparsa dei socialisti del Pasok e, in Spagna, ha notevolmente ridimensionato sia i Popolari sia i Socialisti. Da sistemi politici nei quali la dinamica era bipolare imperniata su un partito molto grande per voti e per seggi, Grecia e Spagna sono diventati sistemi partitici multipartitici nei quali per dare vita a un governo è imperativo formare coalizioni anche larghe. Naturalmente, i partiti che organizzano il loro consenso e danno rappresentanza sono espressione delle mutate preferenze politiche e sociali. Israele quasi da sempre, Grecia e Spagna di recente sono società frammentate per governare le quali sono largamente preferibili, spesso assolutamente necessari governi di coalizioni multipartitiche. In queste coalizioni, talvolta c’è un partito piccolo, ma numericamente decisivo che, ha scritto Sartori, ha “potere di ricatto”. Alcuni partiti piccoli, ma indispensabili, tentano di ampliare il loro consenso attraverso nuove elezioni che, però, raramente, producono esiti risolutivi. Costruire coalizioni coese in molte democrazie parlamentari, ricorderò che l’attuale Grande Coalizione tedesca nacque nel marzo 2018 dopo un negoziato durato all’incirca tre mesi, è diventata una fatica di Sisifo. Ma, chi ha mai sostenuto che governare le democrazie è facile?

Pubblicato il 12 gennaio 2020 su la Lettura – Corriere della Sera

L’Italia non è la Spagna, non c’è un Sanchez italiano

Uso le profetiche parole di Carlo Rosselli pronunciate nel 1936 a Barcellona, aggiungendovi un indispensabile punto interrogativo, per cautelarmi da un paragone che non può che risultare alquanto azzardato. In effetti, di commenti e riferimenti azzardati, anzi, semplicemente sbagliati e fuorvianti, alla Spagna ne abbiamo sentiti molti in questi anni. Qualcuno ricorderà come attorno a Veltroni si affollassero i sostenitori del sistema elettorale spagnolo quasi fosse un toccasana per l’Italia. Di tanto in tanto, faceva capolino la modalità di elezione del Presidente del Gobierno ad opera di una maggioranza assoluta con la sua rimozione affidata a una mozione di censura che ottenesse a sua volta una maggioranza assoluta contro il capo del governo in carica, strumento importante (ma neppure preso in considerazione dai renzian-riformatori costituzionali) dell’invidiabile stabilità dei governi spagnoli fintantoché i due partiti maggiori rimasero a livelli elevatissimi di consenso. Qualcuno, infine, lodava il bipartitismo spagnolo come se fosse “perfetto”, mentre, salvo poche eccezioni, tutti i governi spagnoli dovettero fare affidamento sui partiti regionalisti (da qualche tempo, diventati più esigenti e meno affidabili).

Non tanto paradossalmente, il successo della democrazia spagnola e la sua crescita economica crearono le premesse di grandi aspettative che, travolte dalla bolla immobiliare, colpirono tutto il sistema partitico aprendo spazi a destra, al centro e a sinistra contribuendo in maniera decisiva alla comparsa di nuovi attori politici e dimostrando che non era il sistema elettorale a favorire e puntellare quel quasi bipartitismo. Erano il PSOE e il PP che, organizzati e strutturati, forti sul territorio e con una leadership capace, attraevano il voto. Oggi, la vittoria del socialista Pedro Sanchez non è il prodotto di un’imponente avanzata in termini di voti e il suo PSOE non si avvicina affatto a quello di Felipe Gonzales né a quello di Zapatero.

A fronte del vero e proprio tracollo del Partido Popular, il voto socialista segnala una ripresa le cui motivazioni sembrano essere di due tipi. Da un lato, anche se non eccezionalmente solida e diffusa, la struttura organizzativa del PSOE è ancora in grado di fare politica sul territorio, di andare a mobilitare parti importanti dell’elettorato e a promettere loro in maniera credibile rappresentanza politica e sociale. Dall’altro lato, la leadership di Sanchez, emergente da una breve, intensa e complessa attività di governo ha dimostrato di essere all’altezza delle sfide e di meritare di continuare. Tenuta a bada la sfida della nascente estrema destra di Vox, percentualmente il partito sovranista di minor successo fra quelli sorti negli ultimi anni negli altri paesi europei, i Socialisti spagnoli sanno di dovere costruire con pazienza una coalizione capace di durare affrontando prove non facili, a cominciare da quella delle elezioni europee e a continuare con il consolidamento della crescita economica.

