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Pasquino: «Riforma Meloni mediocre e pasticciata. Ma la sinistra deve avere le idee più chiare» #intervista #avanti della domenica @Avantionline

Intervista raccolta da Giada Fazzalari

“Il Governo Meloni ha fatto poco, non ha dato il segno di una qualsiasi svolta significativa tranne per lo più quando parlano di diritti civili, diritti delle persone e diritti delle donne, dimostrano di essere abbastanza indietro con le loro proposte, un po’ bigotti e un po’ reazionari”

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, accademico dei Lincei, è autore di numerosi apprezzati testi. Il suo libro più recente, forse l’ultimo, è “Il lavoro intellettuale” (UTET 2023). È anche molto orgoglioso della quinta edizione, riveduta ed ampliata, del “Nuovo corso di scienza politica” recentemente uscita per Il Mulino, testo sul quale si sono formate generazioni di studenti. Pasquino, tra i più acuti intellettuali del nostro Paese, conoscitore, come pochi, dei meccanismi della politica, ci ha dato un parere sulla recente riforma costituzionale varata dal Consiglio del Ministri.

Allora professor Pasquino, che idea si è fatto di questa riforma che Meloni descrive come “la madre di tutte le riforme”?

«Prima di tutto non è la madre di tutte le riforme perché ci sono una serie di altri aspetti che non vengono neanche toccati, anche se vengono indicati vagamente: ad esempio la legge elettorale che potrebbe essere essa stessa la madre delle riforme. È una riforma mediocre, pasticciata, che non stava nel programma elettorale di Fratelli d’Italia, che diceva chiaramente di volere il semipresidenzialismo. L’opinione che mi sono fatto è che è una riforma sbagliata».

Ma Giorgia Meloni ha detto che l’obiettivo è garantire stabilità a chi governa. A suo avviso è così?

«Qui bisogna sapere distinguere tra la stabilità nella carica e la capacità di governare. Se vogliamo la stabilità nella carica, questa è assicurata certamente da un presidenzialismo vero, cioè quello degli Stati Uniti ad esempio. Trump è stato in carica quattro anni, ha governato molto male; Biden sarà in carica fino al 2024 governando un po’ meglio. Non sono uomini particolarmente capaci e sono anche piuttosto anziani, quindi privi di idee originali e proiettate nel futuro. Dunque, sì, il presidenzialismo garantisce stabilità nella carica. Se si vuole anche capacità di governare questa dipende naturalmente dagli elettori, da un lato, che sappiano scegliere bene, ma soprattutto dai partiti perché sono i partiti che producono le persone che vanno a occupare incarichi di governo. E nella riforma di Meloni non c’è assolutamente nulla sui partiti».

C’è chi sostiene che in Italia siamo già oltre il premierato: cioè che abbiamo un “capo”, un super premier che impedisce ai suoi parlamentari di presentare emendamenti su una legge fondamentale dello Stato come la legge di stabilità e, quindi, un Parlamento esautorato della sua prerogativa principale. Lei cosa ne pensa?

«In verità non è esattamente così: la premier può chiedere di non presentare emendamenti, ma il Parlamento lo può fare naturalmente. Di volta in volta si voterà, se le opposizioni sono in grado di trovare gli emendamenti giusti, nei momenti giusti sui punti giusti della legge finanziaria riusciranno comunque a illustrarli, che è quello che conta perché mandano così un messaggio ai gruppi di interesse, ai cittadini interessati, alla stampa e a farli votare. Meloni sta dicendo alla sua maggioranza di non presentare emendamenti, ma ogni parlamentare può avvalersi delle sue prerogative. Insomma, stiamo facendo un casino su cose che Meloni non può ottenere».

E il ruolo del Capo dello Stato in questa riforma pensata da Giorgia Meloni?

«Su questo punto si sono dette tantissime cose che mi permetto di chiamare ‘cazzate’. Se il premier viene eletto direttamente dai cittadini, il Presidente della Repubblica perde il potere di nominarlo, a meno che pensiamo che nominare sia semplicemente registrare, ratificare l’elezione diretta. Poniamo il caso che il premier eletto si dimetta e la sua maggioranza proponga un altro candidato all’interno della maggioranza. Il Presidente della Repubblica può opporsi? No. Inoltre, se il Capo dello Stato perde il potere di nominare il Presidente del Consiglio, perde anche il potere di sciogliere il Parlamento perché se la maggioranza continua ad avere il controllo del Parlamento non ne chiederà lo scioglimento. Poi, di tanto in tanto se lo ricordano, hanno detto che non ci saranno più i senatori a vita. Quindi il Presidente della Repubblica perderà anche il potere di nominare il senatore vita e Pasquino perderà l’ultima chance di entrare in Senato allegramente in pompa magna dall’ingresso principale». (sorride…)

Quindi questa riforma favorirebbe il bipolarismo?

