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Il partito post-Leopolda
Davvero è possibile parlare di due partiti democratici: uno che si è riunito alla Leopolda (il partito di governo) e uno che ha sfilato con la CGIL a Roma (il partito di lotta)? Sono due partiti incompatibili, destinati a lasciarsi in occasione del prossimo scontro parlamentare sulla legge che traduce i principi della delega al governo sul lavoro e sulla modifica dell’art.18? Dove andranno gli scissionisti i quali sono, per definizione, quelli che abbandonano il segretario del partito? Tuttavia, riflettendo un po’, si direbbe che è proprio Renzi, con i suoi entusiasti sostenitori, ad avere orgogliosamente creato un nuovo partito democratico. Il suo Partito della Leopolda è, dicono gli appassionati seguaci, il partito del 41 per cento (alle elezioni europee, 11 milioni e centomila voti), ma i “vecchi” avevano pur sempre ottenuto con Veltroni 12 milioni e centomila voti nelle elezioni politiche del 2008 (non il 25, come li accusa Renzi, ma il 33,2 per cento). Nello spappolamento della destra e nel declino più che fisiologico del partito di Berlusconi, il Partito Democratico di Renzi appare dominante ed è persino diventato punto di attrazione per alcuni parlamentari di SEL e per diversi espulsi da Grillo dei quali è difficile dire quanti voti porterebbero.
Renzi sembra deciso, almeno questo è il messaggio, nel tono e nei contenuti del suo discorso forse fin troppo “caricato” dall’atmosfera torrida della Leopolda, a spingere fuori dal PD la vecchia guardia. Fermo restando che nient’affatto tutti quelli che dissentono da Renzi sono inclini ad andarsene, quali sarebbero le conseguenze politico-elettorali di una scissione? Per cominciare, bisogna chiedersi se chi se ne va riuscirà davvero a portare via voti al PD. E’ possibile intravedere tre dinamiche diverse nell’ambito dell’elettorato che ha votato Partito Democratico o che intrattiene l’idea di votarlo prossimamente. Primo, ci sono vecchi elettori, vale a dire, di lunga data, che ne hanno ingoiate di tutti i colori, ma che sempre e comunque votano il Partito, per l’appunto con la P maiuscola, a prescindere da qualsiasi cambiamento: uno zoccolo duro, ristretto, ma esistente. Secondo, ci sono elettori democratici mobili che sicuramente fornirebbero appoggio agli eventuali scissionisti, ma esclusivamente se chi se ne va dal PD è capace di darsi molto rapidamente una struttura organizzata su scala nazionale.
Curiosamente, è proprio l’andamento lento e debole delle iscrizioni al PD che costituisce un ostacolo alla comparsa di un partito degli scissionisti. Chi non si iscrive più lo fa perché non condivide il percorso di Renzi, ma probabilmente ha anche preso atto che non c’è più niente da fare, neppure con la vecchia guardia. Infine, ci sono gli elettori che, abbandonando il PD, si guardano intorno e vedono l’attivismo, non sempre brillante, ma già condiviso da persone che conoscono, delle Cinque Stelle. Per irritazione, per voglia di dare una lezione a Renzi, per obbligare il PD ad essere più “radicale”, questa parte di elettorato è pronta a votare il Partito di Grillo. Se no, l’astensione diventerà il luogo del loro rassegnato rifugio.
Quantitativamente, l’esito complessivo del deflusso degli elettori già democratici, non sarà rilevante. Anzi, Renzi potrebbe persino sostenere, come ha già annunciato alto e forte, che il suo nuovo Partito Democratico si lascia alle spalle la nostalgia, che è polvere e cenere, sostituendola con la speranza, con il futuro che è all’inizio. Però, se vuole rimanere convincente e governante, soprattutto in una fase nella quale in pratica nessuna riforma incisiva è stata approvata in via definitiva, il suo attivismo ha bisogno di essere continuamente alimentato con nuovi consensi. Anche soltanto una battuta d’arresto elettorale, per esempio, nelle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna (fine novembre) potrebbe ridimensionare l’entusiasmo e rallentare la spinta al cambiamento. Emarginati i dissenzienti e svilito il loro apporto, confluito o no in un altro piccolo PD, tutto diventerebbe più difficile per il Partito Democratico di Renzi e della Leopolda.
Pubblicato AGL 28 ottobre 2014
Il Pd partito della Nazione è solo una bischerata
Intervista raccolta da Francesco De palo per Formiche.net pubblicata il 22 ottobre 2014
Né partito-nazione né una nuova Democrazia Cristiana, l’unico obiettivo raggiunto da Renzi secondo il politologo Gianfranco Pasquino è di essere l’uomo più popolare del Paese, “andando un po’ dappertutto a raccontare un qualcosa di cui, fino ad oggi, nessuno lo ha chiamato a rendicontare”.
