Paradoxa, ANNO IX – Numero 1 – Gennaio/Marzo 2015
Conclusione di Un Presidente semipresidenziale malgré lui di Gianfranco Pasquino (qui trovate l’introduzione del curatore e il sommario del fascicolo)
Nella valutazione dell’attività, della performance dei detentori di cariche politiche, in special modo di quelle di vertice, oltre a quanto hanno effettivamente fatto, contano le modalità di uscita dalla carica e il loro lascito. Nel corso del suo primo mandato vanno riconosciuti grandi meriti a Napolitano sia nelle modalità con cui ha rappresentato l’unità nazionale sia per avere consentito e facilitato tutti gli aggiustamenti sistemici derivanti dalla crisi terminale del berlusconismo sia supplendo alle carenze dell’opposizione, ma non per offrirle ruoli che non meritava quanto per preparare il terreno di una competizione politica che desse vita alla nuova fase della Repubblica italiana. Il travaglio seguito alle elezioni del febbraio 2013 e la necessità della rielezione di Napolitano hanno rivelato che la nuova fase non era nata e che rischiava di nascere molto male. L’affermazione della leadership di Renzi ha consentito a Napolitano di pensare (sperare?) che la crisi politica fosse in via di superamento e che un governo ambizioso avrebbe potuto produrre le riforme indispensabili ad ammodernare le istituzioni della Repubblica parlamentare italiana. Il Presidente deve anche avere condiviso con il capo del governo l’illusione di tempi rapidi. Forse ha sperato che le sue programmate dimissioni potessero avere luogo successivamente all’approvazione della riforma elettorale. Certamente, non ha ritenuto soddisfatte le sue aspettative in materia di politica europea dell’Italia, campo nel quale la sua visione europeista non ha eguali (se non con quella di Emma Bonino) fra i politici italiani. Il povero bilancio del semestre europeo di Presidenza italiana non ha meritato nessun commento da parte sua.
In generale, mi pare che Napolitano abbia, da un lato, sottovalutato quanto decisiva sia stata la sua opera di supporto e di supplenza; dall’altro, non abbia voluto prendere atto che molti suoi comportamenti si svolgevano all’insegna di un semipresidenzialismo di fatto. Da parlamentarista non pentito ha respinto ogni ipotesi di riforma in questa direzione. È lecito, però, concluderne che se neppure il Presidente che ha saputo combinare la sua autorevolezza personale con l’interventismo istituzionale è riuscito a mettere il sistema politico su fondamenta più stabili, allora sta scoccando l’ora di una riforma, non unicamente di alcune regole e istituzioni, ma del regime, vale a dire di quella che i giuristi chiamano la forma di governo. Vi sarà modo di riflettere sul futuro della forma di governo, anche facendo riferimento alle qualità e alle capacità del successore di Napolitano. Può darsi che il capo del governo non abbia più bisogno dell’appoggio esplicito, autorevole, frequente del prossimo Presidente della Repubblica. Può darsi, ma appare improbabile, che la tanto cercata governabilità, sotto forma di stabilità, poiché l’efficacia dell’azione di governo dipende dalle capacità del capo del governo e della sua coalizione, sarà prodotta dal sistema elettorale. Se, però, così non fosse, vale a dire, se insorgessero difficoltà e tensioni simili a quelle alle quali Napolitano ha sovrinteso e che ha, di volta in volta, risolto, l’opzione semipresidenziale, elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica con poteri esecutivi e sistema elettorale a doppio turno in collegi uninominali, diventerà tanto più necessaria quanto più problematica da perseguire.


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