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PD: niente di fatto

Come si fa a non essere d’accordo con il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, quando chiede unità al suo partito e ne annuncia l’apertura a chi, dall’esterno, vorrà confluirvi, a cominciare dalle molte liste civiche che hanno evitato al partito sconfitte ancora più pesanti? Si fa, si fa, a cominciare dai renziani definibili come duri, sul “puri” non scommetto, e dal miracolato Calenda. Nonostante la mediazione di Guerini, molti renziani, dal relatore della bellissima legge elettorale che porta il suo nome, già promosso alla vicepresidenza della Camera, Ettore Rosato, a Roberto Giachetti, sconfitto sonoramente nella sua velleitaria corsa alla segretaria, non ci stanno. Immemori di quando il loro leader, assente ingiustificato per l’ennesima volta, “asfaltava” (il verbo ha il copyright di Renzi) i suoi avversari interni, i renziani duri si lamentano per essere stati esclusi dalla segreteria del partito, peraltro, operazione del tutto legittima. Avrebbero dovuto presentare le loro proposte di politiche da fare, in termini di organizzazione del partito e di comunicazione politica (questo un vero punto debole dello Zingaretti pur sorridente), invece di chiedere cariche. Dal canto suo, Calenda rappresenta l’inspiegabile. Delle sue posizioni politiche sappiamo soltanto del no alle Cinque Stelle, ma anche della chiusura alle sinistre fuori del partito. Conosciamo la sua preferenza per qualcosa di centro, ma non ha mai chiarito come ci si arriverà e, poi, per fare che cosa. Sembra credere che le 250 mila preferenze da lui ottenute nella circoscrizione del Nord-Est per andare al Parlamento Europeo siano la misura della sua popolarità e non, invece, quella dello sforzo organizzativo di quel che rimane del PD. Nel complesso, Calenda è un elemento di disturbo, certo tollerabile, ma di nessuna utilità per chi voglia rilanciare il PD. Andrà lui nelle periferie a cercare consensi fra i ceti disagiati? Sarà lui a spiegare come ridurre le diseguaglianze? In verità, preso atto che sono Salvini e, in misura minore, Di Maio che si spartiscono i voti delle periferie e degli svantaggiati, e che hanno ancora molto spazio disponibile, sarebbe preferibile che il PD, a partire dal suo segretario, dedicassero tempo, energie e parole non a riaffermare un’improbabilissima “vocazione maggioritaria”, ma a contrastare quanto fa il governo con controproposte semplici, precise ed efficacemente comunicate. Dare dei populisti ai due vicepremier e alle loro organizzazioni non smuove un voto, non attira nessuna attenzione, non prefigura nessun cambiamento. Che nel governo si litighi sembra a molti italiani addirittura fisiologico né, certo, il PD può dare lezioni di pacificazione e di come andare d’amore e d’accordo. La Direzione non ha fatto nessun passo avanti. Ai sostenitori del PD non resta che sperare che Zingaretti convinca tutti i PD locali a trovare le modalità con le quali praticare l’unità e perseguire l’apertura. S’è già fatto molto tardi.

Pubblicato AGL il 20 giugno 2019


1 commento

  1. Giuseppe Del Zotto ha detto:

    “unità” è una parola che ha senso se riferita a qualcosa che si possa riconoscere in alcuni punti fermi :il PD è questo qualcosa. La proposta possibile è quella di non cercare a tutti i costi un’unità fittizia,ma di una chiarificante suddivisione in partiti e poi di una riunificazione o patto di desistenza in fase elettorale su 3-4 punti e basta.

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