Pubblicato ne “il Mulino” n.2/2025 pp. 98-105

“Sono un europeo nato a Torino”. Da una ventina d’anni faccio uso di questa frase dopo averla sentita pronunciare da uno studente della Johns Hopkins al quale, per fare una domanda nel corso di una conferenza, era stato chiesto per l’appunto di “identificarsi”. Nella sua riposta e nella mia “appropriazione”, non c’è nessun rigetto della identità nazionale. Sicuramente, c’è una presa di distanza da troppe fastidiose e pompose dichiarazioni di orgoglio nazionale. Soprattutto c’è consapevolezza che oramai da qualche decennio siamo entrati tutti in una fase storico-politica che richiede di (sapere) andare oltre qualsiasi nazionalismo, la degenerazione più frequente e più pericolosa delle identità nazionali, e c’è anche l’auspicio pensieroso (thoughtful wishing) che ci si impegni a costruire una nuova “superiore” identità, quella europea. Dati di sondaggio dicono che il processo è già spontaneamente stato avviato attualmente riguarda, pur con molte differenze, circa il 10 per cento dei cittadini degli Stati membri dell’Unione.
Non ricordo di essermi mai posto il problema dell’identità nazionale, né della mia né di quella dei miei genitori né dei miei compagni di scuola e di università né di quella dei docenti che ho incontrato ai vari livelli. L’ho sempre data per scontata. Riflettendo a posteriori ho cercato una spiegazione della assenza di problematicità nella mia traiettoria scolastica e nel contesto territoriale, sociale, politico e, in senso molto lato, culturale. Sarò più preciso e argomentativo nel corso di questa esposizione. Cercherò anche di fare, come mi pare opportuno, qualche schematico raffronto assolutamente indispensabile per capire e saperne di più.
Già nella toponomastica torinese c’era una certa idea d’Italia, quella risorgimentale nata e promossa dalla monarchia sabauda. La mia scuola elementare era intitolata allo scrittore Edmondo De Amicis. I miei compagni di classe erano tutti italiani, torinesi o dei dintorni, di classe media, di piccola borghesia, qualcuno figlio di artigiani e di operai. La scuola media porta(va) il nome del diplomatico Costantino Nigra e il Liceo classico quello di Camillo Benso conte di Cavour: indubitabilmente l’italianità di chi aveva fatto l’Italia. Per “fare gli italiani”, ambizioso obiettivo e compito additato da Massimo D’Azeglio (nome del più famoso liceo classico di quei tempi), molti nell’ambiente scolastico e, in senso lato, cittadino, pensavano che bastasse l’esempio. Non ho mai ascoltato frasi di critica per l’unità d’Italia, soltanto un po’ di rimpianto per avere ceduto la capitale, ma, si sa, i torinesi tengono fede alla parola data, rispettano i patti, agiscono di conseguenza, coerentemente. Il maestro alle elementari, raro caso di un insegnante uomo, era torinese, ma fra i professori alle medie e al liceo c’erano alcuni meridionali. Però, nessuno che criticasse l’italianità o ne prendesse le distanze dall’italianità. Data per scontata, l’italianità veniva sottolineata senza enfasi negli insegnamenti, letteratura italiana, storia e filosofia, storia dell’arte, che lo permettevano e richiedevano.
All’Università, Facoltà di Giurisprudenza, in quello che allora era il corso di laurea in Scienze Politiche, il clima di fondo era lo stesso. Nonostante le diverse posizioni politiche, ma di ex-fascisti fra i docenti ne ricordo uno solo, di antifascisti molti, però, uno solo davvero “militante”, l’identità italiana non era in nessun modo in discussione. Nessuno dei docenti la sbandierava. Nessuno la criticava, ma negli insegnamenti, storia, diritto, sociologia, scienza politica, aveva una presenza importante. Non ricordo nessuno dei miei compagni di università che se ne facesse portatore né che criticasse o che respingesse la sua appartenenza nazionale. Non mancavano le critiche all’Italia che c’era, mai, però, spinte fino a dichiarazioni di anti-italianità oppure di estraneità, neppure fra gli studenti comunisti. Piuttosto, c’era la ricerca diffusa di una Italia migliore. A quell’Italia, le cui fondamenta venivano indicate nel pensiero e nelle azioni della Resistenza al fascismo, facevano riferimento docenti illustri, non soltanto per la qualità del loro insegnamento, ma anche per il loro impegno pubblico, passato e presente, come, in ordine alfabetico: Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Alessandro Galante Garrone, Marcello Gallo, Alessandro Passerin d’Entrèves Ettore Passerin d’Entrèves, Guido Quazza, della cui identità nazionale nessuno poteva dubitare. Ricordo perfettamente i libri che leggevamo, fra i quali i più pertinenti all’identità nazionale furono certamente quelli scritti dal grande storico valdostano di nascita Federico Chabod: L’idea di nazione(1961); Storia dell’idea d’Europa (1961); e L’Italia contemporanea (1918-1948) (1961)
In questo modo: il contesto, i docenti, loro insegnamenti e loro ruolo pubblico, le numerose letture consigliate e fatte si veniva, complessivamente e senza nessuna imposizione e costrizione, costruendo, definendo, aggiustando e adeguando, più o meno consapevolmente, la mia identità nazionale. Sappiamo che c’è una fase formativa che è destinata a durare nel tempo. Sappiamo altresì che si possono presentare con maggiore o minore frequenza situazioni e avvenimenti capaci di incidere sulle esperienze personali, anche, comprensibilmente sulla stessa autorappresentazione della propria identità nazionale. L’espressione inglese per quegli avvenimenti è molto appropriatamente defining moment, non per me, non allora.
