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Vi spiego perché Conte non ha intrapreso una deriva autoritaria. A lezione da Pasquino @formichenews
Fermo restando che l’aggettivo più appropriato alle molteplici derive italiane è confusionarie, altri molto diversi e molto più concreti sono i pericoli incombenti. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica
Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, un beneducato di talento (parafraso la non dimenticabile valutazione di Renzi, “un maleducato di talento”, scritta qualche tempo fa dall’allora Direttore del “Corriere della Sera” Ferruccio De Bortoli) ha ancora una volta irretito il Parlamento italiano provocando grande irritazione in Matteo Salvini e Giorgia Meloni (e contenuta preoccupazione in alcuni Dem), chiedendo e ottenendo il prolungamento dei suoi poteri di emergenza fino al 15 ottobre. Poi, chi sa.
Grazie al suo talento e alla sua buona educazione Conte era già riuscito ad irretire il frugalissimo Mark Rutte, e dovremmo rallegrarcene. Ma, come ha saggiamente scritto (o lasciato capire fra le righe) l’Ecclesiaste, c’è un tempo per irretire e un tempo per agire. Il tempo per irretire si presenta spesso; quello per agire arriva e passa. Spesso è poco più di un attimo per l’appunto fuggente. Il primo tempo non può essere usato per irretire il secondo, ma deve, invece, saperlo preparare. Incidentalmente, neppure la sequenza di alcune, tre-quattro richieste, debitamente approvate dal Parlamento, dei poteri di emergenza, può giustificare l’eccitazione dei giuristi allarmisti. No, Conte non arriverà mai alla vetta dei pieni poteri rivendicati da Salvini (è sempre il caso di ricordarglielo al leader della Lega, aggiungendo che, a suo tempo, dalla furente costituzionalista Meloni non pervennero riserve, neppure velate). Non ricordo casi di fondatori di regimi autoritari una delle cui doti fosse la buona educazione. No, Conte non ha intrapreso nessuna deriva autoritaria.
Fermo restando che l’aggettivo più appropriato alle molteplici derive italiane è confusionarie, altri molto diversi e molto più concreti sono i pericoli incombenti. Come irretire gli appetiti dei parlamentari e dei numerosissimi gruppi di pressione, le famigerate lobby, che scalpitano per avere almeno una fetta della enorme torta di fondi europei? Sul punto, temo che il Conte non abbia le idee chiare e che le chiarissime idee delle lobby, Confindustria compresa, non siano propriamente né quello di cui il paese ha bisogno né quello che la Commissione Europea vorrebbe dall’Italia. Un programma di interventi precisi, circostanziati, con tempi, modi, costi, lungo le direttive ecologiche e digitali, per il lavoro e per la ricerca e, magari, anche per la sanità, è quanto bisogna elaborare. Solo parzialmente mi pare lo potrebbe fare il Parlamento nelle cui commissioni di merito pure ci sono donne e uomini competenti (ma la sintesi?). Una Commissione bicamerale, anche eventualmente presieduta da Renato Brunetta, correrebbe due rischi: spettacolarizzazione ad usum dei mass media e scambi impropri fra le diverse “parti” politiche.
Per molte buone ragioni deve essere il governo con i suoi ministri e con le loro burocrazie, che poi valuteremo anche con riferimento alle concrete prestazioni, a formulare il piano. Ad assumersene la responsabilità. A sottoporlo molto tempestivamente al Parlamento nelle molte sedi e nelle molte forme già disponibili. Vedremo allora se la buona educazione del Presidente del Consiglio si estende oltre la sua capacità di equilibrio, di coordinamento, di combinazione di esigenze e preferenze e arriva fino alla innovazione e alla decisione motivata sulle scelte possibili. Ci vuole talento.
