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I candidati del PD devono guidare il partito non il governo @DomaniGiornale

I fondamentali. Da un lato, c’è un governo di destra-centro sostenuto da tre partiti sostanzialmente d’accordo i quali, però, di tanto in tanto, inevitabilmente, si sentono costretti a sbandierare qualche marginale dissenso. Talvolta, godendo delle opportunità derivanti dale cariche occupate, cercano di tradurre i loro dissensi in annuncini di emendamenti alla Legge di Bilancio. Poi, dichiarazioni, spiegazioni, e quant’altro serva a risaltare sui mass media. Dall’altra parte, ci sono tre opposizioni, di cui una più o meno furbescamente disponibile al dialogo, che accusano la coalizione di governo al tempo stesso di essere troppo legata a tematiche identitarie e di tradirle. Con le loro specifiche tematiche identitarie, le opposizioni hanno rapporti difficili, essendo in parte tematiche pallide, in parte sicuramente divisive. Invece di mirare a strappare voti ai governanti, le opposizioni si scambiano reciproci graffi.

   Prendendo consapevolmente atto che nessuna delle opposizioni rinuncia a pescare nello stesso bacino e oltre non guarda, il governo Meloni si permette finora senza danno alcuno, meno che mai per Fratelli d’Italia, di usare alcuni provvedimenti per esibire le sue effettive (e spesso deprecabili) peculiarità, ma anche come ballons d’essai (vediamo se la va o la spacca) e come indicazioni che oggi si arriva fino lì per difficoltà oggettive. Però, il solco è tracciato e domani si arerà più a fondo sul reddito di cittadinanza, sulla cultura, sulla scuola, sulla giustizia, sulle tasse.

   Non sta a me lodare questa strategia. Starebbe alle opposizioni di evitare sterili e ipocrite indignazioni elaborando una strategia che combini l’immediato con il lungo periodo. Che non sia troppo lungo, ma calibrato su due scadenze elettorali: rinnovo del Parlamento europeo, con il PD che ha qualcosa da farsi “perdonare”, e elezioni politiche del 2027. Nel frattempo, non sarebbe male se una qualche boccata di ossigeno venisse dalle elezioni regionali in Lazio e soprattutto in Lombardia. Curiosamente i candidati alla segreteria del Partito Democratico sembrano, in special modo Bonaccini, più interessati a dire come governeranno un paese che non è nelle loro mani piuttosto che a ristrutturare il partito, indispensabile strumento per vincere e per attuare le riforme.

Il domani è già cominciato. Si costruisce in Parlamento non soltanto con emendamenti di bandiera, neanche con i più luccicanti, ma con la predicazione chiara e alta di una politica diversa non soltanto da quella del destra-centro, ma anche da quelle praticate dalle tre opposizioni. Una politica europeista di riforme economiche e sociali richiede l’elaborazione di una cultura politica all’altezza. Sempre valido è il monito d’altri tempi e di ben altro personaggio: “istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”.

Pubblicato il 13 dicembre 2022 su Domani

Candidarsi, smontare, galleggiare, forse? #partitodemocratico @DomaniGiornale

Molto tempo fa, studiando come cambiano i partiti, ho imparato che rarissimamente passano da un estremo all’altro. L’arco delle oscillazioni possibili è spesso abbastanza ristretto. Per smontare e rimontare il PD, come si propone Bonaccini, bisogna avere una straordinaria forza politica. Bisogna anche avere una visione strategica di cui finora il candidato Bonaccini non ha fornito alcuna prova. Al contrario, mentre i commentatori si affannano su categorie analitiche banali e sterili, resuscitando il massimalismo, ha preferito parlare di territorio e di politiche piuttosto che di struttura, di reclutamento, di modalità della scelta delle candidature. Non donna di partito, ma di movimento, anche questa è una contrapposizione di scuola antica, Schlein ha quantomeno indicato due obiettivi molto importanti: le candidature verranno dai territori e lì dovranno agire, mettendo così fine al fenomeno imbarazzante (per molti tranne, forse, i candidati/e) dei paracadutati/e, e le correnti verranno combattute. Naturalmente non c’è nessuna garanzia che saranno emarginate, ma almeno Schlein lo propone, mentre Bonaccini, già renziano di spicco e dai già renziani visibilmente sostenuto, è in materia tanto silenzioso quanto evasivo.