Sono sempre molto circospetto nel trarre lezioni per l’Italia da altri paesi, senza mettere in guardia dalla diversità degli assetti istituzionali. Già l’attuale situazione politica italiana complessiva si presenta molto più complicata di quella spagnola, ma soprattutto è il Partito Democratico che, contrariamente al PSOE, non sembra avere ancora imparato alcune lezioni fondamentali. L’elezione del nuovo segretario ad opera di una platea allargata di votanti non ha prodotto nessuna impennata di mobilitazione e nessuna iniezione di energia. Il nuovo segretario, a prescindere da un suo ruolo non molto di spicco nella precedente “ditta”, non ha rotto con il passato recente e sembra guardare al centro piuttosto che a (ri)disegnare un profilo di sinistra, con la conseguenza di lasciare non poco spazio proprio alla sua sinistra. Privo di una oratoria trascinante Zingaretti non ha nulla che ne faccia il Sanchez italiano e neppure che possa consentirgli di mettere in moto un essenziale processo di ricomposizione delle sparse membra della sinistra italiana. Carlo Rosselli non potrebbe che constatare che la Spagna è lontana e non ha praticamente nessuna possibilità di prefigurare il domani italiano.

Pubblicato il 29 aprile 2019 su huffingtonpost.it

Una sequenza di errori reciproci #Catalogna

La premessa è che il referendum per l’indipendenza, ovvero, in pratica, la secessione, della Catalogna dalla Spagna è stato dichiarato illegale dalla Corte Costituzionale. Dunque, non si sarebbe dovuto tenere. Però, una volta iniziata la procedura, la sequenza di errori e di esagerazioni da entrambe le parti, governo spagnolo e governo (Generalitat) catalana ha prodotto e continua a produrre conseguenze assolutamente deprecabili. Sarebbe sostanzialmente inutile ricordare che la Catalogna ha sempre avuto delle divergenze con il governo centrale, per ragioni storiche, per la repressione cui fu sottoposta dal franchismo, per la convinzione che troppe sue risorse vadano fuori dai suoi confini a favore di altre regioni spagnole. Tutto questo è vero, ma insufficiente a spiegare l’insistenza del Presidente Puigdemont e della sua compagine di governo per giungere a un vero e proprio distacco dalla Spagna. D’altro canto, il governo centrale, di minoranza, guidato dal capo del Partito Popolare, Mariano Rajoy (i Popolari sono debolissimi in Catalogna), non aveva forse altra scelta che opporsi frontalmente a un referendum che potrebbe aprire la strada a rivendicazioni estreme di altre Comunità autonome (come sono chiamate le Regioni in Spagna), a cominciare dai Paesi Baschi e, addirittura, alla disgregazione della Spagna. L’invio della Guardia Civil a Barcellona e nelle altre città catalane ha, inevitabilmente, comportato scontri fisici con i catalani indipendentisti o che, semplicemente, volevano votare, esprimere la loro preferenza.

Tanto Puidgemont quanto Rajoy sono andati troppo avanti per potersi fermare temendo di “perdere la faccia” che comporterebbe probabilmente perdere il potere politico e la loro carica. Le immagini televisive e fotografiche, quelle trasmesse attraverso la rete, della Guardia Civil che usa la forza per impedire il voto, che picchia i dimostranti, che rovescia le urne, vanno sicuramente a scapito del governo centrale. Bisogna, però, andare oltre quelle immagini. Andando all’indietro, deve rimanere fermo quanto sancito dalla Corte Costituzionale: nessun referendum. Andando avanti s’incontrano due interrogativi complessissimi. Il primo riguarda quale strada intraprendere per giungere a una riflessione tutt’altro che teorica, ma potentemente politica: tutte le minoranze organizzate che abbiano il controllo di un territorio e che siano in grado di invocare una storia, una cultura, una lingua comuni godono automaticamente di un diritto alla secessione? In un’Europa che vuole costruire una comunità sovranazionale federale bisogna passare attraverso l’accettazione di identità subnazionali? In parte, il problema è già stato posto dagli scozzesi, il cui referendum vide, però, la sconfitta degli autonomisti/secessionisti. Il secondo interrogativo concerne il comportamento del governo spagnolo.