Pubblicato il 29 luglio 2020 su formiche.net
Dall’Unione Europea una lezione di solidarietà e democrazia
Quattro giorni di intensi e aspri negoziati fra i capi di governo degli Stati-membri dell’Unione Europea hanno condotto ad un esito positivo che quasi nessun commentatore credeva possibile. La grande soddisfazione per quanto ottenuto dall’Italia, anche grazie alla pazienza e all’intransigenza del Presidente del Consiglio Conte, non deve mettere in ombra quanto ottenuto dall’Unione Europea anche grazie alla inaspettata abilità negoziale del belga Charles Michel, Presidente del Consiglio Europeo. L’Italia ha ottenuto complessivamente 209 miliardi di Euro, 82 miliardi come sussidi e 127 sotto forma di prestiti, che equivalgono all’incirca a quattro leggi finanziarie. Conte torna a Roma vincitore, ma sapendo di avere un compito molto impegnativo da affrontare (e risolvere) in tempi rapidi e ristretti. Deve formulare programmi il più possibile precisi relativamente ai settori nei quali investire quei fondi, chiarendo i tempi e costi di realizzazione. Su un punto almeno i capi di governo degli Stati autodefinitisi frugali avevano (hanno) ragione, nelle riserve sulla capacità e sull’efficienza degli italiani di mettere a buon frutto i fondi di provenienza europea. Personalmente più credibile di molti suoi predecessori, adesso Conte deve dimostrare di essere politicamente efficace.
Lo scetticismo, anche di molti commentatori europeisti, riguardo alle probabilità di successo di una Unione che veniva data in crisi e paralizzata da veti incrociati, è stato sonoramente sconfitto. Anzi, è importante sottolineare quanto brillantemente hanno funzionato le istituzioni europee. La Commissione, il vero motore dell’Unione, aveva fatto una proposta molto ambiziosa e non ha mai dato segni di cedimento. Nel Consiglio i capi di governo hanno espresso le loro posizioni anche molto divergenti, ma attraverso una aspra conversazione democratica sono giunti alla decisione finale che, oltre all’approvazione scontata della Commissione, dovrà passare, come ha ricordato il Presidente David Sassoli, dal Parlamento europeo.
Conte e altri capi di governo hanno sventato un’iniziativa di Mark Rutte e di altri “frugali” intesa a sottoporre al controllo del Consiglio quanto gli Stati faranno con i fondi ricevuti. Secondo Rutte, il Consiglio avrebbe dovuto esprimersi con voti all’unanimità che, in pratica, significherebbe dare un non democratico potere di veto ad un solo stato contro tutti gli altri ventisei. Invece, il monitoraggio sui programmi e sulle spese degli Stati spetterà alla Commissione, salvo la possibilità di una maggioranza qualificata dei due terzi dei capi di governo di fare ricorso, nei casi di inadempimenti, al cosiddetto “freno di emergenza”, bloccando l’erogazione dei fondi.
Nel momento più difficile della sua oramai settantennale storia, l’Unione Europea si è dimostrata all’altezza delle sfide e, zittendo i sovranisti, non solo italiani, rivelando sapervi fare fronte con procedure democratiche e solidarietà. È una lezione beneaugurante che si proietta nel futuro.
Pubblicato AGL il 22 luglio 2020
Per rilanciare l’Unione europea
La riunione del Consiglio Europeo che si terrà venerdì 17 e sabato 18 ha straordinaria importanza poiché affronta una situazione di straordinaria difficoltà. I capi di governo dei ventisette Stati membri dell’Unione e la presidente della Commissione Europea sono chiamati a impostare il bilancio dell’Unione per i prossimi sette anni e a decidere l’entità del Recovery Fund, dei fondi in parte prestiti (loans) in parte sussidi (grants) da assegnare ai diversi paesi. Se fosse accettata in toto la proposta della Commissione l’Italia otterrebbe circa 170 miliardi di Euro su un totale di 750 miliardi. Senza esagerare nelle differenze e distanze, all’inizio del negoziato esistono due posizioni, quella italiana, in buona misura condivisa da Francia, Spagna e Portogallo e dalla Cancelliera Merkel, presidente del semestre europeo fino alla fine di dicembre, e quella dei sedicenti (cioè, così si sono definiti loro) paesi “frugali”: Olanda, Austria, Svezia, Danimarca.
Il Presidente del Consiglio Conte ha impostato le sue richieste intorno a due premesse: prima, l’assegnazione dei fondi deve essere rapida e abbondante per rilanciare le economie di tutti i paesi; seconda, il principio fondamentale deve essere la solidarietà che implica che la ripresa economica dei paesi più colpiti apporterà benefici anche ai paesi frugali e persino alla Germania. A cominciare dal Primo ministro olandese, Mark Rutte, che si è dato il ruolo del duro di turno, l’impostazione concorrente è che i paesi accusati di essere “spendaccioni” non debbono essere premiati con sussidi da non rimborsare, ma debbono essere richiamati a mettere ordine nelle loro economie e nella loro governance. Potranno avere prestiti, ma non soldi a fondo perduto, sulla base di programmi chiaramente delineati lungo le linee elaborate dalla Commissione: economia verde, digitale e inclusiva.