    Qualcosa sul partito che conosce ha detto Paola De Micheli, ma mediaticamente non ha sfondato. Nel frattempo, candidati e candidate propongono ambiziose riforme, elaborano politiche, annunciano solenni principi operativi come se il PD fosse al governo e loro fossero il capo (la capo?) del governo.  Lasciando perdere progetti fantasiosi tutti a molto futura memoria, sono giunto alla conclusione, rivedibile solo a fronte di obiezioni effettivamente dirimenti, che due macro riflessioni sono indispensabili. La prima è un’autocritica approfondita della fusione a freddo del 2007 fra due partiti già indeboliti, DS e Margherita, e privi di cultura politica. Il professore di scienza politica vorrebbe sapere quali erano allora i libri di riferimento e quali potrebbero essere oggi. Non basta, come mi ha messaggiato un parlamentare di (già troppo) lungo corso, avere calcato le aule della politica per potere vantare una cultura politica.

   La seconda è da dedicare ad una analisi della politica in Italia: dove siamo, perché siamo arrivati a tanto, poco? Poiché, come soleva affermare Giovanni Sartori, “chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico”, l’analisi deve essere comparata e tenere conto del “vincolo” europeo che è una grande, permanente opportunità. Europarlamentare per un mandato, Schlein dovrebbe sfruttare le sue conoscenze in materia. Fra l’altro, l’europeismo è una cultura politica e il Partito Democratico è già riconosciuto come il più europeista dei partiti italiani. Mi accorgo di avere fin qui scritto con molto apprezzamento e con speranza troppo vicina ad un più o meno pio desiderio. Comunque vada, la storia e la teoria dei partiti suggeriscono che raramente le organizzazioni di uomini e donne che presentano candidati/, ottengono seggi, vincono cariche, spariscono di colpo. In buona misura, che dovrebbe essere rivendicata, il Partito Democratico è, pur con tutti i suoi visibilissimi difetti, a cominciare dai suoi dirigenti, un partito indispensabile (non, però, insostituibile), nel sistema politico italiano e utile nel Parlamento europeo. Dal conflitto di idee e proposte di coloro che si sono candidati/e e dalle critiche dei commentatori preparati e degli studiosi disincantati può sortire qualche inattesa novità. Se no, il galleggiamento continuerà. Qualunquemente. Viziosamente. Tristemente.    

Pubblicato il 7 dicembre 2022 su Domani

Accanimento correntizio. Pasquino svela cosa c’è dietro il dibattito sull’identità del Pd@formichenews

L’identità di un partito riformista non comincia dal buongoverno, come pensa qualche presunto politologo di strada, ma dalla visione e dalle proposte con le quali arriva al governo. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e socio dell’Accademica dei Lincei

Nella autorevole persona di Francesca Scaringella, Formiche mi chiede di scrivere sulla ricerca dell’identità perduta del Partito Democratico. Mission impossible. Il Partito Democratico, il PD realmente esistente, non ha mai avuto nessuna identità. Oserei affermare che è nato programmaticamente per cancellare l’identità dei comunisti, che ci avevano già messo moltissimo da parte loro, con successo, erano anche riusciti a tenere fuori qualsiasi identità socialista, mentre i cattolici democratici si accontentarono dell’áncora di salvezza loro offerta dal seminuovo partito, si accomodarono nei posti di governo ai quali erano abituati e non sentirono nessun bisogno di rielaborare la loro identità né di contribuire a una identità nuova, riformista/riformatrice. Qualche fiancheggiatore, la cui cultura economica, più o meno ampia e valida che sia, non può supplire alla carenza assoluta di cultura politica, disegnava una identità liberal-socialista, con liberali inesistenti e senza socialisti ingombranti. Adesso, sembra che l’identità del PD, a sentire quei qualcuno, si possa definire tenendo lontani i pentastellati di ogni ordine e grado e avvicinandosi, anzi prostrandosi ai renziani e ai calendiani, della cui cultura politica e costituzionale è peraltro non solo lecito, ma imperativo dubitare.

