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Tag Archives: Marco Valbruzzi
INVITO Scienza Politica e Cultura politica. La lezione di Giovanni Sartori #8maggio Accademia Nazionale dei Lincei #Roma
Palazzo Corsini
Via Della Lungara, 10
SCIENZA POLITICA E CULTURA POLITICA
LA LEZIONE DI GIOVANNI SARTORI
15.00
Saluto della Presidenza
15.15
Marco TARCHI (Università di Firenze):
La specificità della scienza politica di Sartori
15.45
Steven B. WOLINETZ (Memorial University of Newfoundland, St. John’s, Canada):
Sartori and the study of political parties: Lessons we should learn – or re-learn
16.15
Sorina Cristina SOARE (Università di Firenze):
La democrazia di Sartori e il populismo
Intervallo
17.00
Marco VALBRUZZI (Università di Bologna):
La missione della scienza politica: sapere applicabile e rilevante
17.30
Gianfranco PASQUINO (Linceo, Università di Bologna):
La sfida alle culture politiche
PRESENTAZIONE – Giovanni Sartori (1924-2017) è stato uno dei più importanti scienziati politici del XX secolo. Autore di libri fondamentali quali Democrazie e definizioni (1957); Parties and party systems (1976); The Theory of Democracy Revisited (1987); Ingegneria costituzionale comparata (1995); editorialista del “Corriere della Sera” per più di quarant’anni, Sartori ha contribuito in maniera decisiva allo sviluppo della scienza politica. Attraverso le sue brillanti analisi, Sartori ha costantemente operato per approfondire la conoscenza del funzionamento dei sistemi politici e per migliorare la cultura politica dei cittadini e delle élite.
Convinto della necessità e della possibilità di applicare le conoscenze acquisite e prodotte dalla scienza politica, Sartori ha sempre accompagnato le sue ricognizioni dei più significativi fenomeni politici con indicazioni intese a cambiarne in maniera positiva le conseguenze prevedibili. Dalle leggi elettorali ai sistemi dei partiti, dalla rappresentanza politica alle forme di governo, i contributi di Sartori mantengono una straordinaria vitalità e attualità. Giorno dopo giorno, in Italia e altrove, è possibile rendersi conto quanto gli insegnamenti di Sartori continuino ad essere essenziali e quanto una cultura politica più attenta alle lezioni della sua scienza politica sarebbe in grado di contribuire alla qualità della politica nelle democrazie.
PROGRAMMA SCIENZA POLITICA E CULTURA POLITICA. LA LEZIONE DI GIOVANNI SARTORI

ROMA – PALAZZO CORSINI – VIA DELLA LUNGARA, 10 Sito web: http://www.lincei.it
Segreteria del convegno: fox@lincei.it
Post-millennials e futuro della politica #Introduzione a “Giovani e futuro della politica. Oltre il disincanto”
A cura di Gianfranco Pasquino
Paradoxa, ANNO XII – Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2018

Giovani e futuro della politica. Oltre il disincanto
Paradoxa, ANNO XII – Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2018
indice del fascicolo
Post-millennials e futuro della politica
Introduzione di Gianfranco Pasquino
Interrogarsi sui giovani è, logicamente e inevitabilmente, interrogarsi sul futuro: sul loro, ma anche su quello che rimane del nostro. È cercare di capire che cosa diventerà l’Italia e che cosa ne sarà dell’Europa. È cercare di capire quali modelli hanno i giovani, quali prospettive perseguono, quali valori ispirano i loro comportamenti. Gli articoli di questo fascicolo cercano in particolare di capire, dall’angolo visuale della “formazione”, come i giovani, spesso criticati per le loro mancanze e il loro distacco, si rapportano alla politica. Come vi sono arrivati, se vi pervengono effettivamente, quali novità è possibile riscontrare nel loro percorso, se tale può essere definito il tragitto attraverso il quale acquisiscono la consapevolezza che la politica conta per loro anche contro di loro, le loro preferenze, la loro disponibilità, se qualcosa si è rotto nella trasmissione di interesse e di informazione dalle “vecchie” generazioni a quelle attuali.