É opinione molto diffusa che questo primo incontro non porterà ad una decisione. Quello che conta, però, è di quanto le distanze si ridurranno, quando si terrà il prossimo incontro e a chi saranno affidate le decisioni e l’attuazione del piano di ripresa e rilancio. Mai come in questa situazione si può affermare che “il tempo è denaro”. La Cancelliera Merkel e con lei la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen puntano a chiudere entro luglio. Comunque i fondi non potranno arrivare prima del gennaio 2021. Poiché in Consiglio si voterà è importante sapere che saranno necessarie maggioranze qualificate (e non l’unanimità) per costruire le quali la capacità negoziale di Angela Merkel, la sua pazienza e, naturalmente, l’autorità che le deriva dall’essere alla guida del paese più forte, possono risultare decisive. Credo che il Consiglio andrà nella direzione desiderata dall’Italia (e non solo). Il quanto dipenderà dalle argomentazioni di Conte e dalla sua capacità di convincere che l’Italia ha progetti quasi pronti e fattibili per i quali spendere i fondi che le saranno assegnati. Ancora una volta entrerà in gioco la credibilità politica e personale. Così sia.
Pubblicato AGL il 16 luglio 2020
Fondi europei: danke, Frau Merkel
Sapere chiedere i fondi europei e saperli spendere: questo è il doppio problema al quale il governo italiano, a cominciare dal Presidente del Consiglio, deve trovare una soluzione rapida e convincente. Invece, la risposta di stampo “sovranista” data da Conte alla cancelliera Merkel, che in Italia i conti li fa lui, è vaga e evasiva. Quei conti, il Presidente del Consiglio italiano non riuscirà mai a farli tornare da solo. Avrà bisogno, e (quasi) tutti gli italiani con lui, dei molti miliardi di euro che le istituzioni europee, Commissione e Banca Centrale e poi Consiglio dei capi di governo, metteranno a disposizione dell’Italia. Dunque, la risposta giusta alla Cancelliera Merkel era: “danke, discutiamone e cerchiamo di farli arrivare presto”.
Il grande economista Keynes, che sta assistendo a un meritato rilancio delle sue ricette di sostegno dello Stato alle attività economiche e sociali, sapeva che il tempo conta e che nel lungo periodo saremo tutti morti. Il rischio è che, in assenza di sussidi e di prestiti, molti in Italia e in Europa, comincino a morire già nel breve periodo. Conte voleva sostanzialmente dire alla Merkel che non vuole, per ideologia sua? o forse perché i Cinque Stelle vi si oppongono?, fare ricorso ai 36-37 miliardi di Euro disponibili prestissimo attraverso il Meccanismo Economico di Stabilità (MES). Sono fondi da restituire a bassissimo tasso di interesse entro una decina d’anni, ma da utilizzare esclusivamente per spese sanitarie dirette e indirette. I critici italiani sostengono, senza prove, che quei fondi sarebbero una specie di cavallo di Troia attraverso il quale poi le istituzioni europee, nelle quali sarà opportuno ricordarlo, l’Italia è presente in ruoli non marginali: Presidenza del Parlamento Europeo, un Commissario proprio all’Economia, finirebbero per dettarci politiche economiche e sociali di lacrime e sangue. Credo che i critici sbaglino alla grande e rilevo che quei miliardi di euro non soltanto creerebbero molti posti di lavoro duraturi con assunzioni di personale sanitario, ma rilancerebbero l’economia attraverso la produzione e le esportazioni con investimenti mirati nel settore bio-medicale, nel quale l’Italia ha già più di una eccellenza.