L’identità di un partito riformista non comincia dal buongoverno, come pensa qualche presunto politologo di strada, ma dalla visione e dalle proposte con le quali arriva al governo. Per ora, meglio che i piddiccini (sic) si (pre)occupino del Manifesto dei Valori. Attualmente, l’incipit è sconfortantemente similberlusconiano : “Noi, i Democratici, amiamo ‘Italia”. Forse, un partito riformista dovrebbe subito dare a sé e agli italiani, patrioti o no, una prospettiva limpida: “Noi, i Democratici, desideriamo una Italia migliore” e poi indicare in ordine di priorità in che modo, con quali politiche, con il sostegno di quali ceti, miglioreranno l’Italia. Non è il mio compito, ma nessuna Italia sarà mai migliore se si allontana dall’Europa.

Quello che vedo è che, comunque, il dibattito sull’identità è una cortina fumogena per nascondere e salvare le correnti, chiedo scusa, le diverse “sensibilità” che, insomma, lo abbiamo imparato tutti (meno chi scrive), sono una ricchezza, un patrimonio prezioso, l’Eden del pluralismo gioioso. Infatti, esistono correnti nella SPD, nel Partito Laburista e, prova provata e definitiva, nel Partito Democratico USA dove, utile a sapersi, i Rappresentanti sono eletti, mai paracadutati, in collegi uninominali. Davvero quelle correnti sono in qualche modo assimilabili alle correnti nel PD? E quali sarebbero poi le brillanti idee che sono emerse dalle correnti e che vengono più o meno periodicamente a occupare il centro del dibattito politico? Possibile che nello splendore e nel clamore del dibattito di idee e di identità non trovino lo spazio che (non) meritano le idee delle donne del PD? Benvenuta Elly Schlein, verso quale identità orienterai il PD? Credi che esista una identità “movimentista” che qualcuno ti attribuisce? Che cosa sai di come si organizza e funziona un partito politico? ritieni utile imparare qualcosa in materia oppure chiederai a Bonaccini, il ticket sarà Schlein-Bonaccini, giusto? E l’indicazione del ticket si trova nello Statuto vigente?

Care Formiche, un giorno a vostra insistita richiesta risponderò anche alle mie domande. Comunque, almeno l’inizio di tutte le risposte is, come cantò Bob Dylan, blowing in the wind. Sarà ad ogni buon conto troppo tardi e, forse, troppo poco. Tuttavia, don’t worry. Non l’istinto quanto la feroce determinazione delle correnti assicura la sopravvivenza di questo PD: diritti, Europa, lotta alle diseguaglianze. Avanti popolo (delle sedicenti primarie).

Pubblicato il 4 dicembre 2022 su Formiche.net

Chi si candida deve dirci le idee dei prossimi 10 anni #congressopd #intervista @corrierebologna

Intervista raccolta da Micaela Romagnoli

Professor Pasquino, come lo vede il Pd in questo momento, verso il congresso?

«È un partito che si è accomodato al 20%, poi di tanto in tanto si tortura, dicendo di aver sbagliato per aver perso la rappresentanza di questi o di non riuscire più a parlare con quelli. Ma sono lacrime di coccodrillo; non fanno nulla per rimediare a una situazione che per me è insoddisfacente».

Che fare allora?

«Il partito è stato costruito male. Noi (Mauro Zani ed io), nel 2007, dicemmo che non bisognava farlo così, che si poteva giungere a un accordo tra ex-democristiani, ex-comunisti e altri. Ma che andava fatto lentamente, collaborando nelle zone locali, creando soprattutto un pensiero nuovo. Mancò la cultura politica. Possiamo raccontarci tutto quello che vogliamo sui leader, ma nessuno sarà mai adeguato se non è in grado di produrre e diffondere una nuova cultura politica».