Fintantoché ho vissuto a Torino, la mia identità nazionale, quella che si era formata in un contesto che mi appariva in materia privo di scosse e di sfide, era fondamentalmente “protetta”. Alcuni periodi di studio all’estero, Francia e Inghilterra, mi avevano messo in contatto senza sorprese con altre identità nazionali e con l’immagine che i portatori di quelle indennità si erano fatto e mantenevano dell’italiano inteso come persona. Spesso erano pregiudizi, dai quali non mi sentivo toccato, relativi ai nostri vizi nazionali che, naturalmente, ciascuno di noi scarica e attribuisce agli altri.
Qualcosa di molto importante colpì in maniera (da me) assolutamente inaspettata la mia non molto approfondita e non ancora formata e consolidata visione dell’Europa. Mi trovavo a La Rochelle, un tempo capitale degli Ugonotti, per perfezionare la mia conoscenza del francese in un Istituto apposito molto frequentato da ragazzi e ragazze della più varia provenienza: svedesi, norvegesi, inglesi danesi, finlandesi, olandesi, tedeschi, austriaci, polacchi, spagnoli, non saprei dire se ci fossero anche altri italiani (dai quali, programmaticamente, mi sarei comunque tenuto lontano per mantenere la full immersion nello studio del francese). Insieme alla chiara percezione di un ipertrofico orgoglio nazionalista di quei francesi e ad un notevole miglioramento della mia conoscenza del francese, mi è rimasto un ricordo tuttora dominante: il silenzio e la tristezza nelle sale per la colazione e nella grande radura che separava quelle sale dai dormitori quando quel sabato mattina 13 agosto 1961 giunse la notizia della costruzione del muro a Berlino. Senza nessuna retorica credo di potere legittimamente affermare che quei sentimenti rivelatisi comuni a tutti segnalavano in maniera potente l’esistenza di una idea condivisa di appartenenza e di identità europea, il riconoscimento dell’esistenza di una cultura politica democratica che esige la libera circolazione delle persone e delle idee senza barriere.
Anni dopo, immerso nello studio della scienza politica, più specificamente, della “modernizzazione e sviluppo politico” (titolo del mio primo libro pubblicato dal Mulino nel 1970), la sfida dell’identità era sottesa all’analisi dei molteplici processi di costruzione della nazione costretti a svolgersi in ostici e impervi contesti multietnici e multiculturali post-coloniali rispetto ai quali le tensioni italiane Nord/Sud erano rose e fiori. Comunque, non sentivo nessun bisogno né di approfondire né di problematizzare le componenti “contesto/istruzione/persone” a fondamento della mia identità nazionale. Non ricordo occasioni che richiedessero che vantassi quell’identità né che la considerassi qualcosa di cui sentire un peso negativo, un impaccio, la contraddittorietà.
Fu Bettino Craxi a lanciare la prima tanto inaspettata quanto significativa sfida sia a coloro che, come me, avevano una placida concezione di identità nazionale sia a coloro, parte della sinistra, fin troppo internazionalista, ma la cui identità comunista pencolava più o meno visibilmente verso l’Unione Sovietica. L’appropriazione craxiana del tema dell’identità nazionale si accompagnò deliberatamente e mostrò più di un eccesso di strumentalizzazione. Però, il vero spartiacque arrivò soltanto qualche anno dopo con lo spettacolare e memorabile incipit della cassetta di Silvio Berlusconi che annunciava la sua discesa in campo: “L’Italia è il paese che amo”.
Fu il segnale di quello che, con terminologia della politica USA, definisco “riallineamento”.