È opinione diffusa, e non intendiamo smentirla, che, almeno superficialmente, ma per percentuali molto elevate di giovani, la politica, passiva (quella che si riceve) e attiva (quella che si fa) riscuota un’attrattività decisamente scarsa, comunque inferiore a quella della media della Repubblica. Chi scrive pensa che, anche per lui, la politica com’è fatta in Italia da qualche decennio, meriti di essere tenuta a distanza, ma, qui sta una differenza verticale, per osservarla, studiarla e valutarla meglio. Forse, però, la distanza dei giovani dalla politica non dipende soltanto e neppure principalmente dalla sua scarsa attrattività, ma essenzialmente da qualcosa che, persino in Italia, è andato perduto, vale a dire dalla mancanza di sedi e di luoghi di discussione e di formazione politica. Per quanto giustamente criticati, i partiti italiani avevano in modalità diverse offerto notevoli occasioni di incontri e di formazione politica a centinaia di migliaia di giovani (anche a quelli del Sessantotto). Potremmo discutere della qualità di quella formazione politica, ma non della sua esistenza, non della sua diffusione, non, aggiungo, del fatto che conteneva anche aspetti positivi fra i quali includerei quello di interazioni non banali e non sterili fra giovani di estrazione e di status diversi.
Non intendo idealizzare nessun passato, meno che mai il Sessantotto, che merita di essere richiamato esclusivamente perché per molti giovani rappresentò un’esperienza politica formativa, ma certamente criticabile, l’ho fatto altrove, da molti altri punti di vista. Anzi, sono giunto a pensare che il surplus di politica di quegli anni ha avuto come conseguenza un surplus di riflusso per molti di quei giovani diventati padri e madri, nonne e nonni dei millennials, i quali non hanno poi sentito parlare di politica dai loro parenti più stretti. Il rapporto surplus/exit è una chiave interpretativa plausibile. Altra chiave, forse in grado di aprire una porta teorica e conoscitiva più ampia, è quella della trasformazione della società e della democrazia prima e più che della trasformazione, che c’è stata e continua, della politica.
Se fossi un giovane oggi da quali canali di informazione e di “formazione” trarrei lo stimolo a interessarmi alla politica, a partecipare ad attività politiche, addirittura a impegnarmi politicamente? Rivolgo grato la memoria, prima, al mio professore di Storia e Filosofia del Liceo Cavour di Torino, poi a quello straordinario corpo di docenti dell’allora Corso di Laurea in Scienze Politiche di Torino, irripetibile nelle qualità dei singoli, delle loro esperienze di vita, del loro insegnamento (anche con lo stile), della cultura politica diffusa nella città di Gobetti e Gramsci. Poi torno, non con i piedi, ma con la testa in terra, per riflettere. Lo fanno, anche loro sulla base di esperienze personali e competenze scientifiche, i collaboratori di questo fascicolo. Ne concludo drasticamente, perché troppi distinguo (in molti casi dalla indubbia valenza ipocrita che credo scoraggiante per i giovani) non giovano né alla diagnosi né alla prognosi, che purtroppo, la politica di oggi, non solo, ma soprattutto in Italia, è proprio la logica conseguenza di una cattiva, se non sostanzialmente inesistente, formazione in termini di conoscenze, di atteggiamenti, di (non evasione delle) responsabilità. Non intendo assumermi nessuna responsabilità personale né addossarla a tutta la mia generazione. Semmai responsabili sono le generazioni successive che hanno distrutto la “vecchia” politica senza sapere costruirne una nuova e migliore. Ho fatto (e continuo a fare) tutto il possibile per spiegare la politica, per praticarla (a molti livelli), per predicarla. Più il tempo passa più mi rendo conto che rimane molto da fare, ma per riuscire a tras/formare la politica mi sembra indispensabile conoscere chi avrà, se lo vorrà, il compito di pensare al suo ruolo e alla trasformazione che desidera, per l’appunto, i giovani.
Quale partito per il prossimo segretario del PD?