Cosa significa?

«Che del Movimento 5 Stelle non ci interessa nulla, di Calenda e di Renzi non ci interessa nulla, che bisogna guardare a come si costruisce un partito progressista, socialdemocratico. C’è spazio in Europa per un partito socialdemocratico e laburista, bisogna pensare a come costruirlo in Italia. Questa operazione, invece, non è nemmeno ancora cominciata».

Dalle sue parole emerge un certo pessimismo.

«Sì. Vedo persone che si candidano, però io voglio sapere cosa vorrebbero fare, che cosa pensano di un partito socialdemocratico, socialista, progressista, laburista. E che idea abbiano della giustizia sociale, il rapporto tra merito ed eguaglianza, cosa debba essere la democrazia nei prossimi 10 anni in Italia, se toccare o meno la Costituzione».

Che risposte dovrebbero arrivare?

«Siamo un partito che è fermamente democratico, ma che sa che la democrazia di tanto in tanto deve essere riformata. Pensiamo che una società giusta sia quella in cui tutti i cittadini hanno opportunità e quindi vogliamo intervenire a ogni livello della vita: dai bambini, con scuole efficienti, consentendo a chi è bravo di andare avanti, evitare che i cervelli se ne vadano all’estero. Il Pd del prossimo futuro è un partito di opportunità, che si possono sfruttare al meglio attraverso lo Stato, con l’utilizzo di una burocrazia efficiente. Ci sono situazioni che richiedono interventi di riduzione delle disuguaglianze, ma non vogliamo una società di eguali, bensì di persone che vengano valutate anche sulla base del loro merito, che deve essere ricompensato. Quindi bisogna chiamare in causa i sindacati».

Perché?

«Un partito di questo genere deve sfidare i sindacati, che fra l’altro non si prendono nemmeno la responsabilità del fatto che un sacco di loro iscritti votino per la Lega e probabilmente per Fratelli d’Italia. Vorrei sentire parole di autocritica, perché sono loro che hanno perso i voti, non tanto il partito, ma loro».

Alcuni sostengono che il partito debba tornare a sinistra… lei?

«Non c’è mai stato. Non vuole dire niente tornare a sinistra. Ci si valuta sulle politiche che si fanno, non sulla collocazione geografica».

E sul tema dell’unità?

«Il partito non deve essere di correnti. Deve essere plurale, può accogliere tante posizioni, purché si sappia che una volta presa una decisione a quella si collabora o quanto meno non la si ostacola».

Un lavoro difficile.

«Certamente. Dopo di che rimarrà al 20%, inchiodato lì. E alcuni saranno anche soddisfatti; entrano in Parlamento, ci stanno una o due legislature, magari tornano sul territorio e si fanno un’attività di consulenza. Il Pd, soprattutto quello di Bologna e quello dell’Emilia-Romagna, è un datore di lavoro straordinariamente generoso».

Le primarie per il segretario? Sì o no?

«Intanto, l’elezione del segretario di un partito non è una primaria. Quando Letta dice: “solo 2 candidati” sbaglia, debbono essercene molti di più. Alcuni di noi pensano che il segretario di un partito debba essere eletto solo dagli iscritti».

Chi vedrebbe alla leadership? Bonaccini?

«Ripeto. Nessuno mi ha detto che partito vuole costruire, magari guardando come sono costruiti i partiti di sinistra in Europa. Non so che idea abbia, ma se è l’idea di partito che aveva Renzi credo che sia inadeguata».

Nostalgia del partito che fu?

«Certo, perché nel Pci, a cui io non fui mai iscritto ma i cui elettori mi votarono in Parlamento, c’era un dibattito serio, argomentato; c’era gente che leggeva libri e articoli, si faceva una sua opinione. Qua al massimo leggono qualche tweet e si presentano in qualche talk show televisivo».