L’identità italiana non poteva più essere semplicemente un’identità legata a blande appartenenze famigliari, sociali, culturali, letture e interpretazioni della storia incluse. L’identità italiana diventava esclusiva, uno spartiacque fra chi condivideva la politica di Berlusconi e chi vi si opponeva: “comunisti, ex-comunisti, post-comunisti”. Molti oppositori, nient’affatto tutti collocabili nella triade succitata, caddero nella trappola. Incapaci di definire con chiarezza un’identità nazionale alternativa. Parte di loro, intellettuali scettici, dichiarò di vergognarsi di essere italiano. Con qualche sovrapposizione un’altra parte dichiarò che avrebbe lasciato il paese. Entrambe le posizioni, mai neppure lontanamente nel mio orizzonte identitario, erano, fin dall’inizio, perdenti sia sul piano culturale sia sul piano politico. Una terza posizione era possibile: indicare nella Costituzione repubblicana il simbolo più elevato dell’identità nazionale che, dunque, trascendeva qualsiasi posizione di parte. Molti si fecero forti di una espressione che veniva dalla Germania: patriottismo costituzionale, attribuita al famosissimo filosofo politico della Scuola di Francoforte Jürgen Habermas, ma in realtà coniata molti anni prima da un filosofo politico cattolico Dolf Sternberger.
Rapidissimamente, però, il rapporto fra identità nazionale e Costituzione divenne tanto problematico quanto conflittuale e controverso. Da un lato, a destra, in Alleanza Nazionale stavano anche moltissimi di coloro che con la Costituzione, che non avevano votato, non volevano assolutamente identificarsi. La loro identità italiana era del tutto indipendente dal patriottismo costituzionale. Anzi, trovava radici e referenti nel ventennio fascista. Comunque, quella Costituzione Berlusconi voleva riformarla profondamente, deformarla secondo gli oppositori. Dall’altro lato, et pour cause, cioè, di conseguenza, nacquero sulla spinta “profetica” di don Giuseppe Dossetti, e si moltiplicarono, gli intransigentissimi “Comitati per la difesa della Costituzione”.
Su questo versante, l’identità nazionale veniva, se non plasmata, (ri)definita con riferimento esclusivo o quasi alla Costituzione, alla sua storia, quindi all’antifascismo, ai suoi valori e alle culture politiche, liberale, cattolico-democratica, azionista, socialista e comunista, che la avevano scritta. E tutto diventava molto più complicato. Da allora, era e rimane lecito chiedersi che cosa venisse/venga insegnato della Costituzione, e come, nelle scuole di ogni ordine e grado dell’italico stivale da insegnanti sia da quelli politicizzati, in tutte le direzioni, sia da quelli non raramente intimoriti.
Quella, debbo scriverlo con il termine tecnico, socializzazione all’Italia come patria comune indiscutibile che avevo avuto quarant’anni prima a Torino era diventata persino più che impossibile, praticamente impensabile. Nel clima “berlusconiano” post-1994 apparve, meglio venne reso evidente, che di una identità nazionale condivisa seppure con non poche variante di intensità e di affetto, non si avevano quasi più tracce. Continua ad essere forse utile una esplorazione delle premesse sociali e culturali forse persino più importanti di quelle politiche: crollo del sistema dei partiti e scomparsa dei tre maggiori protagonisti della storia dell’Italia repubblicana, per spiegare quel che successe. Infatti, anche da quei partiti era passata una parte non trascurabile dell’identità nazionale tanto che, piccolo, ma significativo, esempio, uno spezzone del malamente sepolto Partito Comunista Italiano si denominò Comunisti Italiani.
La Costituzione è stata scritta da uomini e donne con storie politiche, professionali e personali e con culture politiche differenti, qualche volta contrastanti. Neppure una pur utile ricerca approfondita con gli strumenti più raffinati riuscirebbe a cogliere se, quanto e come ciascuno/a di loro si sia posto il problema dell’identità nazionale, come lo abbia risolto e quanto abbia tentato e sia riuscito a trasferirlo negli articoli della Costituzione. Comunque, sosterrei che ciò conta è l’esito. Non c’è nessun dubbio che la Costituzione italiana ha una concezione alta e chiara, esigente, ma nient’affatto escludente, del patriottismo italiano. Suggerisco di misurare questo tipo di patriottismo costituzionale con riferimento alla esplicita disponibilità a limitare la sovranità nazionale e a collaborare con le organizzazioni internazionali che assicurino “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11) e al riconoscimento del diritto d’asilo allo straniero “al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” (art.10).
Entrambi questi riferimenti sono al tempo stesso cruciali e altrettanto indispensabili per affrontare il discorso su quanto debbano e possano essere importanti i valori, anche e soprattutto, costituzionali, nel delineare l’identità italiana. Non sono mai stato convinto dalla concezione espressa nella frase ubi patria ibi libertas attribuita a Cicerone. Pur consapevole che meriterebbe di essere analizzata in tutte le sue complesse sfaccettature e implicazioni ne ho un po’ rozzamente proposto il capovolgimento: ubi libertas ibi patria. Se Cicerone intendeva comunicare che la libertà può essere garantita e usufruita soltanto dentro i confini della patria, il mio capovolgimento va nel senso di sostenere che dovremmo, invece, considerare patria soltanto quel luogo, quel contesto nel quale c’è libertà e impegnarci di conseguenza. Pertanto, costruire una patria significa lottare per ottenere la libertà: patriottismo della libertà che, forse confina forse conduce all’internazionalismo, se non addirittura al cosmopolitismo, programmaticamente situato ben oltre qualsiasi identità nazionale.
