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Conservatorismo(i) e Progressismo(i): mentalità e pratiche #Progressismo ParadoXa 1/2024

G. Pasquino*, Conservatorismo(i) e Progressismo(i): mentalità e pratiche, in Progressismo. Prospettive criticità attualità, ParadoXa gennaio/marzo 2024 · anno XVIII · numero 1, (pp. 23-35)

The Progressive Era (1896–1917) was a period of widespread social activism and political reform across the United States focused on defeating corruption, monopoly, waste, and inefficiency.

Pongo in testa a questa difficile riflessione su “conservatorismo e progressismo” la sintetica valutazione che Wikipedia esprime su un ventennio molto importante della storia politica degli USA. I progressisti si impegna(ro)no con attivismo sociale e riforme politiche al fine di sconfiggere la corruzione, i monopoli, gli sprechi e l’inefficienza. Noto subito che in nessun modo se ne deve derivare che i conservatori siano disponibili ad accettare l’esistenza, la permanenza e la perpetuazione di quei quattro gravi vizi sistemici. In materia, la linea distintiva fra progressisti e conservatori concerne le modalità con le quali quelle politiche vengono formulate e applicate e da quali coalizioni di interessi e ideali sono sostenute. Troppo facile sarebbe rispondere che, dunque, bisogna contare sulla presenza di uno o più partiti conservatori che si contrappongono a uno o più partiti che si definiscono progressisti per cogliere tutte o quasi le differenze intercorrenti. Nel corso dell’articolo vedremo come meglio procedere a questa distinzione e quale è la sua validità interpretativa.

   In questo mondo del politically correct e della cancel culture, dei fondamentalismi, dei populismi e dei personalismi, andare alla ricerca di idee/ideali politici con fondamenta culturali di una qualche profondità sembra essere un’operazione tanto difficile quanto destinata all’insuccesso. Quando non sono sostanzialmente scomparse (come ho sostenuto a proposito dell’Italia nel fascicolo di “Paradoxa”, Anno IX, n. 4, Ottobre-Dicembre 2015), un po’ dappertutto le culture politiche, in special modo, quelle, classiche, dal liberalismo al socialismo, che hanno segnato i due secoli successivi alla rivoluzione francese, sono diventate tenui, pallide, sostituite da populismi differenziati di molte risme e da fondamentalismi di molte credenze religiose.

Atti di nascita. In questo quadro generale, la dicotomia “conservatorismo/progressismo” ha, per quanto immersa in tempi molto lontani e molto diversi, quelli dell’Illuminismo, una sua specificità degna di nota. Prima di allora, ovvero prima degli illuministi, quella dicotomia era inesistente. Sarebbe, comunque, apparsa priva di senso; era sostanzialmente improponibile. Più in generale, azzardo qui e non riprenderò oltre, la dicotomia conservatorismo/progressismo si sovrappone largamente alla dicotomia “destra/sinistra” non soltanto nella molto nota e importante, peraltro non del tutto esente da critiche, non però distruttive, trattazione che ne ha fatto Norberto Bobbio (Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli, 1994, 2023), ma anche, in misura variabile, nelle pratiche politiche e, a richiesta dei sondaggisti, nelle autoconcezioni e autocollocazioni politiche/partitiche della stragrande maggioranza degli intervistati delle democrazie contemporanee.

In buona sostanza, credo che sia plausibile e corretto sostenere che la dicotomia “conservatorismo/progressismo” nasce attorno alla rivoluzione francese del 1789 e con riferimento a quell’evento, alla sua dinamica e alle sue implicazioni. Con tutte le semplificazioni del caso, che farebbero la felicità di ricercatori eruditi, ma ancora curiosi, quella rivoluzione è anche, sottolineo anche, il prodotto di un pensiero, non esclusivamente politico, ricco e articolato come quello degli illuministi e della loro credenza e fiducia in miglioramenti possibili, nel progresso. Molto, ma non troppo, indirettamente, una fiducia non dissimile può essere trovata nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati che, fra i diritti inalienabili, oltre alla vita e alla libertà, include “il perseguimento della felicità” ovvero, nella mia ardita interpretazione, la ricerca di miglioramenti, dunque di progresso, nelle condizioni materiali e emozionali di vita delle persone.