C’è di più. Le parole della Merkel, non nota per essere particolarmente espansiva, vanno prese molto sul serio da due punti di vista. Il primo riguarda la possibilità che gli Stati cosiddetti frugali vedano la loro posizione contraria ai sussidi all’Italia rafforzata dal fatto che Conte non chiede i miliardi del MES. Allora, perché consentirgli di ottenere 175 miliardi di Euro come ha suggerito la Commissione? Il secondo punto di vista dal quale valutare quanto detto da Angela Merkel è che sarà proprio lei a guidare l’Unione nel semestre 1 luglio-31 dicembre. Poiché potrebbe essere il suo canto del cigno, Merkel vuole lasciare un segno molto positivo. Ha detto a Conte che se l’Italia fa quel che deve le sarà più facile aiutarla. La risposta di Conte è stata inadeguata.
Pubblicato AGL il 28 giugno 2020
Le gambe corte dei sovranisti dello stivale @EURACTIVItalia
Il sovranismo è poca dottrina e molta pratica deludente. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sostengono che l’Italia ha colpevolmente ceduto parte della sua sovranità oppure che, altrettanto colpevolmente, se n’è fatta espropriare dai burocrati e dagli eurocrati di Bruxelles. Su queste affermazioni senza fondamento hanno conquistato voti, ma non sono in grado di elaborare una dottrina. “Prima gli italiani” è affermazione vaga e propagandistica. Contiene di tutto un po’ tranne che un progetto. Nella pratica va subito a cozzare con “Prima gli Ungheresi”, “Prima i Polacchi” e, naturalmente, “America, first”. Però, l’America è lontana, molto più lontana della Russia di Putin, amico e, forse, in qualche modo, finanziatore della Lega. Invece, ungheresi e polacchi, i “veri” finlandesi, i “democratici” svedesi, i “fortunosi” olandesi e via via tutti i sovranpopulisti dell’Europa contemporanea non sono amici. Inevitabilmente, costitutivamente, i sovranisti non possono trovare alleati a livello sovranazionale se non in chiave negativa: contro, per l’appunto, coloro che perseguono politiche di coordinamento e collaborazione che tentano di combinare interessi e preferenze, valori e obiettivi in partenza “nazionalmente” diversi.
Salvini e Meloni queste modalità di accordi con le loro controparti sovraniste non le hanno trovate, e non soltanto per loro personale incapacità. Con la sua Forza Italia, Berlusconi si era trovato regolarmente in contrasto con i Popolari Europei, del cui gruppo nel Parlamento europeo pure faceva parte (grazie ai suoi molti “numeri”, ma mi concedo di non essere più preciso…). Nei suoi non luminosissimi anni di governo, Berlusconi si era spessissimo trovato in contrasto con la Commissione Europea, in chiara minoranza nel Consiglio Europeo, critico delle scelte che venivano fatte fino ad attribuire la sua fuoruscita dal governo nel 2011 ad un complotto metà “europeo” metà ordito dal Presidente francese Nicholas Sarkozy e dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel. Da qualche tempo, non saprei con quale credibilità, Berlusconi sembra essere diventato l’anima europeista del centro-destra italiano. In una certa misura questa (ri)conversione è dovuta ad Antonio Tajani. Infatti, come potrebbe l’ex-Presidente del Parlamento europeo manifestare atteggiamenti anti-europeisti? Con quale coerenza politica e personale potrebbe schierarsi contro scelte e politiche che i Popolari europei (a cominciare dalla democristiana Ursula von der Leyen) formulano, appoggiano e approvano, contribuiscono ad attuare? Berlusconi deve anche avere pensato che con la sua posizione di europeista può attirare voti di elettori italiani conservatori, ma non anti-europei. Anche a Forza Italia manca, però, una qualsiasi elaborazione culturale relativa all’Europa che vogliono.
Ciò detto, è la dura lezione dei fatti che si è abbattuta, attraverso il Coronavirus, sulla Lega e su Fratelli d’Italia nonché, naturalmente e giustamente, anche sugli altri sovranisti del continente. Da solo, nessun paese si risolleverà facilmente, meno che mai, anche perché più pesantemente colpita, l’Italia. Salvini e Meloni hanno un bel dire che l’Unione Europea deve fare di più, dare di più, impegnarsi di più, ma il fatto rimane che l’Unione Europea sta facendo qualcosa che nessuno Stato-membro riuscirebbe a fare da solo. Sta concedendo fondi non nella disponibilità di qualsiasi singolo Stato. Sta proiettandosi anche nel futuro con impegni che nessun sovranista può assumere e il cui adempimento non sarebbe comunque in grado di garantire. In ultima istanza, il sovranismo è “bellum omnium contra omnes” sul campo di battaglia europeo (e poi, Trump volendo, mondiale: distruzione di quel che rimaneva dell’ordine internazionale liberale). L’Unione Europea è condivisione, collaborazione, trasformazione. Allora, i sovranisti del nostro stivale debbono alzare la voce per coprire il silenzio delle loro non-proposte e le loro contraddizioni. Continueranno a farlo fino all’afonia.