Non sarebbe stato preferibile lasciare che i catalani si esprimessero con il voto, democraticamente (anche se in casi come questi la pressione sociale finisce spesso per impedire la totale libertà di espressione del voto) e poi valutare l’esito numerico per procedere a negoziati? Comunque, l’eventuale vittoria del sì avrebbe dovuto essere valutata con riferimento alla percentuale dei votanti e seguita da una riflessione su come tradurla in un processo politico che, come dimostra la Brexit, certo, a un altro livello, sarebbe oscuro e molto denso di complicazioni. I catalani hanno messo in movimento qualcosa di più grande di loro, in maniera che penso sia corretto definire irresponsabile, ovvero senza curarsi delle conseguenze e cercando di addebitarle tutte allo Stato centrale. Nessuno pensi che quanto sta succedendo è colpa dell’Unione Europea né che la soluzione debba venire esclusivamente dalla UE che guarda attonita e preoccupata, ma giustamente non interviene in un delicatissimo scontro interno ad uno Stato-membro. Troppo facile concludere che nulla sarà come prima. Triste pensare che, almeno per qualche tempo, sarà peggio di prima.

Pubblicato AGL il 2 ottobre 2017

Sfida con valori non negoziabili

La Catalogna può vantare una cultura, importante, una lingua, una storia che la rendono in parte diversa in parte, sostengono, più o meno apertamente molti catalani, superiore al resto della Spagna. La Catalogna può anche rifarsi alla pesante oppressione subita durante l’epoca franchista per giustificare sentimenti di rivalsa ai limiti della secessione. Questo è, infatti, il punto. Di autonomia funzionale, finanziaria, in quasi tutti i settori importanti, anche, ad esempio, in quello dell’istruzione, la Catalogna ne gode già moltissima. Tecnicamente, la Spagna è uno stato molto più che decentrato che, proprio per andare oltre il centralismo imposto da Francisco Franco, ha saputo e voluto concedere molti poteri alle comunità regionali. La Catalogna è anche una regione (una nazione?) molto ricca, molto dinamica, luogo di cambiamenti e di innovazioni. Tuttavia, il referendum sul distacco dalla Spagna, poiché di questo si tratterebbe, non è faccenda economico-contabile. Non è egoismo particolaristico. È molto di più (gli oppositori direbbero che è molto peggio). Si fonda e si giustifica con riferimento a valori non negoziabili: l’identità, la diversità, la possibilità di dare totale sviluppo alle proprie capacità. Tutto questo è comprensibile, ma difficilmente valutabile.

L’onda autonomistica si è gonfiata ed è giunta a un livello al quale sembra difficile fermarla. Il governo centrale ha prima chiesto e ottenuto una sentenza della Corte Costituzionale che dichiara illegale il referendum catalano predisposto per il 1 ottobre. Poi, è intervenuto perquisendo uffici, addirittura arrestando alcune delle autorità catalane, annunciando il blocco del trasferimento di fondi da Madrid a Barcellona. Mariano Rajoy, esponente del Partito popolare e Presidente del governo spagnolo (di minoranza poiché ha bisogno dei voti di altri partiti), vuole fermamente mantenere l’unitarietà della Spagna. Al tempo stesso, teme il contagio di una vittoria degli indipendentisti catalani su altre regioni del paese: le Canarie, la Galizia, i Paesi Baschi, l’Andalusia. Non è detto che gli indipendentisti catalani vincano. Infatti, la Catalogna ha, proprio grazie alle opportunità che offre, attratto molti immigranti dal resto della Spagna che il catalano probabilmente non l’hanno imparato, la cui storia e cultura sono sicuramente non-catalane, che non possono avere l’orgoglio dei catalani da sempre o da qualche generazione. Però, Rajoy e probabilmente con lui il resto della Spagna preferirebbero non correre il rischio di una sconfitta dalle conseguenze imprevedibili, ma neppure di una vittoria, che sarebbe comunque alquanto risicata, di coloro che desiderano rimanere con la Spagna.