A riprova delle enormi diversità rispetto alla rivoluzione francese, la rivoluzione americana, forse da intendere meglio come la prima guerra di liberazione nazionale, consentì e facilitò carriere politiche di enorme successo a tutti i suoi figli. Dal canto suo, la rivoluzione francese i suoi figli li divorò tutti in tempi brevi. In un certo senso, seppellì, almeno per qualche tempo, l’idea di progresso e ebbe il merito, assolutamente paradossale, di suscitare l’elaborazione iniziale più compiuta del conservatorismo, quella di Edmund Burke (1730-1797). Da Wikipedia definito “politico, filosofo e scrittore anglo-irlandese”, Burke, severissimo critico della Rivoluzione francese (nel libro Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, 1790) che è possibile considerare come il punto più alto raggiunto da coloro che credevano nel progresso e lo volevano, è il conservatore imprescindibile. Non posso approfondire, ma il bel libro di Yuval Levin, The Great Debate: Edmund Burke, Thomas Paine, and the Birth of Right and Left. New York: Basic Books 2014, offre un’ottima indagine sulle due contrapposte prospettive (Paine,1737-1809, fu illuminista, radicale, combattente nella rivoluzione americana), come furono elaborate, con quante e quali differenze e implicazioni su pensiero e azione.

Segni di vita/lità. Quanto di quella contrapposizione sia rimasta, continui a improntare atteggiamenti e visioni del mondo, faccia parte integrale della politica contemporanea e la influenzi merita di essere esplorato nelle sue ramificazioni e nelle sue manifestazioni contemporanee. Per cominciare, è possibile e utile mettere alcuni punti fermi. Sosterrei, in primo luogo, che il conservatorismo, inteso come pensiero, appare più coerente e più compatto del progressismo. Risulta anche dotato di elementi che poggiano su un terreno di idee e di pratiche più solide del progressismo. Volendo, il conservatorismo è in grado di fare riferimento a un vate dal pensiero forte e a un partito politico, quello inglese, per il quale Burke fu a lungo deputato, partito che dispone di una storia e che ha esercitato significativo potere politico e periodicamente continua a conquistarlo. Mi riferisco, naturalmente, al Partito Conservatore inglese, peraltro noto anche come Tory. Sarebbe facile e probabilmente anche corretto considerare il Partito Conservatore inglese, anche grazie alla sua preminenza e al lungo e frequente controllo e esercizio del potere di governo, come il progenitore di tutti i partiti conservatori, in particolare di quelli che hanno fatto la loro comparsa e che esistono nelle democrazie anglosassoni. In buona misura, è certamente così. Tuttavia, l’osservatore attento non può fare a meno di cogliere, da un lato, accentuazioni molto diverse su alcuni temi portanti; dall’altro, differenze programmatiche non marginali. Approfondimenti convincenti richiederebbero analisi comparate per me improponibili a causa delle difficoltà di individuazione dei più vari tipi di conservatori(smi) a cominciare addirittura dai materiali di base che soltanto gruppi di ricerca ampi e strutturati potrebbero reperire, analizzare, portare a sintesi. 

Non esiste un pensatore del progressismo comparabile a Burke come statura intellettuale tranne se consideriamo gli illuministi francesi, Diderot, Voltaire, D’Alembert, ma non Rousseau, nel loro insieme. In seguito, fu Immanuel Kant a parlare soprattutto di progresso scientifico e delle difficoltà del pure auspicabile e prospettabile progresso morale. Questa distinzione spesso trascurata è cruciale, meritevole di una molteplicità di precisazioni e approfondimenti. Più in generale l’idea di progresso è soggiacente a tutte le teorie della storia formulate come stadi da Charles Darwin, Herbert Spencer e Karl Marx, ciascuno stadio essendo superiore al precedente e quindi rappresentando una evoluzione, termine talvolta preferito a progresso, rispetto al precedente.