Pubblicato il 7 ottobre 2022 su Il Corriere di Bologna

Il voto in Emilia Romagna, Zingaretti e le Sardine. Intervista al professor Gianfranco Pasquino @RadioRadicale

Intervista di Roberta Jannuzzi
27 gennaio 2020 – Durata: 10′ 49″

Ascolta

 

L’Emilia Romagna al centrosinistra, la Calabria al centrodestra.
Questi i risultati delle Regionali, che vedono il dem Bonaccini superare la leghista Borgonzoni e la forzista Santelli trionfare sull’imprenditore Callipo.
Crollo M5s in entrambe le regioni.
Il Pd è di nuovo il primo partito in Emilia-Romagna e il suo segretario, Nicola Zingaretti, parla di un ritorno a un sistema bipolare.
Il leader della Lega Matteo Salvini ricorda che si è fatto tutto quello che si poteva e promette che il cambiamento è solo rimandato.
Sconfitta per il M5s: capo reggente, Vito Crimi, invita a non arrendersi e a
 stare uniti.
Trionfo silenzioso per le Sardine che hanno contribuito a mobilitare l’elettorato

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La partita elettorale in Emilia Romagna #Intervista @RadioRadicale

Intervista raccolta da Roberta Jannuzzi il 2 gennaio 2020
Durata: 7 min 41 sec

ASCOLTA

26 gennaio è la data del primo appuntamento elettorale del 2020.
In Calabria come in Emilia Romagna.
Ma è in quest’ultima regione che si gioca la partita più attesa.
Qui Matteo Salvini porta avanti la sua battaglia di carattere nazionale, la sinistra cerca di evitare una sconfitta storica, il movimento delle Sardine è comparso per la prima volta dando prova dell’esistenza di quell’Italia silenziosa alla quale, forse, si riferiva nel discorso di fine anno del presidente Mattarella.
Sette i candidati alla presidenza della regione Emilia-Romagna e 17 liste.
Contro il Governatore del Pd Stefano
 Bonaccini, Lucia Borgonzoni per il centrodestra, ma anche il candidato del M5S, Simone Benini, più quattro candidati di liste civiche, di sinistra o no-vax.
Ne parliamo con il professor Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università degli Studi di Bologna.

Vento emiliano e nuove filosofie

Corriere di Bologna

Il Partito Democratico dell’Emilia-Romagna non si fa mancare quasi niente tranne, talvolta, i voti, per esempio, quelli che servivano a evitare il ballottaggio di Merola. Non potendo andare oltre il secondo mandato (e la presidenza della Città metropolitana), sfuggitagli per via referendaria la carica di Senatore, il sindaco ha deciso di sbizzarrirsi in politica, forse, sostiene più d’uno, a scapito del miglioramento della sua attività amministrativa che lo vede al sessantesimo posto circa della classifica stilata dal Sole 24Ore. Può anche permettersi di contraddire variamente le proposte e le indicazioni del suo segretario di cui qualche tempo fa si era dichiarato convinto sostenitore. Adesso, mentre esprime il suo favore al referendum sul Jobs Act, legge simbolo del periodo renziano, annuncia che elezioni anticipate non sono una buona soluzione e opera per un’ipotesi di coalizione che includa quelli che un tempo sarebbero stati chiamati “cespugli di sinistra”. Se rinascesse l’Ulivo, e Romano Prodi sostiene che è possibile, quei cespugli avrebbero molte opportunità di essere considerati importanti.