Dalla rumorosa cavalcata di Veltroni nell’estate-autunno 2007 fino all’inusuale ri-elezione nel 2017 di un ex-segretario sconfitto al referendum costituzionale, le battaglie (impropriamente definite “primarie) per la conquista della segreteria del Partito Democratico hanno regolarmente eluso il tema di “quale partito” debba essere il PD. Tutti i potenziali segretari hanno raccontato qualche storia più o meno credibile, più o molto meno nuova, più o meno infiorettata, sulle “magnifiche sorti e progressive” che avrebbero introdotto nel governo del paese. Con quale partito non si è saputo mai. Con quale successo lo si è visto poi. Nelle democrazie contemporanee, alla faccia di tutte le estemporanee analisi che accentuano la personalizzazione della politica (in Svezia? Norvegia? Danimarca? Finlandia? Germania? Gran Bretagna? tutte democrazie davvero pochissimo “personalizzate”, e altre se ne potrebbero aggiungere), che sostengono che i partiti sono spariti, che trovano, per assolvere gli italiani, inconvenienti simili alla sgangherata politica italiana un po’ dappertutto, i partiti continuano a esserci, in uno stato di salute accettabile, e quelle che chiamiamo crisi della democrazia sono problemi di funzionamento nelle democrazie. Quei problemi sono più evidenti e più gravi proprio laddove i partiti sono più deboli. Incidentalmente, le alternanze al governo non sono mai la causa dei problemi, ma neppure la loro magica soluzione. Marco Valbruzzi mi ha insegnato che quelle alternanze frequenti sono semplicemente il prodotto della competizione fra partiti indeboliti che non riescono a mantenere “fermo” il consenso ottenuto da una elezione alla successiva. La volatilità elettorale è inevitabilmente più alta dove i partiti sono “qual piume al vento” e non dove sono radicati. Sulla volatilità del consenso del PD, se i dirigenti del partito smettessero di raccontarci i loro sogni e studiassero un po’ di analisi elettorali, qualcosa potrebbero imparare. La prima lezione è, come si conviene, tanto elementare quanto fondamentale. Laddove l’organizzazione del partito tiene il consenso elettorale fluttua poco. La seconda lezione è quella operativa. Se i dirigenti del partito si occupano di cariche e di carriere e non della presenza organizzata sul territorio, anche le cariche e le carriere diventano a rischio. Allora, bisogna proteggerle con le candidature multiple e le nomine dall’alto. La legge Rosato ha avuto questo unico esito protettivo che, naturalmente, prescindeva dallo stato del partito ed è andato a scapito della rappresentanza politica.
La campagna per l’elezione del prossimo segretario è sostanzialmente già partita, “sottotraccia” dicono i retroscenisti, ma già narrata in maniera più o meno fake da giornaliste e giornalisti che hanno fonti amiche. Sappiamo di contrapposizioni fra persone, con l’obiettivo prevalente del due volte ex-segretario (e lo scrivo due volte apposta) di bloccare chi è a lui ostile, per un insieme di ragioni che nulla hanno a che vedere con le modalità con le quali sarà ricostruito il Partito Democratico oppure si porranno le premesse per un altro partito. Che Renzi e i renziani siano totalmente disinteressati al PD è lampante. Con grande loro compiacimento personale, hanno nel tempo consentito a Ilvo Diamanti di scrivere tre o quattro articoli su “Repubblica” centrati, pardon, sbilanciati proprio a favore del Partito di Renzi (PdR). Tuttavia, un partito è più di una fazione di carrieristi e, quando i carrieristi perdono, il deflusso di parte di loro, spesso senza un ancoraggio sul territorio (anche perché paracadutati), è fisiologico, alla ricerca di chi offrirà altre opportunità di carriera. Qui sta, naturalmente, il problema di come (ri)costruire il partito sostituendo parte grande di quella classe dirigente. Dal mio allievo Angelo Panebianco ho imparato molto tempo fa che i partiti non possono mai cambiare completamente. Cambiano attraverso spostamenti interni che producono nuove coalizioni dominanti. In questo modo, è nato, frettolosamente e balordamente, nonostante le critiche apertamente rivoltegli, il PD.