Pubblicato il 4 giugno 2020 su euractiv.it
Che la pioggia sia benefica #decretorilancio
Il decreto del governo annunciato ad aprile è slittato a maggio e continua a essere oggetto di molti desideri e di molte revisioni. Comprensibilmente, da più parti vengono richieste di correzioni e di inserimenti, di maggiori stanziamenti e di provvedimenti più mirati. Tantissimi italiani sono stati colpiti dalla pandemia, hanno subito gravi danni, cercano in qualche modo di ripartire, ma hanno bisogno di aiuto, di un giusto sostegno alle loro attività. Da un lato, arrivano richieste di finanziamento prioritario ad attività strategiche e, comunque, cruciali, come sono quelle di un buon numero di imprese. Dall’altro, vi sono coloro che, giustamente, mettono in rilievo che il tessuto produttivo italiano è fatto di una miriade di piccole e medie imprese, molte a base famigliare, ma anche capaci di dare lavoro ad un grande numero di persone. Poiché il denaro disponibile, pure tenendo conto degli ingenti fondi che verranno da fonti europee, Banca Centrale e Commissione, non potrà coprire tutti i bisogni, il governo deve scegliere. Ovviamente, i partiti della coalizione hanno le loro preferenze calcolate anche, senza scandalo, tenendo conto dei rispettivi elettorati. Non potrebbe essere diversamente in una democrazia rappresentativa. Mi pare che decidere di concentrare gli sforzi e i fondi su alcuni pochi settori, solo le grandi imprese, trascurando, per esempio, del tutto il settore del turismo, lasciare in secondo piano l’agricoltura in una fase delicata di raccolti che richiedono lavoratori stagionali, aprirebbe seri conflitti sociali e non necessariamente darebbe gli sperati risultati economici e sociali.
Quando si parla di finanziamenti a pioggia spesso lo si fa per criticarli come se la loro caratteristica dominante fosse quella della dispersione. Invece, no, i finanziamenti a pioggia possono, debbono essere e spesso sono finanziamenti certamente diffusi, ma mirati. I governanti hanno il compito e dovrebbero anche avere la capacità di individuare una pluralità di settori nei quali fare investimenti che salvino attività ritenute importanti adesso, per la ripresa, e in prospettiva, per una crescita vigorosa, ma che diano risultati positivi in tempi brevi. L’azione virtuosa dei governanti consiste anche nel giustificare perché preferire alcune scelte rispetto ad altre, e nello spiegare in quale direzione pensano che i fondi siano meglio indirizzati e utilizzati, magari tenendo conto delle specificità delle aree territoriali e dei distretti industriali italiani. Le tensioni e i conflitti che vediamo nella maggioranza sono fisiologici poiché rappresentano alternative plausibili che discendono anche dalla grande differenziazione che caratterizza la società italiana. Forse nelle scelte, anche dolorose, dei governanti vorremmo vedere che idea di paese hanno, quale Italia dopo la tremenda ancora non conclusa esperienza della pandemia intendono ricostruire. Che la pioggia degli interventi sia, dunque, strategicamente diffusa e benefica.
