
L’ultima cosa che vorrei fare è dare troppa importanza al caso Calenda. In materia di autopubblicizzazione lui stesso ha già svolto il compito in maniera fin troppo egregia. Però, riflettere su quello che è successo e, soprattutto, su quello che potrà succedere, serve a comprendere alcuni aspetti, prevalentemente deteriori, della politica italiana. Il primo aspetto è molto visibilmente la personalizzazione della politica. Diventato ministro nel governo guidato da Enrico Letta, riconfermato nel successivo governo Renzi, il Calenda aderisce al Partito Democratico subito dopo la sconfitta elettorale del 4 marzo 2018. Poi nel gennaio 2019 decide di dare vita ad una sua associazione “Siamo Europei” che abilmente sfrutta per ottenere la candidatura come capolista per l’elezione del Parlamento Europeo, maggio 2029, del Partito Democratico nella circoscrizione Nord-Est. Le sue 275 mila preferenze sono, naturalmente, la logica conseguenza dell’indicazione del PD ai suoi attivisti e iscritti (sì, ci sono ancora tutt’e due) di dargli la preferenza piuttosto che della sua, pur esistente, personale popolarità. Nell’agosto 2019, in verticale dissenso con la scelta del PD di fare un governo con i Cinque Stelle, il Calenda abbandona il taxi democratico, con il quale era comunque arrivato a Bruxelles, e fonda una nuova formazione politica “Azione”. In una schieramento partitico tutto meno che consolidato, con milioni di elettori/trici insoddisfatti/e, quasi un terzo di loro disposti a cambiare comportamento di voto da un’elezione all’altra, lo spazio per la comparsa di nuovi veicoli politici rimane notevole. Quasi sicuramente, grande è anche l’insoddisfazione dei romani per quanto fatto, non fatto, fatto male dalla giunta guidata dal sindaco Virginia Raggi. La diffusa insoddisfazione può essere sfruttata, ha pensato e dichiarato il Calenda, da chi sostiene di non essere né di destra né di sinistra e che, inevitabilmente, mira a occupare uno spazio intermedio.
La autocandidatura di Calenda è del tutto legittima e, anche se risulta inevitabilmente sgradita ai dirigenti del PD, in parte è loro responsabilità. A fronte di tuttora possibili e auspicabili autocandidature di partito, il PD avrebbe dovuto subito affermare che procedeva a fissare le regole per le primarie, modalità e tempi. Peraltro, non sono solo i vertici romani a manifestare qualche volontà o incapacità di procedere con lo strumento democratico delle primarie, facilmente utilizzabili anche in epoca di distanziamenti. A Bologna, il non più rieleggibile sindaco ha precocemente incoronato un suo assessore. Qualche quotidiano riporta che, se lasceranno via libera al “candidato unitario”, si terrà conto degli altri assessori potenzialmente sfidanti nella determinazione “degli assetti della futura giunta”. Non è un semplice ritorno al passato, al quale il PD dovrebbe opporsi frontalmente. Piuttosto è un pessimo modo di fare politica finora apparentemente respinto dagli interessati (ma le pressioni su loro rimangono forti).
La cattiva politica del passato il Calenda la resuscita in maniera diversa, eticamente molto riprovevole. Se mai fosse eletto sindaco di Roma sarà costretto a tradire l’impegno preso con i 275 mila elettori che gli diedero la loro preferenza. Evidentemente, il Calenda non ritiene di doversi curare della rappresentanza di quegli elettori al Parlamento Europeo. Mi pare grave. Intravvedo, però, qualcosa che, su un piano diverso, è altrettanto, se non addirittura, più grave. Non mi riferisco al fatto probabile che la sua presenza sulla scena elettorale renderà più difficile la “corsa” della candidata/o del Partito Democratico poiché, certamente, questo è un obiettivo perseguito dal Calenda. Penso, invece, che, primo, per sei mesi almeno, in campagna elettorale, il Calenda si disinteresserà del Parlamento europeo. Secondo, che gli elettori romani avrebbero più di un motivo per temere che, vittorioso, il Calenda potrebbe essere un sindaco distratto da qualche sua ulteriore ambizione di politica nazionale e che, terzo, se sconfitto, potrebbe decidere di “rimanere” in Europa lasciando i romani che l’avessero votato privi della sua opera di oppositore a tutto campo. Un comportamento del genere nella Prima, nella Seconda, nella Terza e anche nella Repubblica di Calenda merita di essere definito irresponsabile.
Pubblicato il 23 ottobre 2020 su Il Fatto Quotidiano