Su altri versanti, i Dem dell’Emilia-Romagna mantengono alta la loro visibilità. Vero che dei tre ministri reclutati da Renzi, una, Federica Guidi, ha dovuto dimettersi qualche tempo fa, il secondo Giuliano Poletti, galleggia su imbarazzanti affermazioni, che non sono gaffes, ma ne rispecchiano il pensiero politico, e il terzo Graziano Delrio è un po’ emarginato, ma se le indiscrezioni hanno qualche fondamento, sarà la nuova segreteria di Renzi a fare il pieno di emiliano-romagnoli. Dal cerchio non più magico del giglio fiorentino al poco frizzante, ma solido ambiente emiliano-romagnolo? Il segretario che cerca un suo personale rilancio ha bisogno di un partito, anche se chi lo conosce non crede che saprebbe poi farlo funzionare e valorizzarlo. Vorrebbe un partito più unito, magari senza Bersani e quel che rimane dei bersaniani. Saranno Critelli, Calvano, Bonaccini, Richetti (alla ricerca di un ruolo chiave e sovraordinato nella nuova segreteria) e Andrea Rossi all’organizzazione a dargli quel partito? Difficile dirlo, ma inevitabile sottolineare che un riallineamento complessivo del PD emiliano-romagnolo su Renzi, da un lato, desterebbe grandi preoccupazioni nei molti parlamentari che desiderano la ricandidatura e molte speranze negli aspiranti fra i combattenti del pur sconfitto fronte del “sì”, dall’altro, aprirebbe spazi per Merola ( non “per il suo progetto” di cui non vedo né gli obiettivi né il perimetro). I nomi li ho fatti. Mancano solo le indicazioni su quali grandi, ma anche piccole, idee sapranno proporre sia i nuovi renziani sia il vecchio Merola. A quando il philosophari?

Pubblicato il 28 gennaio 2017

La gara, finalmente

Corriere di Bologna

“Ce n’est qu’un début” direbbero gli studenti del maggio francese del 1968. Siamo soltanto agli inizi delle molto importanti primarie per diventare non soltanto il candidato del Partito Democratico, ma, in rapida sequenza, anche, visto lo sfacelo del centro-destra, il prossimo Presidente della Regione Emilia-Romagna. Il “Corriere di Bologna” ha già abbondantemente spiegato chi sono i candidati e da dove vengono. Toccherà poi ai candidati spiegare perché saranno ottimi Presidenti della Regione e, se parleranno di innovazioni, chiarire anche quali, dove e come. Sì, contrariamente a quello che ha detto Bersani, le primarie sono un grande spazio politico e tanto meglio se diventano affollate. No, contrariamente a quello che ha detto Bersani, immagino che volesse rimproverare qualcuno, il Partito Democratico non è affatto tenuto ad avere un suo candidato ufficiale e se Daniele Manca non si è presentato (o è stato “invitato” a non presentarsi), la scelta è stata (tutta?) sua.

Senza scandalo alcuno, succede così anche negli Stati Uniti, è già cominciata la fase degli endorsements, ovvero delle dichiarazioni a sostegno dei vari candidati. Sono tutte suggestive, vale a dire suggeriscono qualcosa. Dietro Bonaccini, superrenziano della seconda ora (nella prima ora era ancora bersaniano di ferro), si è schierata, con qualche aggiunta, quasi tutta la vecchia guardia del PD, non nata ieri e che, evidentemente, vuole ricordare al segretario regionale che ci sono carriere in corso, da tutelare. Invece, Bersani dice che lui il nome del suo candidato lo farà poi. Suspense, anche per il candidato di Prodi. Sembrava, e certamente ci contava, dovesse essere Patrizio Bianchi che, adesso, se quel pesante endorsement prodiano (andato nel passato cittadino sia a Cofferati che a Delbono) non venisse, sta già intrattenendo l’idea del ritiro e della convergenza, legittima, ma anche un po’ deludente. Insomma, invece di essere resistenti e di portare in maniera convinta nelle primarie le loro idee, alcuni preferiscono essere “desistenti” in attesa di qualche carica a futura memoria. Neanche questa operazione, assolutamente legittima, deve essere considerata scandalosa. Sicuramente impoverisce il dibattito e riduce le possibilità di scelta degli elettori.

Dall’abbondanza di candidature, che è e rimane un pregio, la prospettiva è che si giunga, se Matteo Richetti confermerà la sua candidatura, ad una bellissima triangolazione. Con lui, renziano veracissimo, ma un po’ trascurato dal suo leader, rimarranno in campo Bonaccini, con le ambizioni ridimensionate per una carica che gli preclude una carriera nazionale, e Roberto Balzani che sa correre rischi, anzi, ai rischi va incontro con la sua biografia e il suo profilo programmatico. Lasciando perdere la classica, ma troppo spesso smentita dai fatti, attribuzione della qualità di laboratorio all’Emilia-Romagna, ci troveremo pertanto di fronte ad un confronto scontro assolutamente interessante fra un candidato, Bonaccini, che, nonostante il suo ostentato renzismo, viene, certamente non a sua insaputa, condizionato dalla vecchia guardia (che non s’arrende e non ha nessuna inclinazione a morire), il renzianissimo Richetti e un renziano per idee proprie, Roberto Balzani che, almeno finora, non deve niente e non ha chiesto niente a nessuno. Menù corto, ma piatti ricchi: le primarie sono servite.