   Non intendendo svolgere una ricognizione esaustiva sulle teorie della storia, sicuramente molto al di là delle mie capacità e conoscenze, concludo provvisoriamente sottolineando che la parola progresso non appare nell’indice dei nomi dell’opus magnum di Max Weber, Economia e società. Desidero, però, non soltanto per ragioni disciplinari, fare riferimento ad un conciso libro sullo sviluppo politico, essendo sviluppo a sua volta un termine assimilabile a progresso: A.F.K Organski, The Stages of Political Development (New York, A. Knopf, 1965, trad. it, con il titolo Le forme dello sviluppo politico (Roma-Bari, Laterza, 1970). Purtroppo, il titolo italiano è assolutamente fuorviante e manca clamorosamente il bersaglio. Infatti, prendendo le mosse da un famoso libro di Walt Rostow sugli stadi dello sviluppo economico, offre una efficace analisi del fascismo come “stadio trasformativo” che blocca la democratizzazione, ma al tempo stesso la prelude. Quindi, il fascismo, assolutamente non assimilabile a nessuna variante di conservatorismo, risulta l’inconsapevole e involontario artefice del progresso politico.  

Sopra ho fatto cenno al Partito Conservatore inglese come il padre di tutti i conservatori. Adesso, spostando il tiro sui progressisti mi rendo immediatamente conto che non sono in grado di identificarne un padre. Questa assenza è spiegabile, forse spiegata, dalla esistenza e presenza dei partiti socialisti/socialdemocratici che fanno del miglioramento delle condizioni di vita, del progresso sociale, economico, culturale la ragione stessa della loro esistenza e azione. Queste idee che sono anche obiettivi hanno permeato tutto il secolo XX tanto da farne, come scrisse il grande sociologo Ralf Dahrendorf, il “secolo socialdemocratico”. La fiducia dei socialdemocratici nella scienza si traduce per molti di loro anche nella convinzione che le scoperte scientifiche, la crescita economica, le trasformazioni materiali porteranno a positivi mutamenti culturali, al progresso nell’ambito morale, nelle credenze relative all’eguaglianza e alla giustizia sociale. Per i partiti comunisti, il progresso, in special modo se graduale, era non soltanto insufficiente, ma andando a scapito di una trasformazione più rapida e più profonda, più coinvolgente, forse anche irreversibile, vale a dire la rivoluzione (come presupposto per la comparsa e affermazione dell’homo novus), era da criticare, condannare, contrastare. Nessun “progresso” avrebbe portato prima o poi alla rivoluzione. È la nota contrapposizione “riforme contro rivoluzione” per la quale rimando al piccolo denso saggio del socialista Antonio Giolitti (Torino, Einaudi, 1957). Qualsiasi progresso sociale, economico, politico rischiava di rendere più improbabile e più difficile la rivoluzione, la rimandava sine die. Tuttavia, sta al cuore del marxismo stesso l’idea che gli stadi della trasformazione storica condurranno al punto più elevato, il comunismo, il massimo di progresso concepibile e realizzabile.

Esemplificazioni random. Per saperne di più mi pare utile rincorrere e mettere in evidenza senza nessuna pretesa di sistematicità alcune manifestazioni di progressismo e di conservatorismo. Negli USA, qualsiasi riferimento al socialismo, persino prima della rivoluzione bolscevica, suscitava reazioni molto negative (continua a farlo). Peraltro, nel 1901 fece la sua comparsa il Partito Socialista d’America (sciolto nel 1973) dal quale nel 1919 nacque il Partito Comunista d’America. Non si deve sottacere l’esistenza di un partito progressista portatore dell’ottimismo delle possibilità nel futuro spesso attribuito più in generale alla cultura politica USA. La storia del Progressive Party negli Stati Uniti si colloca all’interno della Progressive Era (1896-1917) un periodo, ripeto la citazione da Wikipedia messa in testa a questo articolo, di “diffuso attivismo sociale e riformismo politico” inteso a sconfiggere “la corruzione, i monopoli, lo spreco, l’inefficienza”. Su quest’onda di proteste e di obiettivi mobilitanti, mirando a trarne profitto politico nacque nel 1912 il Progressive Party, prodotto di una scissione del Partito Repubblicano. Subito presentò un suo candidato alle elezioni presidenziali nello stesso 1912. Lo fece ancora nel 1916 e nel 1920. La personalità più nota, più duratura e influente ne è stato il governatore del Wisconsin, poi anche Senatore, Robert M. La Follette. Qui trovo opportuno rilevare e sottolineare che, in un certo senso, negli Stati Uniti il pragmatismo di John Dewey (1859-1952) può essere interpretato come la filosofia politica del progressismo. In forma diversa, sarà un altro Progressive Party a costituire il veicolo politico-organizzativo di Henry A. Wallace, già Vice-Presidente del democratico Franklin D. Roosevelt, nelle elezioni presidenziali dl 1948 con una prestazione molto mediocre.