Forma partito ed evoluzione del Pd: può essere davvero il partito della Nazione come dice Reichlin?
Ho soltanto obiezioni. In primo luogo eviterei l’espressione “forma partito”, la trovo hegeliana quindi lontana dal contesto dell’Europa del 2014. Parlerei più di organizzazione, natura, struttura. In secondo luogo eviterei anche la dicitura “partito della Nazione”, perché l’espressione corretta in Paesi come la Germania è partito di popolo. Voglio dire che nessun partito può ambire a rappresentare una Nazione: quella sarebbe una visione totalitaria, come il Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Capisco che in questo momento essa possa essere un’ambizione ma la peso come dotata di scarsi connotati democratici.
Sta di fatto che il Pd è il principale partito italiano al momento…
Se partito della Nazione significa il partito che oggi è più grande va bene, prendiamolo per buono, ma nel merito non nella terminologia, perché le parole hanno delle conseguenze. Se il riferimento, poi, vuol essere alla Democrazia Cristiana, beh quello era un grande partito interclassista che coinvolgeva più ceti sociali. Questa è un’ambizione legittima, ma la si può perseguire evitando l’espressione “partito-Nazione” semplicemente perché in una Nazione è meglio che ci sia più di un partito.
E’ un partito all’americana quello che sta delineando Renzi con l’invito a ex vendoliani ed ex montiani a farne parte?
Quelli americani sono partiti che si trovano in 50 Stati: non c’è un partito Democratico, ma uno in ogni Stato con un debolissimo organismo di coordinamento a livello federale a Washington. Lì i partiti sono il prodotto della legge elettorale, un sistema maggioritario in collegi uninominali, che non è per nulla il sistema a cui pensano Renzi e i suoi non particolarmente brillanti suggeritori.
Il premier sta realizzando le ambizioni piddì di Veltroni?
Di Veltroni ricordo due ambizioni: la prima quella di diventare il partito più forte della sinistra, quindi l’ambizione maggioritaria. E’ chiaro e legittimo che un partito al di sopra del 30% ambisca a diventare di governo e a volte anche l’unico partito di governo. Ma credo sia fuori luogo credere di potere fare a meno di qualsiasi alleato. Solo con un premio di maggioranza cospicuo Renzi potrà vincere e fare a meno degli altri: questa però non mi pare un’ambizione condivisibile perché un solo partito non può rappresentare tutta la nazione. La dinamica europea in questa fase è sostanzialmente quella dei governi di coalizione, con pochissime eccezioni come la Spagna.
Pensa davvero che Renzi abbia in mente di andare al voto anticipato?
Lo escludo, tra l’altro anche se volesse non ci riuscirebbe. La vecchia legge è stata distrutta dalla Corte Costituzionale, la nuova non c’è ancora e per di più c’è stato un monito che voi giornalisti avete sottovalutato: il Presidente della Repubblica ha detto che la nuova legge deve essere sottoposta alle opportune verifiche di costituzionalità. Quindi non è vero che sarebbe pronto un testo frutto della sentenza della Corte: il Consultellum richiederebbe comunque dei passaggi parlamentari.
Alla fine della fiera quali sono i veri obiettivi di partito di Renzi?
La fiera non è ancora finita, anzi, vedo ancora moltissimi compratori, venditori e soprattutto banditori nella fiera. Credo che Renzi abbia colto un obiettivo: essere l’uomo più popolare del Paese, andando un po’ dappertutto a raccontare un qualcosa di cui, fino ad oggi, nessuno lo ha chiamato a rendicontare. Per cui la fiera continua, ma speriamo che i compratori siano più esigenti e chiedano, almeno, di vedere i cammelli.
