
Schedare i dirigenti, i parlamentari nazionali e i parlamentari europei del Partito Democratico per stabilirne vicinanza/lontananza politica rispetto alla segretaria Schlein e al Presidente Bonaccini è operazione giornalistica tanto frequente quanto sterile. Registra l’esistenza di un partito pluralistico, anche frammentato, però rappresentativo di una molteplicità di preferenze e esigenze presenti nella società italiana e non riducibili alla schematica contrapposizione, sostanzialmente geografica,” Ztl contro periferie”. Quasi nulla può consentire di credere che gli elettori del PD che risiedono nelle Ztl non siano interessati alle politiche che potrebbero migliorare la vita dei “periferici” Se i disinteressati sono i candidati poi parlamentari del Partito Democratico, allora il discorso diventa un altro e riguarda più propriamente il ceto politico del Partito e soprattutto chi e con quali modalità sceglie le candidature e fa eleggere i parlamentari, a chi quei parlamentari rispondono: ai dirigenti che li hanno nominati, ai gruppi esterni, ad esempio, la CGIL o qualche organizzazione cattolica, che li hanno sponsorizzati, all’elettorato di quel collegio, evidentemente solo, caso nient’affattto frequente, se di quel collegio sono espressione, ad una più o meno loro incerta idea di Partito Democratico?
Questo, troppo facilmente tralasciato, è il punto molto dolente. Quale idea hanno dirigenti e parlamentari del partito nel quale militano, operano, fanno senza scandalo carriera? Dalla collocazione nell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici degli eletti del PD al Parlamento Europeo è possibile trarre una prima conclusione solida: il PD è un partito europeista e progressista. Poi, però, in un voto importante sul sostegno militare all’Ucraina scopre che una parte dei parlamentari europei è favorevole, una parte contraria, una parte si astiene pencolando per il no, la posizione ufficiale dell’Alleanza Progressista essendosi espressa a favore. Quale è, dunque, l’europeismo del PD, natura, sostanza, prospettive?
Sinteticamente è corretto affermare che un partito è una organizzazione di uomini e donne che presentano candidature alle elezioni, ottengono voti, vincono cariche. Questa definizione si attaglia bene a molti partiti del passato, ma forse ancor più ai partiti contemporanei. Però, altri partiti, socialisti, comunisti, democristiani, liberali e fascisti, avevano e alimentavano una ideologia, quantomeno una cultura politica con obiettivi da perseguire, modalità da utilizzare, principi da fare valere e da attuare. Pallidamente queste culture politiche esistono ancora un po’ dappertutto dove i partiti se ne fanno portatori. Un po’ dappertutto le destre hanno resuscitato idee e pratiche fasciste mai pienamente sconfitte, talvolta abbellendole e rafforzandole con quel nazionalismo anti-Unione Europea che si esprime sotto forma di sovranismo.
Non essendo mai riuscito ad amalgamare il meglio delle culture politiche riformiste italiane, giunte esauste e svuotate al 2007 (anno della fondazione), il Partito Democratico ha la sua maggiore, spesso non riconosciuta, debolezza nella sostanziale mancanza di una cultura politica sufficientemente robusta e condivisa nel suo, anzi, scriverò al plurale, nei suoi gruppi dirigenti e fra i suoi parlamentari e governanti. Non hanno letto gli stessi libri e, forse, ne hanno letti pochi. Non è chiaro quali obiettivi sociali e culturali condividono. La loro Europa, grande progetto politico tuttora in corso, sarà una federazione politica ricomprendente tutte le democrazie del continente?
Un partito, sempre potenzialmente di governo, comunque indispensabile anche quando è all’opposizione, deve volere e sapere elaborare una cultura politica, di principi e valori, che ne guidi l’azione. Quella cultura servirebbe come efficace collante del pluralismo interno e diventerebbe stabile e convincente punto di riferimento per un elettorato composito. La sua assenza fa problema.
Pubblicato il 9 luglio 2025 su Domani