Probabilmente, gli spostamenti cominceranno a fare la loro comparsa al momento delle candidature alla segreteria. In particolare, non tanto curiosamente, conteranno le “desistenze” a favore di chi. L’ultimo ex-segretario vorrà certamente continuare, scrivono le giornaliste, a dare le carte, ma quante carte gli saranno restate? Il punto, che dovrebbe preoccupare di più chi pensa che senza partiti e senza un’opposizione strutturata sul territorio nessun sistema politico può funzionare in maniera decente e nessuna democrazia può avere una qualità accettabile, è che i candidati dovrebbero formulare prioritariamente con il massimo di chiarezza possibile la loro idea di partito e non annunciare un programma di governo, per un governo che senza un partito decente non formeranno mai. Schematicamente (estesamente, riflessioni e proposte di notevole qualità si trovano nel volume di Antonio Floridia, Un partito sbagliato. Regole e democrazia interna del PD, di prossima pubblicazione), ecco i temi da trattare: iscritti, sedi, attività, modalità di consultazione e decisione, procedure per la scelta dei dirigenti e dei candidati, e, oso al massimo, “cultura politica” (quindi, anche strumenti per la formazione). Nulla di tutto questo è particolaristico e specialistico. Questa è politica: come rapportarsi alle persone, come rappresentarne idee, preferenze, emozioni, come contribuire alla loro capacità di comprendere e di fare politica. Per rendere meno sgradevole l’inverno del nostro scontento.
Pubblicato il 7 settembre 2018 su PARADOXAforum
Bologna, il voto e le sue periferie #4giugno @nomismaustampa @Ist_Cattaneo
Nomisma Sala Convegni
Strada Maggiore, 44 Bologna
4 giugno ore 17.30
Bologna, il voto e le sue periferie
Interpretazione e commento
Gianfranco Pasquino

LOCANDINA
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Bologna, il voto e le sue periferie 4 Giugno 2018
E invece si deve stare con il Colle

di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi
C’è qualcosa di strano, ma anche di profondamente sbagliato, nelle reazioni con cui molti costituzionalisti e commentatori hanno accolto le decisioni del Presidente della Repubblica che hanno certificato il fallimento del tentativo di formare un governo M5S e Lega. Strano è, soprattutto, perché molti di quei commentatori e costituzionalisti – che oggi scagliano critiche più o meno velate a Sergio Mattarella – erano al nostro fianco nella giusta battaglia referendaria a difesa della Costituzione del 1948 e contro il “pasticciaccio brutto” elaborato dal governo Renzi e dai suoi esperti di corte/giglio.
La Costituzione che abbiamo protetto da attacchi smodati e sgrammaticati il 4 dicembre 2016 è la stessa che consente al Presidente della Repubblica di esercitare tutte le sue prerogative nella “nomina” – che non deve affatto essere acritica o automatica – del Presidente del Consiglio e, su “proposta” di questi, dei ministri. Di conseguenza, il Presidente della Repubblica ha anche la prerogativa di respingere alcuni nominati. Esistono illustri precedenti, notissimi e anche “riservati”. Mattarella è rimasto pienamente dentro il perimetro tracciato dalle regole costituzionali. Chi critica la presidenza della Repubblica per il suo comportamento e per il suo eccessivo interventismo nella vicenda del governo Conte critica, inconsapevolmente o meno, la Costituzione così come la conosciamo e come l’abbiamo difesa nel referendum costituzionale.
Tra i giuristi critici delle decisioni di Mattarella ci sono anche coloro che fondano il loro giudizio su valutazioni politiche o strategiche. La colpa del Presidente della Repubblica sarebbe allora quella di aver aperto un’autostrada elettorale ai partiti anti-establishment, favorendone una loro ulteriore espansione. A nostro parere, il Quirinale non deve mai chiudere un occhio (politico) sulle sue prerogative (costituzionali). Non deve mai subordinare le sue precise responsabilità istituzionali a valutazioni politiche contingenti e espedienti. Deve sempre agire come garante dell’unità nazionale e dei Trattati dall’Italia firmati. Chi critica Mattarella per le conseguenze politiche derivanti delle sue decisioni costituzionalmente ineccepibili non si rende conto che sta criticando – direttamente o indirettamente – le regole costituzionali e la loro rigorosa applicazione. La Costituzione – ma davvero dopo la campagna referendaria dobbiamo ancora ribadirlo? – non è un testo à la carte, dove si può prendere solo quello che ci fa comodo. Cedere sui principi fondamentali per motivazioni e preoccupazioni politiche sarebbe il modo peggiore per difendere la Costituzione.
