Postfazione a Aldo Forbice, Comprare moglie. Cronache di schiavitù e di violenza, Bologna, Centro editoriale dehoniano, 2021
La violenza sulle donne è questione di potere
Gianfranco Pasquino*
Trovo tutte queste storie, molto efficacemente narrate da Aldo Forbice, di donne e di bambine umiliate, sfruttate, torturate e uccise, tristissime. Sono anche disgustose, dire preoccupanti è troppo poco, e tragiche. Padri che vendono le loro figlie a uomini che vogliono carne giovane. Madri che sanno, ma non si oppongono, con ogni probabilità perché hanno imparato che non riuscirebbero a cambiare in nulla la situazione e l’esito. Nonne che sono le depositarie delle pratiche dell’infibulazione la cui tradizione e traduzione perpetuano senza perplessità. Talvolta financo per necessità laddove alle donne non infibulate non è possibile trovare marito. Sappiamo che, da qualche anno, anche grazie alla meritevole opera di sensibilizzazione svolta da Emma Bonino, ma soprattutto per una serie di azioni congiunte di organizzazioni internazionali e di associazioni di donne che nei paesi mussulmani, ad esempio, Nigeria, Afghanistan, Yemen, combattono rischiando la vita, queste pratiche stanno lentamente e gradualmente declinando. Ma non sono affatto scomparse.
Rifletto mestamente, e all’illuminista laico che è in me viene inevitabilmente voglia di attribuire le colpe alle credenze religiose più o meno distorte. Subito mi rendo conto che non è una spiegazione sufficiente e convincente anche se neppure deve essere scartata in toto. Poi tocca a quella parte di marxismo che ho “ricevuto” e che chiunque ha studiato sociologia ha certamente incontrato e ritenuto in qualche modo utile per spiegare come va il mondo. Allora, mi spingo ad affermare che la tratta delle donne dipende anche dalla povertà che, da un lato, è conseguenza dell’accentramento delle risorse in poche mani, dall’altro, effetto del capitalismo imperialista che di tutto si occupò nelle colonie meno che della condizione delle donne. Però, di nuovo sento l’inadeguatezza, pur non totale, di questa troppo semplicistica spiegazione. Che si debba andare alla ricerca dei tratti distintivi del patriarcato come vorrebbero e hanno fatto molte femministe? Non ho dubbi che è necessario ricorrervi, ma immediatamente dopo sorge il problema della spiegazione delle origini del patriarcato e delle ragioni del suo mantenimento e della sua durata –anche fuori dalle situazioni descritte dall’autore. Allora chiamo in causa le mie conoscenze di scienza politica e mi sento giustificato nel sostenere che la condizione delle donne sottomesse, emarginate, sacrificate e uccise dipende, in primo luogo, dal potere. Non soltanto sono gli uomini ad avere il potere, politico, economico, culturale, un po’ dappertutto nel mondo, ma, volendo mantenerlo e esercitarlo vi ricorrono ogni qualvolta lo desiderano a cominciare dalla famiglia e dai rapporti con le donne. D’altronde, chi può riconoscere ad un uomo la qualifica di “potente” se costui non riesce ad esercitare il comando (neppure) in famiglia, nel gruppo etnico, nel villaggio sulle “sue” donne?