Non è il caso di fantasticare già sulle conseguenze del distacco della Catalogna da Madrid, per esempio, pensando a inevitabili negoziati per la (ri-)adesione all’Unione Europea, la cui voce non si è ancora sentita, ma le cui preoccupazioni sono note. Non vorrei neppure pensare ad affetti domino: nuovo referendum scozzese argomentato anche per non seguire l’Inghilterra nella Brexit; magari persino il rilancio dei padani ovvero dei Lombardo-Veneti che abbandonerebbero il recente “sovranismo” per tornare all’antico sogno indipendentista/secessionista. Qualcuno potrebbe obiettare che tutti questi eventuali sviluppi configurerebbero un esito di cui si è a lungo dibattuto nel passato: l’Europa delle regioni. In parte, quell’esito è stato conseguito attraverso l’applicazione del principio di sussidiarietà grazie al quale l’Unione ha garantito ampia autonomia ai governi locali che avessero le capacità di adempiere ai loro compiti con successo, intervenendo a loro sostegno soltanto in via sussidiaria. La sfida catalana fuoriesce dal quadro dell’Europa delle regioni. Consiste/rebbe, invece, nel ridimensionamento di uno Stato membro, la Spagna, e nella creazione di un nuovo Stato-Nazione, per l’appunto, la Catalogna libera e indipendente. Tempi oscuri e difficili si preannunciano.

Pubblicato il 21 settembre 2017

Una letale spirale di sfiducia

Una volta avuta la prova che quella di Tsipras in un referendum che non avrebbe mai dovuto indire (altro che prova di democrazia) è stata una vittoria di Pirro, le diciotto democrazie dell’Eurozona hanno concesso al Primo ministro greco una nuova possibilità. Cancellando, alla faccia del “popolo” greco, ovvero di quel terzo che aveva votato “No” alle condizioni del negoziato, i suoi impegni, Tsipras è stato obbligato a fare nuove proposte. In sostanza, ha guadagnato, o perduto, a seconda dei punti di vista (il secondo mi pare più convincente), tempo. Crescono i problemi in Grecia, le banche rimangono chiuse, i debiti accumulano altri interessi. Tuttavia, la proposta greca, non più appesantita dall’ingombrante figura di Varoufakis, va, almeno nelle riforme interne che Tsipras tardivamente promette, nella direzione giusta. Anzi, si pone nel solco dei sacrifici già fatti, con lacrime e sangue, ma anche con successo, da Irlanda, Portogallo, Spagna.

Purtroppo, per Tsipras, per la Grecia e, ahinoi, per tutti paesi dell’Eurozona, ha fatto la sua inevitabile comparsa un altro fattore, finora solo strisciante: la fiducia. Nelle democrazie, come sono tutti i sistemi politici dell’Unione Europea (anche se il capo del governo ungherese Orbàn fa del suo peggio in materia), contano le opinioni pubbliche. I politici più avvertiti tengono grande conto delle loro opinioni pubbliche. Non le insultano; non le ingannano. Se sono capi di organizzazioni partitiche vere, radicate, come si dice nell’italiano politichese, “nel territorio” hanno antenne sensibili che riportano quanto si sente, quanto si muove, quanto si preferisce. Non soltanto i tedeschi, ma molti capi di governo hanno ricevuto dalle loro opinioni pubbliche un’informazione sgradevole, ma, sicuramente, degna di attenzione.

La maggioranza degli europei non si fidano dei greci. Pensa che fanno promesse che non manterranno. Non li ritengono credibili neppure, come scrisse Virgilio nell’Eneide, quando “portano doni”. E Tsipras non ha proprio nessun dono da portare. Al contrario, vorrebbe esenzioni, proroghe, addirittura regali. Per di più con le sue dichiarazioni, da ultimo, con il suo discorso al Parlamento Europeo, ha cercato, in maniera davvero troppo orgogliosa, di scaricare buona parte della responsabilità delle condizioni del suo sventurato paese sulle spalle dei creditori, definendoli “terroristi”, delle banche e dei banchieri e, indirettamente, dei paesi più solidi dell’Unione Europea, di quelli che rispettano le regole e pretendono che tutti lo facciano. Soltanto coloro che rispettano le regole sono poi legittimati a chiedere che siano cambiate, magari spostando le politiche comuni dall’austerità alla crescita.

Se, come sembra, il negoziato all’Eurogruppo scivola dai numeri, dalle riforme, dalle promesse alla fiducia, allora un suo esito positivo appare sempre più difficile, molto improbabile. Non è chiaro se la Germania, non priva di sostenitori fra gli altri stati, desidera davvero escludere la Grecia dall’Eurozona, dandole cinque anni nei quali rimettere in sesto le sue finanze, con una sua moneta e con il pieno controllo della sua economia –per quanto “piena” possa essere l’autonomia economica di un paese piccolo e molto impoverito. Quello che, invece, è lampante è che la mancanza di fiducia reciproca distrugge qualsiasi possibilità di tenere insieme un progetto, quello dell’unificazione europea, nato proprio intorno alla volontà di sei, dieci, quindici, infine ventotto paesi, di credersi parte di uno stesso mondo. Come l’Eurogruppo riesca a uscire dalla spirale letale della mancanza di fiducia è impossibile prevederlo.