Dichiararsi europeo è, in un certo senso, indicare e sostenere che l’identità italiana è troppo poco per definire oggi nel mondo un universo personale valoriale. Quella identità deve essere, se non trascesa, comunque completata con riferimento al più grande fenomeno di integrazione sovranazionale politica e sociale di tutti i tempi. Significa anche che commetteremmo un gravissimo errore analitico e politico continuando a trattare l’identità nazionale come una qualità che, una volta acquisita, definita, interiorizzata, sia destinata a non cambiare, a rimanere ferma e fissa, quasi cristallizzata. Tutt’altro. Anche se non intendo a spingermi fino a sostenere provocatoriamente che le “migliori” identità nazionali sono quelle “fluide”, vale a dire disposte e capaci di adattamenti e di ridefinizioni anche molto profonde, imposte dalle sfide contemporanee, rimane che le identità che non si ammodernano finiscono per diventare reazionarie e, quel che più conta, sono inadeguate e conducono a inquietudini e disorientamenti, il terreno più fertile per i populisti. In effetti, finora e un po’ dappertutto, l’impatto delle sfide identitarie populiste sulle regole e sui valori è risultato devastante.
L’identità che, certamente, non può non essere nazionale/nazionalista (Make America Great Again), rischia di essere definita nel rapporto popolo/leader, ma, per lo più, è il leader che si arroga il potere di definire. Lo fa in maniera escludente: gli oppositori sono bollati “nemici” del popolo, anche per blandire e compattare il “suo” popolo. Non c’è bisogno di segnalare quanto diffusi siano oggi in Italia atteggiamenti, rivendicazioni e comportamenti di questo tipo e quanto risultino respingenti per settori molto ampi dell’opinione pubblica la cui identità risulta scossa e rimane inquieta.
La mia impressione è che le modalità: contesto, scuole, insegnamenti, docenti, attraverso le quali moltissimi anni fa ho personalmente “assorbito” l’identità nazionale di italiano, siano troppo cambiate; non esistano più; non siano recuperabili. I cambiamenti hanno interessato soprattutto le scuole, sostanzialmente travolgendo e sconvolgendo qualsiasi possibilità di socializzazione, di insegnamento e di trasmissione di una identità nazionale. Non bastano più neppure le trasmissioni televisive e il Festival di Sanremo per conquistare gli onori e pagare gli oneri relativi alla costruzione e/o alla ridefinizione dell’identità nazionale. Molto orgoglio nazionale/nazionalistico viene suscitato dalle imprese sportive: calcio, tennis, sci, automobilismo (la Ferrari), motociclismo (Valentino Rossi), ma è orgoglio contingente che, incidentalmente, a suo tempo non ha contato praticamente niente per l’identità nazionale dei miei compagni e mia personale.
Non saprei dire se abbia ragione chi ha sostenuto che per avere una identità europea è preliminare avere una identità nazionale. In parte piuttosto significativa la mia sottolineatura dell’europeismo come orizzonte identitario nel quale mi rifletto e, per l’appunto, mi identifico, tutt’altro che da solo, si sostanzia nel riconoscimento e nell’apprezzamento di valori condivisi fondamentali: libertà, eguaglianza di opportunità, giustizia, che sono minoritari, sempre traballanti, non adeguatamente perseguiti nel contesto nazionale italiano. Peggio. Talvolta, quei valori sono considerati di parte e oggetto di appropriazione o di respingimento nella lotta politica. Allora mi chiedo se il mio europeismo non sia anche il prodotto del rifiuto di entrare in dibattiti nei quali le prese di posizione sono visceralmente e ideologicamente di parte.
Concludendo, forse non abbiamo più bisogno di una identità nazionale. Forse le nostre identità nazionali potrebbero essere utilmente servire come elementi positivi di differenziazione nel quadro complesso e complessivo, sovraordinato della identità europea. La competizione sui contributi in termini culturali, sociali e politici delle diverse identità nazionali (quelle degli studenti a La Rochelle più di sessant’anni fa) alla formazione di una identità europea, che non è data, ma costantemente in movimento, sarà il modo migliore per fare gli europei che porteranno a compimento l’unificazione politica dell’Europa.
GIANFRANCO PASQUINO, dal 1970 socio dell’Associazione “il Mulino”, è Professore Emerito di Scienza politica, Università di Bologna