Da ultimo, ci sorprende non poco che chi oggi massimizza le critiche al Presidente Mattarella – per questioni di forma o di sostanza poco importa – al contempo minimizza gli attacchi virulenti che ha subito negli ultimi giorni la Presidenza della Repubblica, compresa l’insana richiesta di messa in stato d’accusa (incidentalmente, giustificabile solo per alto tradimento o attentato alla Costituzione). E la messa in stato d’accusa sarebbe, secondo l’uomo della Terza Repubblica, Luigi Di Maio, la “parlamentarizzazione” della crisi? Difendere il Quirinale da atteggiamenti intrinsecamente illiberali e incostituzionali, che non ammettono nessun freno o controllo alla sovranità popolare, che, notoriamente (art. 1), deve esprimersi “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, non vuol dire schierarsi acriticamente al fianco della figura del capo dello Stato. Vuole dire, più semplicemente, stare dalla parte della Costituzione e della democrazia, leggendo e interpretando la prima come il quadro nel quale dobbiamo tutti agire, valorizzando la seconda come esito insopprimibile del rapporto fra regole e potere dei cittadini.
Pubblicato il 30 maggio 2018
IL VICOLO CIECO LE ELEZIONI DEL 4 MARZO 2018 #Bologna #21maggio @librerieCoop #ilVicoloCiecoTour @Ist_Cattaneo
Librerie.coop Zanichelli, piazza Galvani, 1/H
lunedì 21 maggio 2018 alle ore 18
Presentazione del libro
IL VICOLO CIECO
LE ELEZIONI DEL 4 MARZO 2018
dell’Istituto Carlo Cattaneo
(il Mulino)Intervengono Gianfranco Pasquino e Paolo Pombeni
Con la presenza dei curatori
Marco Valbruzzi e Rinaldo Vignati
Modera Olivio RomaniniEsistono due tipi di elezioni: quelle «ordinarie», che registrano il presente, e quelle «straordinarie», che segnano una frattura tra il mondo di ieri e il mondo di domani. Il voto del 4 marzo si inserisce pienamente nella seconda categoria. Per cogliere la portata «radicale» del cambiamento innescato da questo voto non giovano però interpretazioni affrettate né reazioni «a caldo». Mettendo a frutto una pluridecennale esperienza maturata nel campo degli studi politico-elettorali, l’Istituto Carlo Cattaneo offre con questo volume un’analisi del voto ancora una volta rigorosa e articolata. Sono così approfonditi temi quali l’offerta politica, le risposte degli elettori e il ruolo del sistema elettorale. Ad arricchire la disamina, sono proposte alcune riflessioni che si interrogano sulle cause che hanno condotto la politica italiana nel «vicolo cieco» in cui è precipitata e sulle possibili vie d’uscita

I libri di una vita. Gianfranco Pasquino li/si racconta
Roma 22 febbraio 2018 Fondazione Nova Spes
Gianfranco Pasquino e i libri della sua vita: quelli scritti, quelli ricevuti in dono e mai dimenticati, quelli amati.
Quattromilatrecento volumi, affidati alla Fondazione Nova Spes, catalogati e disponibili alla consultazione.
In dialogo con il suo ultimo bravissimo allievo Marco Valbruzzi, ricorda i suoi maestri Norberto Bobbio e Giovanni Sartori e attribuisce loro la “responsabilità” di quello che è diventato.
Caos e alternanza
Due o tre cose che sappiamo sull’alternanza
di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi
L’alternanza “vera”, alla cui mancanza Paolo Mieli addebita, sulla scia di un libro di Massimo Salvadori (Storia d’Italia, crisi di regime e crisi di sistema 1861-2013, Il Mulino 2013), i mali dell’Italia, il caos italiano, si manifesta quando un partito (o una coalizione) viene sostituito/a al governo da un altro partito (o coalizione). In blocco. Queste sostituzioni, sostiene Mieli, avvengono e sono avvenute dappertutto. In Italia, praticamente mai. Non è esattamente così; anzi, non è proprio così. L’alternanza pura e dura, totale, è un fenomeno raro. Qualcuno, Giancarlo Loquenzi, prende ad esempio gli USA sostenendo che Repubblicani e Democratici si alternano in blocco frequentemente. Non è così. I numeri sono probanti e non difficili da trovare. Molto materiale utile/issimo si trova nel volume curato da me e da Marco Valbruzzi, Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo (Bononia University Press 2011). Qui ci limiteremo ad alcune poche notazioni con riferimento ai casi tedesco e austriaco, nei quali si sono appena svolte le elezioni politiche e al caso USA.