Pubblicato AGL il 12 luglio 2015

Un patto contro gli elettori

Sembra che il vero punto unificante del patto del Nazareno fra Renzi e Berlusconi, stilato a gennaio e confermato ieri, consista nel ridimensionamento del potere degli elettori italiani. Il Senato non sarà più elettivo. La sua composizione sarà determinata dai consigli regionali, vale a dire, dai partiti colà rappresentati, certamente, come rivelano i troppi scandali degli ultimi anni, non la migliore delle classi politiche. I nuovi senatori faranno riferimento a chi li ha nominati, non ai cittadini delle rispettive regioni. Aumenteranno le firme per chiedere i referendum abrogativi, da 500 mila a 800 mila, ma anche per esercitare l’iniziativa legislativa popolare, moltiplicate per cinque: da 50 mila a 250 mila firme. Quanto alla legge elettorale, il vero snodo nei rapporti fra gli elettori, i deputati e il governo, sembra che nel migliore dei casi, Renzi e Berlusconi siano disposti ad ammorbidire le soglie per l’accesso al Parlamento, consentendo anche a partiti relativamente piccoli di ottenere seggi, in special modo se si alleano con il Partito Democratico oppure con Forza Italia, ma finora netto è il loro “no” alle preferenze. La motivazione non è detta, ma chiara: perché, da un lato, raccogliendo preferenze, i candidati riuscirebbero a dimostrare di avere un consenso politico personale; dall’altro, una volta eletti grazie alle proprie forze, non sarebbero malleabili dai loro capi partito e pretenderebbero di decidere come votare, magari, addirittura, facendosi portatori delle esigenze, delle preferenze dei loro elettori.

Ecco, il punto: “no”, quindi, alle preferenze che, con il soccorso di alcuni professoroni non soltanto costituzionalisti, costituirebbero “un’anomalia tutta italiana”, espressione di voto di scambio, tramite dei voleri delle lobby, portatrici di corruzione. Non importa che siano tutti fenomeni raramente provati e, in alcune aree del paese, inesistenti. Importa che, in assenza del voto di preferenza, il potere di nominare i parlamentari rimarrà solidamente nelle mani del declinante Berlusconi e dell’ascendente Renzi. Naturalmente, per riportare agli elettori il potere di scegliere i parlamentari sarebbe sufficiente e molto “democratico” introdurre i collegi uninominali nei quali chi vince cercherà poi di rappresentare tutti gli elettori con l’obiettivo di essere rieletto. In tre quarti delle democrazie europee, variamente congegnata, è garantita agli elettori la possibilità di esprimere una o più preferenze nell’ambito della lista di candidature presentata dal partito prescelto. L’elenco è molto lungo. Riguarda, con poche differenze pratiche, tutti i paesi scandinavi: Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia (incidentalmente, sono i sistemi politici nei quali c’è meno corruzione in assoluto). L’elenco contiene anche le nuove democrazie dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania e della Polonia e vecchie democrazie come Belgio Lussemburgo, Olanda.

Fra le ventotto democrazie occidentali prese in considerazione (nell’analisi del mio allievo Marco Valbruzzi), ventitré concedono ai loro elettorati la possibilità di intervenire in maniera incisiva, in collegi uninominali oppure esprimendo un voto o più di preferenza, sulla scelta del o dei candidati che andranno a rappresentarli in Parlamento. Dunque, il voto di preferenza, sul quale in Italia si tenne anche un referendum popolare nel giugno del 1991, non costituisce affatto “un’anomalia tutta italiana”. Al contrario, l’Italia si trova adesso nella compagnia di una minoranza di Stati che hanno liste bloccate: Bulgaria, Croazia, Portogallo, Romania, Spagna. Non è il caso di andare a valutare il grado di soddisfazione dei cittadini di quei sistemi politici sul funzionamento delle loro democrazie. Sappiamo che gli italiani sono fra i più insoddisfatti ed è davvero azzardato pensare che la nomina dei parlamentari ad opera dei capi dei partiti non sia una delle motivazioni dell’elevata insoddisfazione. Non sarà il voto di preferenza a salvarci, ma avendolo e utilizzandolo gli elettori sarebbero almeno consapevoli che il miglioramento della politica dipende anche da chi votano.