Pubblicato il 31 agosto 2014

Il partito dell’investitura

Corriere di Bologna

Primarie o manfrine? Meglio, quanto dovranno aspettare gli elettori attuali e potenziali del Partito Democratico per essere sicuri che, finite le manfrine, stucchevoli e in probabile violazione dello Statuto del PD, si passerà alla presentazione ufficiale delle candidature e al confronto fra persone e programmi per governare l’Emilia-Romagna? Pare a molti che la logica delle primarie, che, conoscendole un po’, è quella della competizione fra più persone per ottenere la candidatura ad una carica democratica, implica che nessuno, proprio nessuno debba ottenere una qualsiasi, tantomeno previa, investitura romana. Purtroppo per tutti, è una pratica che abbiamo già visto (per esempio, a favore di Delbono). Che poi l’investitura debba venire da colui che proprio grazie alla sua ambizione e alla sua audacia ha costruito la sua, finora brillante, carriera politica su primarie senza rete, appare preoccupante, sia per Renzi, se davvero investirà qualcuno, sia, ancora più per l’investito che pare debba essere il tentennante Bonaccini. Quanto agli altri, certo, sarà interessante sapere se i “prodiani” vorranno sostenere Patrizio Bianchi, ma prima l’ex rettore e attuale assessore regionale si decida lui. Faccia come giustamente e severamente ha sostenuto Arturo Parisi sulle pagine del Corriere di Bologna. Alzi la mano, dica, in verità qualcosa ha già accennato, che si sente pronto anche perché sa fare qualcosa di importante, e si candidi limpidamente. Poi vedremo se altrettanto limpidamente, non è sempre stato così, i prodiani vorranno sostenerlo, a loro volta spiegando perché lo ritengono il migliore.

Mentre qualcuno aspetta eventuali imbeccate e fortunate desistenze, l’unico che ha dimostrato di credere fino in fondo nella procedura democratica delle primarie (ne vinse di combattutissime per diventare sindaco di Forlì) e di volerle interpretare correttamente, è Roberto Balzani. Si è candidato senza chiedere permesso a nessuno. Se si presenterà un altro candidato, la potente logica delle primarie e lo Statuto del PD impongono che le primarie vengano fatte sul serio. Ci mancherebbe altro che a fronte della presenza di una candidatura “unta” dall’alto, tutti si ritirassero oppure, peggio, venissero costretti a rinunciare per qualche inconfessabile “ragion di partito”. Per mantenere l’unità del partito ma, al tempo stesso, violando uno dei principi fondativi del Partito Democratico? Con il lessico rituale e un po’ ipocrita del passato si sarebbe detto che la pluralità di candidature riflette un partito dalle molte sensibilità. E, allora, che le “sensibilità” si misurino in campo apertamente, in maniera trasparente e persino dura attraverso le loro proposte per dare alla Regione Emilia-Romagna una guida innovativa che la rilanci al di là dei successi un po’ appannati dei tempi recenti.

Le primarie sono fatte apposta per invitare un elettorato il più ampio possibile a scegliere il candidato, al tempo stesso, preferito e in grado di vincere e governare. Le divisioni inevitabili, che non debbono preoccupare la discesa in campo di Daniele Manca, nella scelta si ricomporranno per sostenere il candidato vittorioso. Tutto il resto non è soltanto stucchevole manfrina, ma è la cattiva politica di chi, certamente, non potrà poi introdurre innovazioni alla guida della Regione.

Pubblicato il 22 agosto 2014