   Nello stesso periodo, il conservatorismo caratterizza pensiero e azione dei Presidenti Repubblicani Warren Harding (1921-1923), Calvin Coolidge (1923-1929) e Herbert Hoover (1929-1933). Anche in questo caso non ho lo spazio per approfondire, ma negli ultimi vent’anni il forte spostamento a destra dei Repubblicani ha fatto del loro partito il veicolo di politiche tecnicamente reazionarie: non solo conservare, ma tornare indietro. La filosofia giuridica prima che politica che sottende questo spostamento è definita originalismo, utilizzato come principio dominante, se non esclusivo, per l’interpretazione della Costituzione USA. Furbescamente, il Presidente George W. Bush (2000-2008) cercò di ridefinire le sue politiche attribuendole ad una visione di “conservatorismo compassionevole”. Immagino che il contrario sia il conservatorismo punitivo, forse crudele, dal quale Bush intendeva prendere le distanze. Non è questo il luogo per stabilire se vi sia riuscito, ma certo “compassionevole” non è aggettivo che si possa usare per la visione conservatrice di Donald Trump, prima, durante e dopo la sua Presidenza.

Per contrastare questa visione la propaganda democratica enfatizza che il Presidente Biden e la Vicepresidente Harris stanno lavorando sodo spingendo per il progresso (Newsletter digitale Team Joe, 21 ottobre 2023). Come esponenti di un partito mai noto per la sua compattezza, se non nell’era rooseveltiana (1932-1948), i Democratici continuano nella loro politica, diventata sempre più complicata, di costruzione di alleanze, ma al loro interno hanno fatto comparsa, da un lato, il Sen. Bernie Sanders con la sua convinzione della necessità di una “rivoluzione politica”, dall’altro, donne e uomini giovani eletti alla Camera dei Rappresentanti che si fanno vanto dell’etichetta di Progressisti. Anche da questo sviluppo ben si comprende come la politica USA si sia fortemente polarizzata. Progresso è andare oltre le politiche esistenti, più avanti, mentre lo slogan trumpiano di grande successo Make America Great Again (MAGA) fa riferimento ad un passato di (quasi sicuramente esagerato) splendore politico, economico e militare, come obiettivo da recuperare. Attorno a questo slogan si raccolgono tutti i conservatori, prevalentemente bianchi di mezz’età e più che quel passato hanno sperimentato, lo rimpiangono, pensano possa essere ricostruito e vedono in Trump il ricostruttore.  

   Per quanto nient’affatto esaustive e necessariamente aneddotiche, ma non prive di rilevanza e capacità suggestiva, le indicazioni e considerazioni contenute nella panoramica condotta fin qui dovrebbero avere il pregio di segnalare la difficoltà di contrapporre limpidamente conservatorismo a progressismo, con il primo che sembra mostrare maggiore coerenza e profondità. In tempi recenti le dinamiche politiche hanno aggiunto specificazioni che comportano maggiore confusione, talvolta vere e proprie manipolazioni intese a conseguire qualche vantaggio politico-elettorale. Mi limito a poche esemplificazioni che ritengo probanti. In Danimarca del 1972 e in Norvegia dal 1973 è attivo un Partito del Progresso il cui nucleo programmatico è costituito dalla riduzione delle tasse. Altrove, ad esempio in Italia, la riduzione delle tasse è, abitualmente, uno degli obiettivi più spesso dichiarati, ancorché raramente conseguiti, dei parti di destra, conservatori.

Su un piano diverso, nel contesto italiano, il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer fece scandalo quando nel 1978 dichiarò di essere al tempo stesso conservatore e rivoluzionario. Pochi notarono che anni prima, nel 1943, era stato il grande filosofo liberale Benedetto Croce a definirsi politicamente facendo ricorso agli stessi aggettivi che, a parere di molti, sono inconciliabili.

   Dal canto suo, l’attuale Presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni è anche orgogliosamente presidente del Gruppo Conservatori e Riformisti Europei il cui asse portante è la difesa, forse anche il recupero, della sovranità nazionale. Lo dirò meglio: “conservare” la sovranità nazionale contro il progressivo scivolamento sovranazionale e federalista dell’Unione Europea.