Dal 1949 al 2017, la Germania ha sperimentato una sola alternanza completa/totale vale a dire nella quale i due partiti al governo (democristiani e liberali) hanno perso le elezioni e sono andati a fare l’opposizione ai due partiti (socialdemocratici e verdi) subentrati al governo: 1998-2005. Prima di allora c’erano state esclusivamente sostituzioni parziali con i Liberali, partito al governo dal 1949 al 1966 con i democristiani e dal 1969 al 1982 con i socialdemocratici, poi, nuovamente, dal 1982 al 1998 e dal 2009 al 2013 con i democristiani. Tre grandi coalizioni 1966-1969; 2005-2009; 2013-2017. No, l’alternanza completa non è stata la modalità prevalente di cambio dei governi in Germania. Eppure, nessuno scriverebbe di “caos tedesco” e nessuno direbbe che la carenza di alternanza ha prodotto malgoverno.
L’Austria non è un caso molto dissimile dalla Germania (vedi fig. 1). Ci sono state Grandi Coalizioni dal 1947 al 1966; un governo monocolore Democristiano dal 1966 al 1970; un’alternanza nel 1970 con un governo monocolore Socialdemocratico durato fino al 1983; un governo Socialdemocratici-Liberali dal 1983 al 1987; una Grande Coalizione dal 1987 al 1999. Poi governo dei Democristiani con i Liberali di Haider dal 1999 al 2002. Poi soltanto Grandi Coalizioni. Quindi, se i Popolari faranno una coalizione con i Liberali sarà semplicemente una semi-rotazione governativa. No, l’alternanza non abita neanche in Austria.
Quanto agli Stati Uniti d’America, un conto sono le elezioni presidenziali vinte da un candidato Repubblicano o da un candidato Democratico: alternanza alla Casa Bianca, sostanzialmente e significativamente favorito dal limite di due soli mandati; un conto molto diverso è l’alternanza fra Repubblicani e Democratici in Congresso. Spesso, infatti, i Presidenti dell’uno o dell’altro partito non hanno avuto la maggioranza del loro partito sia al Senato sia alla Camera dei Rappresentanti. Il fenomeno del “governo diviso” ha segnato quarant’anni dal 1945 ad oggi, ovvero più della metà del tempo. Dal novembre 2016 con o sotto Trump i Repubblicani controllano entrambi i rami del Congresso. Soltanto se, fenomeno assolutamente improbabile, i Democratici riuscissero a conquistare le due maggioranze nelle elezioni di metà mandato del 2018 potremmo parlare di alternanza (termine praticamente inusitato nel linguaggio politico USA), ma rimarrebbe il potere presidenziale ad impedire l’attuazione di un programma democratico.
Insomma, non sembra proprio che l’alternanza costituisca la modalità prevalente dei cambi di governo nelle democrazie contemporanee, persino a prescindere dalle leggi elettorali. Ma, poi, lasciando da parte le malposte aspettative di leggi elettorali malcongegnate: è l’alternanza che produce buona politica oppure, piuttosto, è la buona politica che pone le condizioni dell’alternanza? O, forse, è la cattiva politica, prodotta da mediocri governanti, che apre la porta all’alternanza?
Pubblicato il 26 ottobre 2017 si La Terza Repubblica
Italia non è Europa: solo da noi sono proibite le preferenze
di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi
Per arricchire e migliorare il dibattito in corso, che non riguarda soltanto la legge elettorale, ma il ruolo dei partiti e si spinge, percettibilmente, fino alla forma di governo, vorremmo precisare quattro punti secondo noi di grande importanza.
