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Capitale sociale e coronavirus

Nell’estate del 1995 si ebbe a Chicago una straordinariamente intensa ondata di calore con altissimo indice di umidità e temperature ben al disopra dei 40 gradi. Inevitabilmente seguirono numerosi decessi, in particolare fra le persone anziane, ma nient’affatto distribuiti in maniera uniforme nei diversi quartieri della città. Una originale ricerca riscontrò che il tasso di mortalità era stato molto più elevato fra le persone che vivevano da sole in zone nelle quali non operava nessuna associazione in grado di aiutarli con cibo, acqua, rassetto dell’abitazione, compagnia. Nel caso delle carestie alcune ricerche hanno provato che laddove esistevano organizzazioni capaci di reperire e smistare le pur poche risorse alimentari, le conseguenze negative per persone e animali sono state considerevolmente limitate. Di fronte a disastri naturali, come terremoti e inondazioni, la disponibilità e capacità delle persone coinvolte a cooperare aiutandosi vicendevolmente consentono di limitare i danni e di procedere con maggiore rapidità e successo alla ricostruzione e al ritorno alla vita “normale”. Da tempo, alcuni sociologi particolarmente avveduti hanno studiato questi fenomeni nei quali la cooperazione anche fra persone che non si conoscono produce effetti positivi parlando di “capitale sociale”. Una buona rete di relazioni interpersonali basata sulla fiducia è davvero un capitale che può, in casi di bisogno, essere messo a frutto. Le società che dispongono di molteplici reti interpersonali e, di conseguenza, di notevole capitale sociale diventano più prospere e resistono meglio a fronte delle emergenze.

Riflettevo su queste conoscenze da tempo acquisite e oramai consolidate nella ricerca sociologica mentre guardavo rattristato e allarmato le immagini dei piccoli comuni della Lombardia e quello veneto di Vo’: strade deserte, serrande dei negozi abbassate, nessun movimento, nessun segno di vita. Sappiamo che così deve essere secondo le autorità mediche e civili poiché il coronavirus si trasmette attraverso il contatto fra persone. Per evitare il contagio e impedire esplosione e diffusione di una pandemia l’unica strategia possibile, comunque la migliore, è tenersi lontani gli uni dagli altri. Anche laddove esiste capitale sociale, con tutta probabilità in quei comuni lombardi, dove in altre condizioni i cittadini si aiuterebbe reciprocamente, bisogna rinunciarvi perché il suo ricorso sarebbe del tutto controproducente. Invece di avere fiducia gli uni negli altri siamo invitati a essere sospettosi. In chiesa i fedeli debbono rinunciare a scambiarsi “il segno della pace”. Gli amici non possono incontrarsi. I parenti non debbono organizzare riunioni e momenti di convivialità. Gli estranei non si avvicinino a meno di due metri di distanza. Nessuno, tranne il personale medico, può aiutare nessuno tranne tenendosene alla larga. Il coronavirus sta bruciando tutto il capitale sociale esistente. Superata la pandemia fino a quando rimarremo sospettosi e diffidenti?

Pubblicato AGL il 24 febbraio 2020


1 commento

  1. francopis ha detto:

    Gent. Prof. Pasquino,
    il momento è vissuto con molta apprensione, se non con paura o addirittura panico, come è naturale che sia quando si diffonde (autorità e media) il sentimento di essere minacciati da un pericolo anche mortale da cui non si può difendere.
    Franco Pischedda

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