Una concettualizzazione accettabile. A questo punto, dopo avere indicato en passant, in maniera mai sistematica, ricorrendo al non-metodo che in inglese si chiama cherry picking, non posso più eludere l’approfondimento concettuale. Piuttosto che procedere a dotte disquisizioni relative alle motivazioni di Croce e di Berlinguer, credo che sia giunto il momento di definire conservatorismo e progressismo con riferimento al loro rispettivo pensiero (politico, sociale, economico, culturale, istituzionale). La procedura corretta mi pare debba consistere nel delineare quelle che chiamerò le sindromi di conservatorismo e di progressismo. La fonte essenziale per il conservatorismo non può, come ho già scritto, che essere il pensiero e l’elaborazione di Burke. Per lui, il conservatorismo si caratterizza come un insieme di tradizione, autorità, gerarchia, ordine e prudenza. In un certo senso, si tratta di credenze e atteggiamenti che furono travolti dalla e nella rivoluzione francese. La tentazione di definire il progressismo come tutto il contrario deve essere contrastata e respinta. Però, prima di essere più precisi nella chiarificazione della sindrome propria del progressismo che dalla rivoluzione francese in poi ha continuato a cambiare, è opportuno chiarire i contenuti dei principi del conservatorismo.

Non credo possano esserci dubbi e contestazioni su due premesse che considero essenziali, fondanti. Prima premessa: il conservatorismo tiene in grande conto il passato e cerca di preservarne e di trasmetterne gli aspetti migliori. Nel progressismo si trovano opinioni diverse che, tuttavia, convergono su un punto importante: il passato deve essere superato affinché si possa perseguire e costruire il futuro. Fra i progressisti c’è anche la convinzione che quel futuro sarà migliore. Nello spesso citato titolo dell’autobiografia pubblicata postuma di un antifascista comunista francese Gabriel Péri,: Les lendemains qui chantent, si trova la forte convinzione di un futuro radioso che, nel tempo, ha ispirato molti progressisti. Mentre scrivevo quest’articolo mi sono imbattuto nella frase “dobbiamo essere acerrimi avversari della paura di futuro” pronunciate dalla segretaria del PD Elly Schlein al Congresso dei Popolari, il 2 dicembre 2023. In effetti, è oramai da qualche tempo che i progressisti manifestano qualche perplessità sul futuro, anche/proprio quello che dovrebbero offrire e illuminare per i loro concittadini.

In un certo senso, il conservatorismo, in special modo nelle società democratiche in trasformazione, sembra avere buon gioco. Può farsi forte della necessità di preservare valori e stili di vita che larga parte della popolazione conosce, con i quali è cresciuta e, grazie ai quali, ha probabilmente già almeno un po’ migliorato la sua vita. Rispetto delle tradizioni, ossequio alle autorità, preferenza per l’ordine costituito, accettazione delle regole, delle procedure e delle istituzioni esistenti. Per quanto necessariamente schematico il trittico Dio, Patria e Famiglia, sintetizza il blocco di credenze che innerva il conservatorismo. Bisognerà, poi, vederne la manifestazione e l’impatto, certamente differenziati, nei vari sistemi politici e anche le rivisitazioni e gli aggiornamenti. In alcuni casi, gli sviluppi dipendono dalle sfide provenienti dai fatti nuovi e dalle reazioni, più o meno forti, a seconda dell’esistenza di partiti e di personalità politiche, intellettuali, religiose che difendano e argomentino il conservatorismo.

   Le sfide, alcuni studiosi le raggruppano e le etichettano come secolarizzazione e modernità, colpiscono al cuore la religione, la nazione, la famiglia tradizionale. I più abili dei conservatori si adeguano flessibilmente senza cedere il punto e approntano risposte, finora, almeno in parte, non prive di successo. Definirò questo successo con riferimento a due parametri: primo, riaffermare la validità del trittico “Dio, Patria, Famiglia” con opportune declinazioni; secondo, opporre ostacoli e rallentare i cambiamenti pure inevitabili. Al proposito, sento che per illuminare le differenze fra conservatorismo e progressismo vi sarebbe l’esigenza di riflettere da una pluralità di prospettive sul multiculturalismo, come è stato definito, come è stato applicato, come è stato valutato, quale è la sua condizione attuale (non proprio brillante).

