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Gianfranco Pasquino “Torino ha imbalsamato Bobbio. Università e Comune si impegnino di più” #intervista @LaStampa

Intervista raccolta da Francesco Rigatelli

Il professore e allievo: “Per tenerlo vivo un ciclo di lezioni sui suoi temi, dalla pace alla disobbedienza”

«Lo hanno imbalsamato». Gianfranco Pasquino, 81 anni, torinese, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, difende la memoria del suo maestro Norberto Bobbio. «Il suo pensiero non è morto. Una volta mi disse che lo avevano idealizzato e non riuscivano a confrontarsi con lui. Il suo lascito è al Centro Gobetti, ma servirebbe un ciclo di lezioni a partire dalle sue tematiche, dalla pace alla disobbedienza civile, per tenerlo vivo. L’Università e il Comune dovrebbero impegnarsi di più e prendere iniziative di questo genere. L’unico tentativo in questo senso è quello di Biennale democrazia».

Che ricordi ha del suo maestro?

«Era il 1965. Mi laureai con lui come relatore con una tesi di Scienza politica. Il corso era stato attivato da poco. Io lo ebbi come docente anche di Filosofia del diritto. Teneva grandi lezioni con poche note, rari richiami all’attualità e provocando poche domande perché non ce n’era bisogna tanto era esauriente. Era il classico torinese riservato, serio senza essere severo, ironico senza esagerare».

Come scattò la scintilla tra voi?

«La mia tesi non fu eccezionale, ma ci fece incontrare diverse volte perché gli piaceva l’argomento: l’opposizione dei piccoli partiti al fascismo. Dopo andai all’estero e di ritorno mi disse che Giovanni Sartori, con cui si stimavano, cercava un assistente a Firenze. Mi spiegò che di solito non faceva raccomandazioni, ma che lo avrebbe informato della mia domanda se l’avessi presentata. Tempo dopo mi chiamò per affidarmi la redazione del dizionario Utet di politica e questo riaccese il nostro rapporto. Vinsi il concorso da professore a Bologna e tornavo a Torino per vedere mia mamma e Bobbio».

Com’erano i vostri incontri?

«All’inizio ruotavano attorno alla redazione del dizionario. Quando da parte di alcuni collaboratori arrivavano delle voci che non andavano bene lui faceva rispondere a me. Il rapporto divenne più personale e dal 1976 al 2004 anche la domenica mattina andavo in via Sacchi 66.Lui lavorava sempre e aveva quella che definiva “la rottura di palle”delle interviste che spesso lamentava non rappresentassero bene il suo pensiero. Ne ricordava in particolare una a L’Espresso che riteneva di non aver concesso».

Quali erano i suoi temi di conversazione preferiti?

«La politica, ma anche i romanzi di Pavese e Calvino o i sudamericani, e il cinema. Era un socialista di matrice azionista, dunque di grande etica, come i suoi amici tra cui su tutti Vittorio Foa. Non riuscì a fare politica perché nel 1946 non venne eletto alla Costituente e non ci riprovò. Ammirava Nenni e De Martino, mentre non condivideva i modi di Craxi, che lo definì “filosofo che aveva perso il senno”».

Qual era il suo pensiero politico?

«Riteneva che i comunisti potessero essere ricondotti alla democrazie e sostanzialmente aveva ragione. Il dialogo con loro, oltre che la sua oratoria e i suoi scritti su La Stampa, lo rese una figura centrale. Sperava in un grande partito laburista che combinasse socialisti e comunisti. Pertini lo nominò senatore a vita nel 1984. Nel 1992 circolò il suo nome per il Quirinale, ma rinunciò per non finire nel calderone come gli suggerii. Tutto cambiò quando Berlusconi vinse le elezioni. Era antropologicamente l’opposto di Bobbio, che si amareggiò profondamente. Da ultimo i leader del centrosinistra andavano a trovarlo per legittimarsi, ma lui era scettico. L’unico che stimava come persona era Prodi. Bobbio però non si sentiva un ulivista: la sinistra per lui aveva una storia e una prospettiva inestinguibili».

E il Bobbio filosofo?

«Rivaluterei Maestri e compagni, i profili dei personaggi da lui conosciuti. Non è tecnicamente filosofia, ma sono ritratti straordinari. Per il resto lui aveva due obiettivi: confrontarsi con i temi della vita e del mondo, dunque una filosofia di chiarimento concettuale. E pensare le azioni possibili e le loro conseguenze, dunque a cosa serve la filosofia e cosa può fare. In questo senso era il filosofo dell’Italia civile. Scrisse molto di pace e di ciò che è irrinunciabile a livello di valori, dal riconoscimento reciproco al rifiuto della guerra. Non era un filosofo mite, ma giusto».

Chi era il suo filosofo preferito? «Hobbes perché metteva ordine, era realista e aveva posizioni nette che lo affascinavano».

Pubblicato il 8 gennaio 2024 su La Stampa


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