All’interrogativo, di grande e persistente rilevanza, “governo degli scienziati o governo dei politici”, mi sorge spontanea una risposta: governo degli scienziati politici. Poi penso ai miei colleghi “scienziati politici”, molti dei quali non vorrei certamente al governo, e subito torno indietro nel tempo. Come sappiamo, Platone si schierò a favore degli scienziati del suo tempo: i filosofi-re.
Duemila anni dopo o poco più, Karl Popper lo accusò, fra l’altro, di avere dato inizio al pensiero totalitario. Altri filosofi ateniesi non condividevano affatto la soluzione ottimale proposta da Platone. Per esempio, Aristotele che, pure, aveva i titoli per aspirare ad essere incluso fra i filosofi-re, si espresse per un governo misto che vorrei interpretare come il governo dei sapienti e dei “potenti”. Per molto tempo, il problema non si pose più quando era la Chiesa a dettare cosa era accettabile, anche scientificamente, e che cosa doveva essere rigettato.
Ne sa qualcosa Galileo Galilei, fondatore dell’Accademia dei Lincei, costretto ad un’abiura totalmente contrastante con quanto aveva scoperto e con il suo stesso metodo: “provando e riprovando”. Trial and error sta alla base della scienza, ma anche delle democrazie, gli unici regimi che possono permettersi di affidarsi al pluralismo competitivo delle idee e delle teorie credendo fino in fondo nella riformabilità degli esiti e nel superamento, Popper ha scritto “falsificazione”, delle teorie.
In effetti, il dilemma “scienziati/politici” ha senso esclusivamente dove gli scienziati possono condurre le loro ricerche in totale libertà e anche in trasparenza e dove, a loro volta, i politici entrano in competizione per ottenere il consenso, sempre revocabile, dei loro concittadini. Nei regimi non-democratici, che includono tutti gli autoritarismi e anche le teocrazie, sono coloro che hanno in qualche modo acquisito il potere e lo usano ai fini della loro riproduzione a decidere quanta discrezionalità lasceranno agli scienziati e quanto delle risultanze delle loro ricerche vorranno usare. Comunque, agli scienziati non sarà mai lasciata neppure una briciola di effettivo potere decisionale.
Può darsi che le scelte contemporanee siano diventate relativamente molto più complesse di quelle del passato e che quindi richiedano l’apporto decisivo degli scienziati, ma da nessuna parte gli scienziati hanno ottenuto in proprio il potere politico. Semmai, quello che dovrebbe preoccupare di più è che gli scienziati siano in grado di influenzare le decisioni dei politici senza che lo si sappia, in maniera opaca e oscura. Fra le promesse non mantenute della democrazia in quanto ideale Norberto Bobbio includeva quella di non avere eliminato/illuminato gli arcana imperii. Come la scienza, la democrazia esige trasparenza, ma ad entrambe non possiamo negare spazi di riservatezza. Non vorrei neppure fare degli scienziati dei semplici subalterni “portatori d’acqua” ai politici che, poi, si vanterebbero delle soluzioni che funzionano e farebbero degli scienziati i capri espiatori delle soluzioni che fallissero.
Allora, tertium datur. Fra gli scienziati o, più semplicemente, i conoscitori delle materie, e i politici debbono instaurarsi rapporti di scambi di idee, di confronti, ma anche di scontri. Il film Tredici giorni, sulla crisi dei missili sovietici installati a Cuba, riesce, credo senza volerlo, a offrire un’ottima rappresentazione degli “scambi” possibili. I consiglieri del Presidente Kennedy suggeriscono soluzioni praticabili, argomentandole e contraddicendo il Presidente: “no, Mr President”.
A sua volta, il Presidente ascolta, inquisisce, spiega la sua propensione ad una specifica scelta, se ne assume la responsabilità politica. Coloro che riconoscono l’autonomia sia della scienza sia della politica democratica sono consapevoli che, per lo più, il procedimento democratico si basa sull’interazione fra persone libere che si espongono di fronte ai loro concittadini: la politica scientificamente informata.
Pubblicato il 23 marzo 2021 su Parliamoneora.it