Sarebbe un errore pensare che il progressismo non sia consapevole della forza, trainante o frenante, della triade “Dio, Patria, Famiglia”. Non è sbagliato, invece, sottolineare che i i valori del progressismo non sono stati delineati in antitesi alla triade che attribuisco al conservatorismo. Si può sostenere, però, che nel confronto si sono palesati comportamenti diversi, non definibili come una strategia elaborata. In estrema sintesi: molto raramente combattere a viso aperto quei valori; spesso consegnarli all’oblio e alla (illusoria) irrilevanza; semplicemente andare oltre senza riferimenti espliciti di nessun tipo o quasi. D’altronde, il progressismo è ovvero intende presentarsi e dipanarsi all’insegna di un obiettivo sovrastante: la costruzione del futuro, costitutivamente di un futuro migliore. Al proposito, intraprendo un’operazione dalla quale i progressisti si tengono lontani: spiegarne l’atteggiamento nei confronti di ciascuno degli elementi della triade.

“A ciascuno il suo Dio” non è soltanto il riconoscimento da parte dei progressisti dell’irrinunciabile pluralismo religioso, ma anche la manifestazione di una loro indifferenza, che i conservatori non mancano di criticare, nei confronti di importanti valori religiosi. Separazione Stato/Chiesa che è anche separazione fra politica e religione, fondamento dei regimi teocratici (Iran), ma anche religione instrumentum regni nelle mani di autocrati fra i quali spicca il Presidente turco Erdogan, ma il cui paradigma è rappresentato dall’Arabia Saudita. Per quanto non sia in nessun modo possibile affermare che, di per sé, i progressisti non abbiano amor di patria (in Italia, il progressista Maurizio Viroli ha scritto pagine importanti in materia), il loro internazionalismo (“proletari di tutto il mondo unitevi”) e la loro preferenza, in particolare in Europa, per la cessione di parte della sovranità nazionale e di condivisione della sovranità a livello quasi federale, offrono il fianco ai sovranisti che fanno appello ad affetti primordiali (di cui non si possono negare derive nazionaliste). La famiglia tradizionale è oramai minoritaria non esclusivamente in tutti regimi democratici, ma, mentre i conservatori cercano in ogni modo di sostenerla e di salvarla, molto (troppo?) spesso il messaggio dei progressisti sembra essere duplice: i) mettere sullo stesso piano della famiglia tradizionale tutte le più variegate forme di convivenza, ii) incoraggiare qualsiasi modalità di convivenza non tradizionale e, implicitamente criticare coloro che manifestano preoccupazioni e perplessità, vantarsene e vantarle, quasi prefigurassero un futuro migliore.

Non finisce qui. Giunto è il momento di tirare le somme di un discorso, di una comparazione, di un confronto/scontro che sono tutti destinati a fluttuare e rimanere aperti e controversi poiché la vittoria definitiva degli uni o degli altri sfocerebbe nel totalitarismo. Non sono convinto che il conservatorismo sia, come ha scritto Antonio Polito nel suo articolo Dare voce all’Italia conservatrice. Tre ricette per una svolta politica (“Corriere della Sera”, 2 novembre 2023, p. 37: un “consapevole moto volto a governare il processo della modernità, che non ne discute le premesse e i paradigmi, ma cerca di ricondurlo in un alveo sostenibile”; Dirò che il conservatorismo parte avvantaggiato: conservare risulta molto spesso più facile che innovare. Mantenere quello che abbiamo, a cominciare dai valori e dagli stili di vita, costa meno sforzi e implica meno rischi di impegnarsi in trasformazioni mai prima tentate. Convincere i propri concittadini della bontà di un futuro sconosciuto tutto da costruire è operazione che dovrebbe fare tremare le vene ai polsi, non importa quante vene né quanti polsi, anche se i progressisti sanno che l’unione fa la forza, ma il futuro si costruisce non con la forza, ma con l’egemonia culturale, anche transeunte. I progressisti sanno anche, o dovrebbero imparare che il progresso che propongono richiede una definizione chiara e convincente degli obiettivi da perseguire, che bisogna volere e riuscire a distinguere cambiamento da miglioramento, che non esiste un solo futuro possibile, che le riforme che non costruiscono il futuro preferibile debbono essere rapidamente riformate.

Conservatorismo e progressismo non sono più, ma forse non lo sono mai state, vere e proprie ideologie. Certamente, Burke avrebbe sdegnosamente, con ragione, respinto il termine ideologia per caratterizzare il suo pensiero conservatore. A loro volta, anche i socialdemocratici scandinavi, a mio parere esemplificativi del punto più alto di elaborazione culturale e pratica politica del progressismo, non hanno proceduto a elaborazioni di natura ideologica.

