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La fantasiosa riforma di Meloni. Il suo Premierato è inesistente @DomaniGiornale

Premierato inesistente. Il disegno di legge costituzionale per “l’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri” mira a conseguire tre obiettivi: dare stabilità ai governi, conferire maggiore potere ai cittadini elettori, impedire la formazione di governi tecnici più o meno conseguenza di “ribaltoni”. Produrrebbe una inusitata forma di governo denominata “premierato”, oggi non esistente da nessuna parte al mondo (solo Israele la ha implementata, tre volte 1996, 1999, 2001 [E. Ottolenghi, Israele: un premierato fallito, in G. Pasquino (a cura di), Capi di governo, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 155-181] poi debitamente abbandonata. Chiaro che gli italiani potrebbero anche innovare, ma che nel mondo delle democrazie, in particolare di quelle parlamentari, nessuna sia andata in quella direzione, qualcosa vorrà pur dire. Proseguire senza punti di riferimento implica anche affrontare inconvenienti e ostacoli imprevedibili dai quali sarebbe preferibile che il sistema politico italiano si tenesse lontano.

   Comunque, nessun premierato stava come proposta di riforma costituzionale nel programma elettorale di Fratelli d’Italia. Vi si trova, invece, il presidenzialismo, non meglio precisato, come non lo era quello proposto dal Movimento Sociale Italiano e da Giorgio Almirante, ma sicuramente inteso come strumento contro i partiti. Peraltro, in alcune dichiarazioni precedenti Giorgia Meloni si era personalmente espressa a favore del semi-presidenzialismo francese che, a sua volta, è alquanto diverso dal presidenzialismo USA (o latino-americano). L’obiettivo meloniano è totalmente ideologico. A prescindere da qualsiasi considerazione istituzionale, tecnica, di fattibilità, di funzionalità, Giorgia Meloni fermamente vuole l’elezione diretta del capo dell’esecutivo. Il resto si vedrà. Sottolineo qui che l’idea che le forme di governo a noi note e praticate rispondano a logiche costituzionali e politiche differenti e cogenti non sembra essersi ancora affermata fra commentatrici/tori, parlamentari e, talvolta, neppure fra i docenti di diritto.

Un punto, però, è chiarissimo: il capo dell’esecutivo dovrà essere eletto dal popolo. Quel che manca salta subito agli occhi. Non c’è nessuna indicazione delle modalità con le quali svolgere quelle elezioni. Se ne può dedurre che verrà dichiarato/a eletto/a il candidato/a che ha ottenuto il più alto numero di voti che potrebbero anche essere meno, molti meno della maggioranza assoluta. Ma è molto probabile che la Corte Costituzionale richieda l’indicazione tassativa di una soglia percentuale minima. Nei presidenzialismi latino americani e delle Filippine, nei semipresidenzialismi dalla Francia a Taiwan, da molti Stati africani ex-colonie francesi, pour cause, in non pochi sistemi politici ex-comunisti (Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Ucraina) dell’Europa centro-orientale, quando nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta si passa al ballottaggio fra i primi due piazzati cosicché il vincente è sempre eletto dalla maggioranza dai votanti. Per l’avversione al ballottaggio espressa dal centro-destra, il vincente in Italia potrebbe essere scelto da una minoranza dei votanti. Comunque, alla coalizione a suo sostegno verrà attribuito il 55 per cento dei seggi, non è specificato, ma è ipotizzabile, in entrambi i rami del Parlamento.