Pubblicato AGL il 13 maggio 2020
Il gioco duro della Corte Costituzionale tedesca #Karlsruhe
Da qualsiasi parte la si giri e la si guarda, la sentenza della Corte Costituzionale tedesca è una brutta roba. Dichiarando sostanzialmente illegale l’acquisto di bond da parte della Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi, incide pesantemente sui poteri e sui comportamenti sia della Corte di Giustizia Europea (CGE) sia, per l’appunto, su quello che potrebbe/potrà fare la Banca Centrale oggi guidata da Christine Lagarde. Non tenendo in nessun conto il giudizio della Corte Europea, la Corte Costituzionale tedesca fa fare un lungo passo indietro al processo di integrazione fra gli Stati-membri dell’Unione che la CGE ha sempre assecondato con le sue sentenze di stampo coerentemente europeo. Se altre Corti Costituzionali seguissero la sentenza tedesca di “diritto europeo” non si potrebbe più in nessun modo parlare. La Banca Centrale Europea dovrà rispondere alle obiezioni della sentenza tedesca e certamente lo farà giustificando le modalità con le quali Draghi aveva attuato il programma noto come quantitative easing. Però, anche una ottima, e possibile, giustificazione potrebbe non essere sufficientemente poiché la sentenza della Corte tedesca è diretta ad impedire alla Bundesbank di partecipare al programma di Quantitative Easing e di conseguenze a programmi simili che la Banca Europea intenda mettere in campo per contrastare l’emergenza del Covid-19. Anche in questo caso, il precedente avrebbe conseguenze gravissime se fosse invocato anche da altre banche centrali. All’entrata a gamba tesissima della Corte Costituzionale tedesca nel campo di gioco europeo, molti sono i giocatori che debbono attivarsi se vogliono preservare non solo le possibilità di una risposta condivisa e efficace al Civid-19, ma anche quella di interventi futuri della Banca Centrale. Al momento, non mi pare che la sentenza tedesca sia stata colta in tutta la sua portata di estrema gravità. Forse per rassicurarci, il ministro dell’Economia Gualtieri ha detto che non cambia nulla. Temo, al contrario, che possa e debba cambiare molto. Il senso del cambiamento sarà notevolmente negativo se la Banca Centrale sarà costretta a limitarsi nell’ampiezza dei suoi interventi e la Bundesbank si ritrarrà in tutto o in parte. Il senso del cambiamento potrà risultare positivo se verrà riaffermato il ruolo superiore della Corte di Giustizia Europea e se la Commissione Europea e il Consiglio dei capi di Stato e di governo riusciranno ad adottare rapidamente gli emendamenti necessari ai Trattati. Purtroppo, la procedura è lunga e richiede l’unanimità nel Consiglio.
Pubblicato AGL il 7 maggio 2020
Avanti a piccoli passi. Basterà?
In giornata, rigorosamente in collegamento telematico, si riunirà l’Eurogruppo, vale a dire, i 19 ministri economici dei paesi europei della zona dell’Euro. Hanno il molto arduo compito di convergere su misure che, da un lato, consentano di attutire il tremendo impatto del coronavirus un po’ su tutte le economie dell’Unione Europea; dall’altro, di decidere quali interventi adottare per rilanciare la crescita economica il più presto possibile. Nella discussione svoltasi finora sono emerse soprattutto le preoccupazioni, se non addirittura, l’ostilità di alcuni paesi, in particolare l’Olanda, a soccorrere i paesi del Sud Europa, in special modo l’Italia. Per dirla brutalmente, una parte di governi europei, praticamente sempre gli stessi, ad eccezione della Francia, pensano che alcuni governi/paesi/cittadini europei siano inaffidabili, indisciplinati, spreconi (addirittura “peccatori”) e si rifiutano di allargare i cordoni della borsa neanche se quei paesi e i loro capi di governo si “pentono”. Quello che sembra sfuggire ai virtuosi, olandesi in testa, ma anche agli austriaci e, con qualche titubanza, ai tedeschi, è che le conseguenze economiche del coronavirus rischiano di travolgere persino le loro stesse “frugali” economie. Qualcuno pensa che non venire in aiuto dell’Italia (e della Francia e della Spagna) significherebbe travolgere l’Unione Europea. Le soluzioni tecniche praticabili sono numerose, ma, una, quella del ricorso al Meccanismo Europeo di Stabilità, appare inaccettabile all’Italia perché potrebbe implicare un controllo esterno stringente e rigoroso, esagerato sull’intera economia italiana, una messa sotto tutela. Invece, quello che una composita coalizione di 9 stati, fra i quali gli italiani e i francesi vorrebbero è l’emissione dei cosiddetti coronabond finanziati da tutti gli Stati-membri e garantiti dalla Banca Centrale Europea. Di fronte all’opposizione dura e intransigente di alcuni stati del Nord Europa, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha formulato una proposta a più ampio raggio definita SURE: Sostegno per mitigare l’Unemployment (la disoccupazione) e i Rischi nella Emergenza, dotato di 100 miliardi di euro più una serie di altri interventi anche per le banche sui quali non sembrano esserci obiezioni. Da ultimo, i Commissari italiano Paolo Gentiloni e francese Thierry Breton hanno proposto la creazione di un Fondo Europeo per l’emissione di obbligazioni a lungo termine. È possibile che anche questa soluzione incontri la contrarietà dell’Olanda, mentre la Germania ha segnalato disponibilità purché quel Fondo sia chiaramente considerato eccezionale. Nella riunione dell’Eurogruppo forse si raggiungerà un compromesso con molti paletti limitativi e si farà qualche piccolo passo avanti. Non è l’ultima occasione per l’Europa, ma è preoccupante che a più di 60 anni dal Trattato di Roma alcuni Stati fondatori non abbiano compreso che la solidarietà è il pilastro sul quale si fonda e dovrebbe funzionare l’Unione.