«Il bipolarismo viene incoraggiato certamente, perché se sono gli elettori a dover elegge un Capo del Governo, è probabile, ma non del tutto certo, che ci saranno due soli candidati. Però se lo si voleva davvero incoraggiare, bisognava decidere con un sistema elettorale a doppio turno con ballottaggio. Non vogliono il ballottaggio perché pensano che magari vanno in testa al primo turno e però poi non riescono a raccogliere il consenso di altri elettori. Però non è così che si fa una riforma vera. Il ballottaggio è cruciale: laddove il Capo dello Stato di una repubblica presidenziale o semipresidenziale è eletto direttamente dai cittadini, è previsto sempre il ballottaggio. L’Argentina ha due belle regolette: se un candidato ottiene il 45% dei voti è immediatamente eletto; se un candidato ottiene il 40% dei voti e ha più del 10% di vantaggio sul secondo classificato, è automaticamente eletto, altrimenti si va al ballottaggio, come succederà il 19 novembre. Il governo ha voluto evitare il ballottaggio e ha sbagliato, perché è un potentissimo dispensatore di opportunità politiche: obbliga i due candidati a spiegare perché sono uno meglio dell’altro e c’è un maggior flusso di informazioni; inoltre sono due settimane intensissime nelle quali tutti vogliono sapere tutto e nelle quali si attrae grande interesse da parte degli elettori perché sanno che a quel punto davvero il loro voto è decisivo».

Ci sono ballottaggi famosi che confermano questa tesi…

«Sì. Quello in Francia nel 2002 quando c’erano Chirac e Le Pen: nel passaggio dal primo al secondo turno di ballottaggio, circa un milione e mezzo di francesi in più andò a votare. L’altro ballottaggio importante fu quello fra Giscard d’Estaing e Mitterrand del 1981. Nel passaggio dal primo al secondo turno Mitterrand, che vinse, di nuovo riuscì a mobilitare centinaia di migliaia di elettori in più. Quindi se i due candidati al ballottaggio sono credibili e offrono una vera scelta, gli elettori vanno a votare».

Professore, ma con una destra che supera il 40% dei consensi, la sinistra così frammentata cosa deve fare?

«La sinistra dovrebbe riuscire a convergere su determinate posizioni, come ha fatto sul salario minimo e cioè una riforma vera, importante e significativa su cui la sinistra è riuscita a mettersi d’accordo. Non dovrebbe essere difficile trovare l’accordo su che cosa davvero bisogna inserire nella Costituzione italiana. Il voto di sfiducia costruttivo è l’unico punto che può essere sollevato e introdotto nella Costituzione italiana senza toccare gli altri poteri, senza toccare nessun equilibrio. Tra l’altro, se andiamo a rileggere il famoso ordine del giorno Perassi in Assemblea Costituente, diceva che bisognava trovare i meccanismi di stabilizzazione del governo. La Costituzione italiana venne approvata nel ‘48, un anno dopo i tedeschi introducono il voto di sfiducia costruttiva; gli spagnoli quando tornano alla democrazia nel ‘78 si chiedono come stabilizzare i governi e adottano qualcosa che assomiglia al voto di sfiducia costruttivo».

Ma allora, se garantisce la stabilizzazione dell’azione di governo, perché secondo lei Meloni non vuole la sfiducia costruttiva?

«Questo non l’ho capito. Renzi, a questa domanda esplicita, rispose: “non me lo hanno lasciato fare”, ma non c’è nessuna traccia nel dibattito sulla sua riforma su questo punto. Non capisco perché il governo non voglia introdurla, perché questo è un vero meccanismo di stabilizzazione e la Germania e la Spagna lo dimostrano abbondantemente. È vero, consente un ribaltone ma il ribaltone è votato in maniera esplicita e trasparente dalla maggioranza assoluta dei parlamentari».

 In chiusura, siamo ad un anno dall’entrata in carica del governo Meloni. Facendo un bilancio, che voto dà all’azione di governo e al tipo di opposizione che ha fatto la sinistra?

«Il governo Meloni ha fatto poco, certamente non ha dato il segno di una qualsiasi svolta significativa tranne per lo più quando parlano di diritti civili, diritti delle persone e diritti delle donne, dimostrano di essere abbastanza indietro con le loro proposte, un po’ bigotti e un po’ reazionari. Sul piano dei diritti proprio non ci siamo. Per il resto non sono particolarmente interessati alle diseguaglianze, hanno qualche corporazione da difendere come i balneari, adesso i tassisti, qualche volta i farmacisti e così via. La risposta è 6 meno. La sinistra invece si merita massimo un 5. Dovrebbe imparare a costruire alleanze (politiche, ma anche sociali), trovare delle risposte ad alcuni problemi e convincere quella parte di elettorato italiano che è disposta a cambiare il proprio voto. È una parte che non è grandissima ma è sempre decisiva, il 10 – 12% di italiani guardano quale ’è l’offerta politica e decidono su quella base. Gli italiani devono essere convinti che l’offerta politica della sinistra non solo è migliore di quella di destra, ma può essere attuata, perché non basta offrire la luna e poi non sapere come fare ad arrivarci».

Pubblicato il 12 novembre 2023 su Avanti della domenica


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