Quanto è interessante sapere se, con le recentissime modifiche statutarie, il Movimento 5 Stelle si trasforma in partito? Se la sua molto eventuale trasformazione in tale senso ha un impatto elettorale oppure, a maggior ragione, sullo sgangherato sistema dei partiti italiani, allora è interessante esplorare, capire, valutare la trasformazione. Altrimenti, discuterne serve soltanto ad alcuni pochi politologi e giornalisti alla ricerca di qualche novità. I partiti come li abbiamo conosciuti (ma troppi se li sono già scordati) erano (sono) organizzazioni presenti sul territorio, con sedi e qualche, almeno sporadica, attività a contatto con “la gente”. Nessuna delle modifiche statutarie delle 5 Stelle va nella direzione di un’organizzazione di questo tipo. La struttura rimane quella che è: un vertice che controlla una piattaforma, una base neanche molto estesa, una rete di comunicazioni telematiche. Affari loro. Quello che conta, per chi accetta la definizione minima di partito (un’associazione di uomini e donne che presenta candidati alle elezioni, ottiene voti, vince seggi), è che le 5 Stelle compiono proprio questa attività fondante e caratterizzante. Come scelgono le candidature, come finanziano le campagne elettorali (purché rispettino le leggi vigenti), come pagano i costi della piattaforma (con contributi degli aderenti), sono, di nuovo, affari loro che toccherà semmai agli attivisti valutare, se del caso, criticare e, se ci riescono, cambiare.
Invece, risultano preoccupanti le nuove “norme” intese a imporre la disciplina agli eletti e a fare pagare ai dissenzienti il prezzo della, lo scrivo con retorica, libertà (di voto). Chi se ne va dai gruppi parlamentari delle 5 Stelle dovrà pagare una multa di 100 mila Euro (somma inferiore a quello che in un anno i parlamentari “guadagnano” come indennità). Alla Camera se ne sono andati 21 su 109; al Senato 19 su 53. In tutto 40 su 162, circa il 25 per cento: un salasso. Si capisce che il gruppo dirigente dei pentastellati voglia porre rimedio a questo brutto fenomeno. Che sia brutto lo pensano gli elettori di tutti i partiti. Chi lascia il partito nel e dal quale è stato eletto e va cercare fortuna (è un eufemismo) in un altro partito/gruppo è un voltagabbana, un cambiacasacca, un/a furbastro/a, un trasformista, diremmo noi che abbiamo studiato (sic). Dovrebbe, pensano e dicono la grande maggioranza degli elettori, dimettersi da parlamentare e lasciare il posto ad altri, sperabilmente, più disciplinati.
Il tema è vecchissimo; il dibattito ha avuto punte incandescenti in occasione, ad esempio, sia della scissione socialdemocratica nel 1947 sia di quella dello PSIUP nel 1964. Lasciate il partito che vi ha eletti in Parlamento? allora, andatevene subito anche fuori dal Parlamento. Qui, in gioco c’è l’assenza di vincolo di mandato che è l’architrave delle democrazie parlamentari, della rappresentanza politica. Imporre il vincolo di mandato richiede nel caso italiano la riforma dell’art. 67 della Costituzione. Politicamente richiede che esista un programma preciso che gli eletti abbiano approvato e s’impegnino ad attuare. Il voto di coscienza (e di conoscenza) dovrebbe comunque essere consentito su tutte le materie imprevedibili e impreviste sulle quali, ovviamente, non può essere stato conferito nessun mandato. Un effettivo vincolo di mandato rischierebbe di frustrare coloro che, fra i parlamentari delle Cinque Stelle, hanno/avranno idee e proposte innovative, migliori del non-programma del Movimento, proposte magari apprezzate e condivise dalla base (parola tipicamente “partitica”). Sarebbe, dunque, controproducente. Cambiare un articolo, importante e portante della Costituzione, si può, ma imporre il vincolo di mandato è un brutto cambiamento che soltanto coloro che hanno la vista molto corta possono desiderare. Grillo, Casaleggio e Di Maio sbagliano. Sono criticabili non perché “diventano” un partito, ma perché le loro nuove regole sono peggiorative.
Pubblicato AGL il 3 gennaio 2017