Invito alla presentazione a Perugia del libro “Il Pd secondo Matteo”
Dopo “Il partito democratico. Elezione del Segretario, organizzazione e potere“(2009) e “Il partito democratico di Bersani. Persone, profilo e prospettive“(2010), esce nelle librerie il terzo volume dedicato al PD curato da Gianfranco Pasquino e Fulvio Venturino. La presentazione in anteprima, alla presenza dei curatori, è nell’ambito del XXVIII Convegno annuale della Società Italiana di Scienza Politica Perugia 11-13 settembre 2014

Il Partito democratico secondo Matteo
a cura di Gianfranco Pasquino e Fulvio Venturino
BUP – BONONIA UNIVERSITY PRESS
La S. V. è invitata alla presentazione del volume a cura di G. Pasquino e F. Venturino
Il Pd secondo Matteo
Bononia University Press
giovedì 11 settembre 2014 ore 17.30
Sala della Vaccara, Piazza IV novembre – Perugia
Intervengono
Gianfranco Pasquino Professore Emerito Università di Bologna
Giacomo Leonelli Segretario regionale del Pd
Alberto Stramaccioni Università per Stranieri di Perugia
Fulvio Venturino Università di Cagliari
Modera
Maurizio Tarantino Biblioteca Augusta di Perugia
La libertà di scrivere senza censure
Avevo appena pubblicato, fine luglio 1977, il mio primo articolo su un quotidiano (“Il Giorno” diretto da Afeltra), con qualche critica al ruolo del PCI nel governo di solidarietà nazionale guidato da Andreotti che mi arrivò, durissima, la reprimenda dell’allora direttore de “l’Unità”, Emanuele Macaluso. Fu in un certo senso il mio incontro con il quotidiano “fondato da Antonio Gramsci”. Ovvio che lo leggevo già, non tutti i giorni, ma da allora la mia/nostra interazione divenne più frequente: qualche critica in più fino all’invito a collaborare nelle pagine della cultura. Ricordo, su commissione di Ferdinando Adornato, il responsabile di quelle pagine, un necrologio di Raymond Aron nell’ottobre 1983, una recensione al libro, Io, l’infame, del brigatista Patrizio Peci e una riflessione comparata sul fattore K, la tesi di Alberto Ronchey sul perché i comunisti occidentali non sarebbero mai andati al governo in quanto tali.
Non ricordo esattamente quando venni invitato anche a scrivere editoriali, con mia grande soddisfazione e con qualche eco nel corpo dei dirigenti di partito (che leggevano “l’Unità”). Infatti, fui spesso chiamato dal 1985 in poi nelle federazioni a discutere del tema allora dominante (sic): le riforme elettorali e istituzionali. Poiché avevo in sede di Commissione Bozzi suggerito, non il superamento della proporzionale, ma un sistema che arrivasse alla competizione fra due coalizioni con il ballottaggio per ottenere un premio di maggioranza, fui invitato a spiegarlo e a difenderlo in tutte le salse sulle pagine del giornale. Il dibattito era apertissimo anche se la linea ufficiale fu data da due editoriali, a distanza di un anno o poco più, con lo stesso titolo “La proporzionale è irrinunciabile”, firmati da Renato Zangheri e da Nilde Jotti. Qualche anno più tardi dal Presidente della Camera Giorgio Napolitano mi giunse un bigliettino autografo a chiedermi di “rettificare” le critiche che dalle pagine de “l’Unità” avevo indirizzato alla elaborazione del Mattarellum.
Cambiavano i direttori, D’Alema, Renzo Foa, Veltroni, Caldarola, ma, per mia fortuna, tutti continuavano a chiedermi commenti di prima pagina e interventi politici, compresa una recensione non proprio elogiativa ad un libro di Bruno Vespa sollecitatami da Veltroni. Scrivevo frequentemente e liberamente. Non mi fu mai chiesto di cambiare neppure una virgola. Quei direttori tanto diversi fra loro si limitavano a darmi il titolo dell’argomento: svolgimento libero. Nessun mio articolo fu mai cestinato e neppure messo in sala d’attesa per giorni e giorni. Come si capisce, non potrei dire altrettanto di alcune esperienze con altri quotidiani nazionali. Negli anni Duemila non tutti i Direttori che si susseguirono furono interessati alla mia collaborazione. Fui “ripescato” prima da Antonio Padellaro, con il quale intavolammo un dialogo fitto su alcuni miei editoriali, e da ultimo da Luca Landò.
Credo di avere scritto più di cento articoli per “l’Unità” e ne sono lietissimo. E’ stata un’esperienza gratificante di “battaglia” politica a viso aperto, di scambi e scontri di opinione, di diffusione di idee e proposte e di formulazioni, come si conviene al migliore dei giornali “politici”, di soluzioni. So che, non soltanto è troppo facile, ma è persino banale affermare che la cessazione della pubblicazione de “l’Unità” impoverisce in maniera significativa il già non proprio brillantissimo panorama dei quotidiani italiani, ma è decisamente così. In non pochi di questi quotidiani, la politica la fanno i resoconti dei giornalisti intrisi di preferenze politiche e apprezzamenti di leader. Forse, una sinistra che oscilla fra faziosità e tifo e che non dimostra nessun interesse per il confronto cultural-politico si merita di restare senza “l’Unità”, almeno per un po’. Personalmente, ma sicuramente non da solo, ne sentirò la mancanza.
Pubblicato su l’Unità del 31 luglio 2014