   Per entrambi faremmo meglio a ricorrere al concetto di mentalità, al plurale, intese come insiemi di idee non in contraddizione che si mescolano liberamente con alcune altre idee, raramente le stesse, che di tanto in tanto acquisiscono la preminenza. Queste considerazioni valgono anche per i rapporti di quelle mentalità con il mercato e con la scienza, tematiche importantissime, ciascuna delle quali meritevole di affascinanti ricognizioni, qui non possibili.

Per entrambi, il nucleo è sufficientemente chiaro e distinto. Non cambia. Il contorno aggiungerà di volta in volta gli elementi più appropriati, mai tali da scalfire il nucleo, per lo più in condizione di aggiornarlo e di arricchirlo. Questa relativa, sottolineo relativa, flessibilità dei concetti di conservatorismo e progressismo ne spiega la durata nel corso del tempo e, nonostante cambiamenti epocali nell’ambiente, il loro appello (appeal) contemporaneo, quello del conservatorismo superiore al progressismo, in situazioni molto diverse.       

Coda Quando mi ero convinto di avere trattato conservatorismo e progressismo con la dovuta cautela, con le necessarie distinzioni, con opportuni esempi e selezionati riferimenti, mi è tornata in mente un frase che lessi una trentina/quarantina d’anni del grande intellettuale al tempo molto famoso e citato Daniel Bell, docente di sociologia a Harvard per decenni a partire dal 1970, autore di molti libri due dei quali particolarmente importanti: La fine delle ideologie (1959) e L’avvento della società post-industriale (1973), entrambi rilevanti tanto per i progressisti quanto per i conservatori. Non sono riuscito a trovare la fonte che neppure la Treccani indica. Probabilmente in una delle numerose interviste che era quasi obbligato a concedere, prezzo della sua fama, nel 1983, Bell si autodefinì: “socialista in economia, progressista in politicaconservatore in cultura“.

Non ritengo che questa definizione che fa riferimento sia al progressismo sia al conservatorismo come componenti capaci di convivere negli atteggiamenti e nelle convinzioni di una persona(lità) ponga una pietra tombale sull’utilità di distinguere principi e valori, luoghi e sedi. Non preclude il lavoro di chiarificazione concettuale. Anzi, lo spacchettamento “economia, politica, cultura” vi prelude ingegnosamente. Vi colgo un richiamo alto e esplicito alla complessità di entrambi i concetti e delle loro manifestazioni. In sostanza, non finisce qui.

*Gianfranco PASQUINO (1942) torinese, è Professore Emerito di Scienza Politica nell’Università di Bologna e Socio dell’Accademia dei Lincei. Nella legislatura 1994-1996 è stato un inquieto Senatore del Gruppo Progressisti. I suoi libri più recenti sono Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021); Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022) e Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve, (UTET 2023). Ha altresì curato il volume Fascismo. Quel che è stato. Quel che rimane (Treccani 2022).


1 commento

  1. Avatar di francopis francopis ha detto:

    Gent. Prof. Gianfranco Pasquino,

    Giusto, conservatorismo e progressismo non sono ideologie, ma mentalità. E  questo, ossia quello delle correnti di pensiero e non delle ideologie, è in effetti il solo ambito in cui i partiti e movimenti politici possono oggi trovare riferimenti identitari.

    Questo perché sarebbe incostituzionale la proposizione e programmazione di ideologie del dover essere dello Stato e della società in contrasto con il compromesso ideologico fra liberalismo e socialismo adottato nella Costituzione vigente.

    La questione è che la mentalità conservatrice è in politica  istituzionalmente reazionaria e restauratrice e in cultura contraria al libero pensiero (legalità e ordine è il suo motto), e la mentalità progressista è in politica utopistica (mira alle inconoscibili  magnifiche sorti e progressive)  e in cultura è indifferente alla gran parte dei fondamenti etici della società.

    I partiti e movimenti politici farebbero bene a prendere le distanze da queste discutibili mentalità, attestandosi invece sulla linea indicata nella Costituzione: proporre e programmare nel contesto dell’indirizzo politico nazionale.

    Distinti saluti, Franco Pischedda

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