Da troppe parti nel mondo gli uomini non riescono ad accettare che le donne abbiano i loro stessi diritti e la possibilità di esercitarli. Anzi, contrastano qualsiasi fenomeno che possa condurre ad una effettiva parità di diritti in tutti i campi: conquista di posizioni di vertice nella società e relativi compensi, opportunità e realizzazioni sociali e politiche. È una storia più che millenaria che, rilevano i dati dell’Indice di Sviluppo Umano, è cambiata soltanto in alcune democrazie, quasi esclusivamente scandinave e anglosassoni (ma non negli USA che, fra l’altro, stanno perdendo la qualifica di “anglosassone”). A leggerli in maniera approfondita e competente, quei dati dicono molte cose, a cominciare dalla stretta correlazione fra, da un lato, istruzione e salute e, dall’altro, eguaglianza di esiti, a continuare con l’accesso delle donne a cariche politiche elevate. Ebbene, hanno proprio ragione le donne, femministe e no, che combattono le loro battaglie per l’eguaglianza all’insegna della parola d’ordine empowerment. L’acquisizione del potere, però, non deve mai dipendere da una più o meno “graziosa” concessione ad opera degli uomini. Quell’empowerment sarà condizionato, precario, revocabile. Bisogna che sia il prodotto di lotte e di vittorie, di conquiste. Dovrebbe anche risultare da attività svolte in comune dalle donne: l’unione fa la forza. Intendo così l’altro termine importante coniato dalle donne: sisterhood (fratellanza), aiutarsi reciprocamente, da sorelle. Però, prendo subito le distanze da quella variante del femminismo che si basa sulla separatezza. Al contrario, utilizzando nuovamente la scienza politica che conosco, sosterrò alto e forte che il potere politico e sociale, ma anche quello economico si conquista e si mantiene riuscendo a costruire, fare funzionare, strutturare e ristrutturare coalizioni di persone che includano anche gli uomini di buona volontà e di provate capacità.
Qui torno alle storie composte e presentate da Forbice. Infatti, il lettore/la lettrice di questo mio testo è del tutto legittimata/o a chiedermi se quanto ho scritto sopra è solo una digressione, spero, comunque, interessante e stimolante, oppure se ha rilevanza anche per i paesi, come l’Italia e altri, nei quali avvengono violenze atroci a scapito e danno, spesso mortale, delle donne. Naturalmente, la mia risposta è assolutamente positiva: sì, anche altrove, sì, anche da noi, ma deve essere argomentata. Dappertutto, ma soprattutto nei paesi in via di sviluppo, l’autonomia delle donne può essere ottenuta attraverso l’istruzione che pone le premesse di un’attività lavorativa grazie alla quale, per l’appunto, le donne potranno liberarsi dalla sottomissione e riusciranno a diventare capaci anche di agire politicamente. A loro volta diffonderanno cultura che è un fattore di cambiamento e che è destinata a colpire il patriarcato. Questi processi possono, anzi, debbono essere agevolati e sostenuti da organizzazioni di donne (e uomini) che già posseggono alcune risorse indispensabili. Molte di quelle organizzazioni saranno essenzialmente occidentali, ma quel che conta sono le modalità con le quali si rapportano alle donne dei paesi non-occidentali e alle loro esigenze.
Ingenuamente, ma caparbiamente, continuo a pensare che, oltre al potere derivante dalle cariche politiche, nei processi di liberazione e emancipazione conti moltissimo il potere delle idee. Il Premio Nobel 2014 attribuito all’attivista pakistana Malala Yousafzai per il suo impegno per l’affermazione dei diritti civili delle donne e per il diritto all’istruzione mi conforta nella mia convinzione. Non necessariamente l’istruzione è mai sufficiente per civilizzare (sì, voglio proprio usare questo verbo) gli uomini nei rapporti con le loro mogli e le loro figlie. Se ho ragione nel credere che quei rapporti riguardano il potere degli uomini bisognerà trovare il modo di ridimensionare fino a eliminare il potere della forza, della violenza. Una società libera è la premessa di una società giusta e una società giusta è tale perché e fintantoché è fondata e costruita sulla libertà. In quella società, se sappiamo mantenerla, potremo procedere alla sensibilizzazione, soprattutto delle nuove generazioni, e all’educazione ad una cultura del rispetto. Tuttavia, di fronte a troppi uomini che non pagano il fio delle loro violenze e la fanno franca, dobbiamo esigere e formulare un sistema di sanzioni rapide e esemplari che punisca quegli uomini senza nessuna attenuante. Impareranno anche gli altri, forse, sperabilmente. Nel frattempo, ben vengano denunce frequenti e documentate, per informare l’opinione pubblica e per gettare luce su quelli che sono tutti da considerarsi veri e propri crimini contro la persona.
Postfazione a Aldo Forbice, Comprare moglie. Cronache di schiavitù e di violenza, Bologna, Centro editoriale dehoniano, 2021
Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica, Università di Bologna. Il suo libro più recente è Minima Politica (UTET 2020). Libertà inutile? Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021).