Pubblicato AGL il 7 aprile 2020
Unione Europea in movimento
I numeri contano. La Presidente Ursula von der Leyen e l’intera Commissione hanno ricevuto dal Parlamento europeo un vero e proprio voto di fiducia: 461 voti a favore (contro i 423 ottenuti dalla Commissione Juncker) 157 contrari (contro i 209 precedenti). Abbiamo assistito a un limpido confronto fra gli europeisti e i sovranisti dei più vari colori. La sconfitta dei secondi, fra i quali si sono, naturalmente e coerentemente collocati la Lega di Salvini e i Fratelli d’Italia di Meloni, è stata molto netta. Adesso, la Commissione potrà affrontare i problemi dell’Unione, quelli urgenti, immigrazione e mutamenti climatici, e quelli strutturali, rilancio della crescita e contenimento/riduzione delle diseguaglianze, sapendo di godere di ampio sostegno dal Parlamento europeo e, al tempo stesso, nella consapevoIezza che quel Parlamento la stimolerà all’azione e ne controllerà l’operato. Molto opportunamente, la Presidente von der Leyen ha sottolineato che la composizione della Commissione è quasi giunta alla parità uomini/donne e che questa parità è un obiettivo da perseguire e conseguire nei prossimi cinque anni in tutte le situazioni rilevanti, lavoro e compensi inclusi. A fronte dei molti, troppi critici preventivi pieni di pregiudizi che comunicano spesso molto malamente quello che fanno parlamento e Commissione, e sostengono una sorta di immobilismo delle istituzioni europee, la realtà è, dunque, molto diversa. Il Parlamento europeo ha continuato a conquistare spazio, non solo in termini di rappresentanza dei cittadini europei, ma di influenza sulla Commissione. Formalmente, non possiede il potere di iniziativa legislativa, ma i potenti Presidenti delle Commissioni parlamentari sanno come comunicare le loro preferenze a Commissione e Commissari che, a loro volta, sono molto ben disposti poiché sono le loro convergenze e i loro accordi a consentire di superare le eventuali obiezioni e resistenze del Consiglio dove seggono i capi dei governi degli Stati membri. Dal punto di vista istituzionale, la situazione è in movimento poiché è oramai diffusa la consapevolezza che l’Unione sarà in grado di procedere alle molte scelte necessarie, fra le quali non bisogna affatto sottovalutare quelle della politica estera, della difesa e della sicurezza, soltanto superando malposte visioni nazional-sovraniste. Poiché su quelle materie, il Consiglio è tuttora obbligato a decidere all’unanimità, il prossimo passaggio sicuramente conflittuale consisterà proprio nel tentativo di superamento dell’unanimità. Dando enorme potere a un solo qualsiasi stato, che può bloccare tutti, ad esempio, impedendo, come ha fatto Macron, di aprire la procedura di adesione a Albania e Macedonia del Nord, l’unanimità è una regola non democratica: uno conta più di qualsiasi maggioranza. La sua abolizione consentirà non soltanto di dare maggiore rapidità e efficacia alle procedure decisionali dell’Unione, ma anche di proseguire il cammino verso un’Unione più stretta, un’Europa federale.
Pubblicato AGL il 28 novembre 2019