Premierato dimezzato. Formalmente, l’eletto continuerà a essere “nominato” dal Presidente della Repubblica, ma sostanzialmente il Presidente si sentirà/sarà obbligato a nominare chi ha vinto. Quindi, non potrà esercitare nessun potere di scelta in nessuna imprevedibile circostanza. In flagrante contraddizione con la sua “elezione popolare diretta”, il Presidente del Consiglio potrà essere sostituito in Parlamento da un parlamentare, non da un “tecnico” (termine con il quale spesso ci si riferisce ad un non-parlamentare dotato di competenze), della sua stessa maggioranza, con il Presidente della Repubblica nuovamente obbligato a ratificarne l’assunzione della carica. Questo non direttamente non popolarmente eletto potrà a suo piacimento chiedere in qualsiasi momento lo scioglimento del Parlamento al quale il Presidente della Repubblica non avrà modo di opporsi, neppure volesse e riuscisse ad argomentare che una sua esplorazione scoprirebbe l’esistenza di una maggioranza anche solo leggermente diversa, ma operativa. Il premierato Italian-style distrugge la flessibilità/adattabilità che è probabilmente il pregio più significativo delle forme di governo parlamentare che risolvono i conflitti e superano le tensioni dentro il Parlamento senza procedere a più o meno frequenti e dispendiosi richiami dell’elettorato alle urne in situazioni spesso confuse talvolta rischiose.

Ad ogni buon conto, la sostituzione in Parlamento del Presidente del Consiglio cozza non soltanto con l’asserita volontà di avere un Presidente del Consiglio eletto dal popolo, presidio di stabilità governativa e quindi messo in condizione di esercitare le sue capacità decisionali, ma anche con l’obiettivo di dare vita a governi di legislatura. Inoltre, il subentrante all’eletto dal popolo, da un lato, godrà di minore legittimità, all’altro, sarà naturalmente debitore della carica ai leader dei partiti della maggioranza parlamentare che lo ha espresso e che deciderà come, quando e quanto sostenerlo. Spesso, sarà prodromo dello scioglimento anticipato del Parlamento, forse diventando anche il leader della coalizione e il candidato alla Presidenza del Consiglio con notevole vantaggio di visibilità. Non tanto incidentalmente, è immaginabile, comunque essenziale, che nell’iter della discussione del disegno di legge costituzionale, si affronti anche il tema del sistema elettorale da utilizzare per il Parlamento.

Premierato rampante. Da ultimo, il ddl abolisce i senatori a vita nominati dai Presidenti, ma mantiene come Senatori a vita gli ex-Presidenti della Repubblica, attualmente nessuno. Se è giusto sostenere che la rappresentanza politica in democrazia deve essere elettiva (magari facendo qualche riflessione sulla Camera dei Lords, nessuno dei cui componenti, in parte ereditari in parte nominati dal Primo ministro e ratificati dal Re, è eletto dal popolo britannico), allora coerentemente neppure gli ex-Presidenti della Repubblica dovrebbero diventare senatori a vita.

   Che brutto contentino per il Presidente della Repubblica che sarà privato, come in sequenza, ma senza particolare originalità (dal canto mio lo misi in evidenza in un articolo pubblicato su questo giornale il 1 novembre), hanno notato sia Gianni Letta sia Giuliano Amato, persone informate dei fatti e dei misfatti, dei due poteri significativi e qualificanti, lo ripeto: nomina del Presidente del Consiglio (e su proposta di questo i ministri) e scioglimento o no del Parlamento. Sono questi i poteri che hanno fatto del Presidente della Repubblica italiana un attore istituzionale capace di essere freno e contrappeso a eccessi, errori, esasperazioni di non pochi governi e governanti italiani.

    Fin dall’inizio costituzionalmente rappresentante dell’unità nazionale e riequilibratore del sistema politico, il Presidente della Repubblica verrà ridotto a figura cerimoniale e confinato al ruolo di predicatore disarmato e di tagliatore di nastri. Dal canto suo, il Presidente del Consiglio, legittimato dall’elezione popolare diretta, non vede meglio definiti e accresciuti i suoi poteri, mentre il subentrante sarà al massimo il postino della maggioranza. Molto rumor per nulla? No, l’esito prevedibile si configura come anticamera di tensioni soltanto in parte imprevedibili e premessa, più o meno consapevole e deliberata, di accentuate pulsioni populiste e di confusa deriva simil-autoritaria. Già, perché sull’onda del suo consenso diretto e popolare, il Presidente del Consiglio che non ottenesse presto e subito quel che vuole si sentirebbe frustrato e, in maniera rampante, procederebbe a forzature. Ma, di questo, un’altra volta un altro articolo.

Pubblicato il 11 dicembre 2023 su Domani


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