di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi
C’è qualcosa di strano, ma anche di profondamente sbagliato, nelle reazioni con cui molti costituzionalisti e commentatori hanno accolto le decisioni del Presidente della Repubblica che hanno certificato il fallimento del tentativo di formare un governo M5S e Lega. Strano è, soprattutto, perché molti di quei commentatori e costituzionalisti – che oggi scagliano critiche più o meno velate a Sergio Mattarella – erano al nostro fianco nella giusta battaglia referendaria a difesa della Costituzione del 1948 e contro il “pasticciaccio brutto” elaborato dal governo Renzi e dai suoi esperti di corte/giglio.
La Costituzione che abbiamo protetto da attacchi smodati e sgrammaticati il 4 dicembre 2016 è la stessa che consente al Presidente della Repubblica di esercitare tutte le sue prerogative nella “nomina” – che non deve affatto essere acritica o automatica – del Presidente del Consiglio e, su “proposta” di questi, dei ministri. Di conseguenza, il Presidente della Repubblica ha anche la prerogativa di respingere alcuni nominati. Esistono illustri precedenti, notissimi e anche “riservati”. Mattarella è rimasto pienamente dentro il perimetro tracciato dalle regole costituzionali. Chi critica la presidenza della Repubblica per il suo comportamento e per il suo eccessivo interventismo nella vicenda del governo Conte critica, inconsapevolmente o meno, la Costituzione così come la conosciamo e come l’abbiamo difesa nel referendum costituzionale.
Tra i giuristi critici delle decisioni di Mattarella ci sono anche coloro che fondano il loro giudizio su valutazioni politiche o strategiche. La colpa del Presidente della Repubblica sarebbe allora quella di aver aperto un’autostrada elettorale ai partiti anti-establishment, favorendone una loro ulteriore espansione. A nostro parere, il Quirinale non deve mai chiudere un occhio (politico) sulle sue prerogative (costituzionali). Non deve mai subordinare le sue precise responsabilità istituzionali a valutazioni politiche contingenti e espedienti. Deve sempre agire come garante dell’unità nazionale e dei Trattati dall’Italia firmati. Chi critica Mattarella per le conseguenze politiche derivanti delle sue decisioni costituzionalmente ineccepibili non si rende conto che sta criticando – direttamente o indirettamente – le regole costituzionali e la loro rigorosa applicazione. La Costituzione – ma davvero dopo la campagna referendaria dobbiamo ancora ribadirlo? – non è un testo à la carte, dove si può prendere solo quello che ci fa comodo. Cedere sui principi fondamentali per motivazioni e preoccupazioni politiche sarebbe il modo peggiore per difendere la Costituzione.
Da ultimo, ci sorprende non poco che chi oggi massimizza le critiche al Presidente Mattarella – per questioni di forma o di sostanza poco importa – al contempo minimizza gli attacchi virulenti che ha subito negli ultimi giorni la Presidenza della Repubblica, compresa l’insana richiesta di messa in stato d’accusa (incidentalmente, giustificabile solo per alto tradimento o attentato alla Costituzione). E la messa in stato d’accusa sarebbe, secondo l’uomo della Terza Repubblica, Luigi Di Maio, la “parlamentarizzazione” della crisi? Difendere il Quirinale da atteggiamenti intrinsecamente illiberali e incostituzionali, che non ammettono nessun freno o controllo alla sovranità popolare, che, notoriamente (art. 1), deve esprimersi “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, non vuol dire schierarsi acriticamente al fianco della figura del capo dello Stato. Vuole dire, più semplicemente, stare dalla parte della Costituzione e della democrazia, leggendo e interpretando la prima come il quadro nel quale dobbiamo tutti agire, valorizzando la seconda come esito insopprimibile del rapporto fra regole e potere dei cittadini.
Pubblicato il 30 maggio 2018