Pubblicato AGL 7 agosto 2014

Liste bloccate? ma mi faccia il piacere!

Il voto di preferenza è, come sostengono alcuni professoroni non soltanto costituzionalisti, “un’anomalia tutta italiana”?

Sbagliato!

Come dimostra chiaramente la tabella preparata dal mio allievo Marco Valbruzzi, soltanto quattro paesi su ventuno condividono quella che non è “un’anomalia”, ma una scelta politicamente e elettoralmente rilevante.

Per non consegnare i prossimi parlamentari nelle mani di Renzi e di Berlusconi, la battaglia per almeno una preferenza è cosa buona e giusta.

clicca sulla tabella per espanderla

tabella Valbruzzi

Se escludiamo i casi in cui la “rappresentanza personale” deriva dal collegio uninominale (Francia, Regno Unito, in parte Germania e Ungheria) o dal ricorso al Voto Singolo Trasferibile (Irlanda e Malta), i paesi che restano fuori, a far compagnia all’Italia, sono: Spagna, Portogallo, Romania, Bulgaria e Croazia.

A chi deve passare la voglia di proporzionale?

Sostiene il sindaco di Firenze, che si candida rumorosamente a diventare sindaco d’Italia, che gliela farà passare lui la voglia di proporzionale a quelli che ne vorrebbero il ritorno. Qualcuno dovrà pur dirgli che l’attribuzione dei seggi nei consigli comunali, anche in quello di Firenze, avviene con un sistema proporzionale e che, comunque, complessivamente, il sistema per eleggere i sindaci delle città al disopra dei quindicimila abitanti è proporzionale con premio per il candidato che vince al ballottaggio. La voglia di proporzionale dovrebbe essere fatta passare anche al Professore plagiatore. Infatti, quello che propone D’Alimonte (e che la Bindi presenta come proposta di legge della sua corrente) è un sistema proporzionale, chiamato doppio turno di coalizione, con premio di maggioranza che in parte ricalca il tanto criticato sistema elettorale vigente, il vispo, vivace e vitalissimo Porcellum. Il Professore plagiatore è addirittura arrivato a teorizzare che esiste una via italiana ai sistemi elettorali. E’ lastricata (l’aggettivo è, ovviamente, tutto mio, in attesa di plagio) da sistemi elettorali proporzionali con premi di maggioranza: legge Acerbo 1924; legge truffa 1953; legge Calderoli et al. 2005. Nessuno di questi sistemi è propriamente qualcosa di cui andare fieri né, peggio, qualcosa da prendere ad esempio, modello da suggerire ad altri.
A coloro che vogliono fare passare agli altri la loro stessa voglia di proporzionale consiglierei comunque di studiarsi un po’ di sistemi elettorali europei. Vedranno allora che, in rigoroso ordine alfabetico, Danimarca, Germania, Norvegia, Spagna e Svezia hanno ottimi sistemi elettorali proporzionali. Sarebbe anche doveroso, dunque, non demonizzare i sistemi proporzionali delle democrazie che funzionano di gran lunga meglio dell’Italia, ma dedicare qualche energia intellettuale a studiarli, capirli, eventualmente imitandoli. Per coloro che non hanno nessuna voglia di proporzionale, nelle sue numerose varianti, soprattutto per coloro che si trovano dentro il Partito Democratico o si trovano a “passare per caso” (o per desiderio di un partito che voglia cambiare le regole), vale un semplicissimo, elementare suggerimento: il doppio turno in collegi uninominali con clausola di passaggio al secondo turno. Per coloro dentro il PD questa è tuttora la proposta ufficiale del partito. In Francia, cinquantacinque anni fa, il doppio turno nei collegi uninominali ha sepolto la proporzionale e potentemente contribuito a ristrutturare il sistema dei partiti. Per coloro che passano per caso nei pressi del PD un accorato invito: provino a disegnare un sistema maggioritario migliore con due vincoli. Primo, imprescindibile necessità di collegi uninominali nei quali candidati ed elettori ci mettano regolarmente la faccia. Secondo, nessun recupero proporzionale di nessun tipo, neppure di quelli mascherati sotto forma di improponibili “diritti di tribuna” (il Parlamento non è una tribuna per retori stentorei e scomposti). Messi da parte i loro slogan, i volonterosi anti-proporzionalisti soddisfino, se hanno sufficienti conoscenze, la nostra voglia di saperne di più e di fare meglio.