Primo, lo Statuto del Partito Democratico afferma che il Segretario è automaticamente candidato alla carica di Presidente del Consiglio. Giusto. Ricordiamo, però, che nel 2012 il segretario Bersani accettò la sfida di Renzi e, fin troppo generosamente, concesse le primarie. Di più, non avendo nessuno dei candidati superata la soglia del 50 per cento concesse anche il ballottaggio. Nell’aprile 2017 Renzi è stato rieletto alla Segreteria del partito. Quelle furono votazioni per quella specifica carica che non debbono essere definite primarie (quanti guasti continua a fare l’uso indiscriminato di questo termine). Se il Partito Democratico farà, come sembra, una coalizione con altri partiti (ma non aveva giurato e spergiurato di non volere le coalizioni?), il candidato a capo di governo non potrà essere automaticamente il segretario del partito. Dovrà, invece, logicamente e politicamente, essere selezionato con le primarie, proprio come avvenne con Prodi nel fatidico ottobre 2005.
Secondo, abbiamo forse, anche noi, sbagliato nell’insistere sul (mis)fatto che la legge elettorale Rosato, più dell’Italicum, probabilmente non meno del Porcellum, produrrà un Parlamento di nominati. Desideriamo cambiare il termine: parlamentari diventeranno i predestinati. Vogliamo dire che, sì, certo, i partiti possono accampare il diritto di “nominare” (designare) i loro candidati, ma agli elettori deve essere concesso di scegliere fra quei candidati: promuovere e bocciare. È avvenuto così dal 1946 al 1992 quando gli elettori avevano tre/quattro voti di preferenza. È avvenuto nei collegi uninominali del Mattarellum dove, designati dal loro partito, sia lo stesso Mattarella sia Mario Segni furono sconfitti dal voto. Invece, tanto la designazione in un collegio uninominale quanto l’ordine di collocazione in una lista proporzionale determineranno le chance di elezione dei candidati che non potranno fare nulla per cambiare il loro destino. Quasi tutti, anche grazie alle candidature multiple, sapranno di essere e saranno predestinati alla Camera e al Senato. Non dovremmo scandalizzarci, si sostiene poiché anche altrove, dappertutto. è così. Sono i partiti che designano, che nominano, che predestinano. No, non è così.
Terzo, ma non vorrete mica reintrodurre le preferenze, meccanismo produttore di corruzione e che, peggio, consentirebbe poi ai magistrati con loro interventi selettivi di ridefinire la composizione del Parlamento? Ricordiamo che il primo referendum elettorale, 9 giugno 1991, questa è la data da celebrare, portò alle urne, contro praticamente tutti i gruppi dirigenti dei partiti, il 62,5 per cento di italiani con il 90 per cento e più che approvò il ricorso ad una sola preferenza da esprimere, per evitare facili brogli, scrivendo il cognome del/la candidato/a preferito/a. Si tenne una sola elezione politica con la preferenza unica nel 1992, probabilmente quella con meno brogli in assoluto [G. Pasquino, a cura di, Votare un solo candidato. Le conseguenze politiche della preferenza unica, Il Mulino 1993]. Una preferenza servirebbe agli elettori per cambiare l’ordine delle candidature nelle circoscrizioni. La replica è debolissima: gli elettori italiani fanno scarso uso delle preferenze. Uno su tre su scala nazionale, ma sei su dieci nelle regioni meridionali: voto di scambio, voto di scambio, corruzione, magistratura etc. Forse, no, ma…
Quarto, soltanto in Italia e, detto da Paolo Mieli a La7, in Grecia, in Zambia (complimenti per le conoscenze comparate) e in Corea del Nord (al cui proposito nessun commento è possibile), esiste il voto di preferenza. Tagliamo la testa al toro con la tabella qui presentata dalla quale si evince facilmente come un po’dappertutto in Europa all’elettorato siano dati alcuni strumenti per la scelta del candidati al Parlamento.
Clicca sulla tabella per ingrandire l’immagine
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Naturalmente, chi sa di essere stato inviato in Parlamento dagli elettori a quegli elettori renderà conto di quello che ha fatto, non fatto, fatto male e da loro imparerà che cosa correggere e quali sono le priorità e le soluzioni auspicate. Chi è stato designato dai capi partito e capi-corrente e predestinato allo scranno parlamentare saprà perfettamente di quali “opinioni” (siamo nel pudicamente corretto) tenere conto, a prescindere da quelle di elettori che non conosce, che non conoscono lui/lei, che non avranno nessuna influenza sulle ricandidature e sulle rielezioni. Questo è quanto sappiamo. Non è poco.
Pubblicato il 18 ottobre 2017







